11

Heather suonò il campanello alla porta del laboratorio di Kyle. Non ebbe risposta. Posò il pollice sulla piastrina di riconoscimento, chiedendosi per un istante se lui non l’avesse cancellata dall’elenco. Ma la porta scivolò di lato; Heather entrò senza esitare.

— È lei, professoressa Davis?

— Oh, salve, Cita.

— È un po’ che non passava da queste parti. Piacere di rivederla.

— Grazie. Kyle non c’è?

— Si è dovuto recare all’ufficio del professor Montgomery; ha detto che sarebbe tornato presto.

— Grazie. Aspetterò, tanto… Santo cielo, e quello cos’è?

— Quello quale? — domandò Cita.

— Quel poster. È un Dalí, vero? — Lo stile era inconfondibile, ma si trattava di un’opera che non conosceva: una raffigurazione di Gesù inchiodato su una croce piuttosto inconsueta.

— Esatto — confermò Cita. — Il dottor Graves dice che è stato esposto sotto diversi nomi, ma che è meglio conosciuto come Christus Hypercubus. Cristo sull’iper-cubo.

— E un ipercubo che cos’è?

— Quell’oggetto che si vede nel dipinto. Be’, in effetti non è un vero ipercubo, ma piuttosto un ipercubo sviluppato. — Si accese uno dei monitor sul quadro comandi inclinato di Cita. —Guardi, posso mostrargliene un’altra immagine.

Ecco ciò che apparve sullo schermo:



— Sì, ma in pratica che diavolo sarebbe? — insisté Heather.

— Un ipercubo è un cubo a quattro dimensioni. Talvolta chiamato anche tesseratto.

— Cosa intendevi dire, poc’anzi, quando l’hai definito “sviluppato”?

— Be’, è una domanda davvero interessante. È stato il dottor Kyle a parlarmi degli ipercubi. Li utilizza durante le lezioni del primo anno. Dice che aiutano gli studenti a imparare a visualizzare i problemi in modo nuovo. — Il sistema ottico di Cita ruotò, cercando qualcosa nella stanza. — Vede quella scatola sullo scaffale laggiù?

Heather seguì la direzione visiva di Cita, poi annuì.

— La prenda, per favore.

Stringendosi un poco nelle spalle, Heather obbedì.

— Dunque, quello che ha in mano è un cubo — dichiarò Cita. — Adesso, con l’unghia, estragga la linguetta dalla fessura. La vede?

Heather annuì di nuovo. Fece come aveva detto Cita e la scatola incominciò ad aprirsi. Heather continuò a dispiegarla, poi la distese sulla scrivania. Risultato: sei quadrati disposti a croce, quattro dei quali in fila e due sporgenti ai lati del terzo.

— È una croce — osservò Heather.

I LED di Cita annuirono. — Esatto, ma naturalmente non deve avere per forza quella forma. Esistono undici modi sostanzialmente diversi in cui si può sviluppare un cubo, fra cui una forma a Τ e una forma a S. Be’, non quel cubo lì, che è stato tagliato per aprirsi in quel modo. Comunque, è un esempio di cubo sviluppato… cioè una figura piana, bidimensionale, che può essere ripiegata nella terza dimensione per dar luogo a un cubo. — Gli occhi di Cita tornarono a puntarsi sul poster di Dalí. — La croce del dipinto consiste di otto cubi, quattro dei quali formano il palo verticale, mentre gli altri quattro costituiscono le due coppie di braccia reciprocamente perpendicolari. Si tratta di un tesseratto sviluppato: cioè una figura tridimensionale che può essere ripiegata nella quarta dimensione per dar luogo a un ipercubo.

— Ma… ripiegata come? In quale direzione?

— Come ho detto, nella quarta dimensione, che è perpendicolare alle prime tre, così come l’altezza, la lunghezza e la larghezza sono perpendicolari l’una rispetto all’altra. In effetti, esistono due modi per ripiegare un ipercubo, proprio come quel ritaglio bidimensionale di cartone può essere ripiegato verso l’alto oppure verso il basso: se verso l’alto, avremo all’esterno la faccia bianca e lucida del cartone; se verso il basso, all’esterno verrà invece il lato opaco e ruvido. Tutte le dimensioni possiedono due direzioni: la larghezza ha destra e sinistra; la profondità ha avanti e indietro; l’altezza ha su e giù. Quanto alla quarta dimensione, essa possiede anà e katà.

— Perché questi due termini?

— In greco, anà significa “all’insù” e katà vuol dire “all’ingiù”.

— Quindi, se si prende un gruppo di otto cubi come quelli del dipinto di Dalí e li si ripiega in direzione katà, si ottiene un ipercubo?

— Certo. Ma possiamo anche scegliere la direzione anà.

— Affascinante — commentò Heather. — E secondo Kyle questo genere di riflessioni sarebbe di stimolo ai suoi studenti?

— Così ritiene lui. Quando era studente qui, vent’anni fa, aveva un professore di nome Papineau…

— Me lo ricordo.

— Bene, il dottor Graves sostiene di non rammentare molto degli insegnamenti di Papineau, a parte il fatto che il professore trovava sempre nuovi modi per ampliare la mente ai suoi studenti, suggerendo loro nuovi criteri nell’osservazione delle cose. Quindi adesso sta provando anche lui a fare qualcosa di simile coi propri studenti e…

La porta si aprì ed entrò Kyle. — Heather! — esclamò, sorpreso. — Che stai facendo qui?

— Aspettavo te.

Senza una parola, Kyle raggiunse il pannello di Cita e fece scattare l’interruttore di pausa. — Qual buon vento?

— I messaggi alieni si sono interrotti.

— L’ho saputo. E… alla fine c’era, una stele di Rosetta? Heather scosse il capo.

— Mi dispiace — disse Kyle.

— Anche a me. Ma ciò significa che la caccia al tesoro è ufficialmente aperta. Ormai abbiamo tutto quello che i Centauri cercavano di comunicarci. Adesso è solo questione di tempo prima che qualcuno trovi il bandolo della matassa. Quindi sarò estremamente occupata, di qui in avanti. Mi rendo conto che non poteva capitare in un momento peggiore, ora che oltretutto c’è il problema con Becky, però bisogna che mi ci dedichi interamente. Spero che capirai la mia posizione… non voglio che pensi che ti sto chiudendo la porta in faccia o facendo finta di niente sperando che il problema si risolva da sé.

— Comunque anch’io avrò parecchio da fare — replicò Kyle.

— Davvero?

— L’esperimento con l’elaboratore quantico è fallito. Dovrò ammazzarmi di lavoro per scoprire cosa è andato storto.

In altre circostanze lei avrebbe cercato di consolarlo. Ma adesso, con quell’ombra fra loro, con quella incertezza…

— Peccato — disse. — Davvero. — Lo fissò ancora un poco, poi si strinse nelle spalle. — Sembra proprio che saremo tutti e due molto impegnati. — Tacque, riflettendo. Ma che diamine, la loro separazione non era mai stata intesa come definitiva, e poi, per l’amor di Dio, Kyle di sicuro non poteva aver commesso ciò di cui lo si accusava. — Senti — propose, esitante — sono quasi le cinque, che ne diresti di una cenetta anticipata?

Kyle parve gradire l’invito, ma poi la sua espressione s’incupì. — Purtroppo ho già un appuntamento.

— Oh — disse Heather, chiedendosi inevitabilmente se si trattasse di un uomo o di una donna. — Be’, pazienza.

Si fissarono ancora per qualche istante, poi Heather se ne andò.

Kyle entrò a Persaud Hall e s’incamminò per l’angusto corridoio, fermandosi poco prima di giungere alla stanza 222.

Stone Bentley… bianco, sui cinquantacinque, spelacchiato e non particolarmente in forma… stava parlando con una studentessa fuori del suo ufficio; vide arrivare Kyle e gli fece segno di attendere un momento. Terminò di parlare con la ragazza, che sorrise e si accomiatò.

Kyle si avvicinò. — Salve, Stone. Mi spiace di averti interrotto.

— Macché, figurati. Adoro essere interrotto durante i colloqui.

Kyle rimase perplesso: le parole erano ironiche, ma il tono gli era parso normale.

— Dico sul serio — continuò infatti Stone, — Se devo parlare con una studentessa, mi fermo sempre nel corridoio… e più gente ci vede, meglio è. Vorrei proprio evitare il ripetersi di quello ch’è successo cinque anni fa.

— Ah — disse Kyle. Stone rientrò un attimo in ufficio a prendere la borsa, poi si diressero all’Abbeveratoio. Era un piccolo pub con una ventina di tavolini rotondi e il pavimento di legno. L’illuminazione veniva da lampade in stile Tiffany e le finestre erano coperte da pesanti tendaggi.

Comparve un cameriere. — Una Blue Light — ordinò Stone.

— Whisky di segale con ginger ale — preferì Kyle.

Ripartito il cameriere, Stone rivolse la propria attenzione a Kyle; strada facendo avevano parlato del più e del meno, ma adesso, era chiaro, Stone riteneva fosse giunto il momento di conoscere il motivo dell’incontro. — Allora — esortò — che mi dici di bello?

Era tutto il pomeriggio che Kyle ci rimuginava, ma venuti al dunque si accorse che il discorsetto già pronto in mente non gli andava più a genio. Così improvvisò. — Ho… ho un problema, Stone. E ho bisogno di parlarne con qualcuno. Lo so che non siamo mai stati in grande intimità, ma ho sempre pensato a te come a un amico.

Stone lo fissò senza replicare.

— Mi spiace — continuò Kyle. — Lo so che sei occupato. Non avrei dovuto romperti le scatole.

Stone esitò un istante, prima di domandare: — Cosa c’è che non va?

Kyle abbassò lo sguardo. — Mia figlia… — S’interruppe e Stone aspettò semplicemente che si decidesse a proseguire. Finalmente Kyle si sentì pronto. — Mia figlia mi ha accusato di averla molestata. — Poi attese l’inevitabile domanda: “L’hai fatto davvero?”. Ma la domanda non venne.

— Oh — disse Stone.

Kyle non poteva sopportare che quella domanda non gli venisse rivolta. — Io, però, non mi sono mai macchiato di una simile colpa.

Stone annuì.

Ricomparve il cameriere con le bevande.

Kyle rimase in silenzio a fissare il suo whisky vorticante nel ginger ale, in attesa che Stone si decidesse ad ammettere che comprendeva il nesso, che capiva per qual motivo Kyle si fosse, fra tanti, rivolto proprio a lui. Ma Stone faceva orecchie da mercante.

— Anche tu ci sei passato, no? — lo sollecitò allora. — Dico, dover subire una falsa accusa.

Stone distolse lo sguardo. — Roba vecchia, ormai.

— Sì, ma come te la sei cavata? Come hai fatto a liberartene?

— Eppure sei qui — rispose Stone. — Hai pensato a me. Non è evidente? Quella merda non te la scrolli più di dosso.

Kyle bevve un goccio dal suo bicchiere. Benché nel bar fosse ovviamente vietato fumare, l’atmosfera sembrava opprimente, soffocante. Fissò Stone dritto in volto. — Io sono innocente! — scandì, sentendo il bisogno di ribadirlo.

— Hai altri figli? — domandò Stone.

— Avevamo una figlia più grande, Mary. S’è uccisa poco più di un anno fa. Stone si accigliò. — Ah.

— Lo so che cosa stai pensando. Ancora non sappiamo con certezza il motivo, però sospettiamo che un analista possa avere instillato falsi ricordi in entrambe le ragazze.

Stone mandò giù un sorso di birra. — Quindi adesso che avresti intenzione di fare?

— Non lo so. Ho già perso una figlia. Non voglio perdere anche l’altra.


Il pomeriggio si trascinò lentamente. Scese la sera. Stone e Kyle continuarono a bere, la conversazione divenne meno seria e Kyle si accorse a un certo punto che la tensione gli si acquietava.

— La televisione è diventata odiosa — dichiarò Stone. Sguardo interrogativo di Kyle.

— M’è toccato un corso estivo — continuò Stone. — Ieri in classe ho accennato ad Archie Bunker. Nessuno l’aveva mai sentito nominare.

— Davvero?

— Davvero. I ragazzi, oggi, mica li conoscono i classici. I Love Lucy, All in the Family, Barney Miller, Seinfeld, The Pellatt Show… nemmeno uno ne conoscono.

— Be’, anche il Pellatt, ormai, è roba di dieci anni fa — osservò Kyle garbatamente. — Il fatto è che purtroppo stiamo invecchiando.

— No — ribatté Stone. — Non è mica questo il motivo.

Lo sguardo di Kyle si poggiò fugacemente sulla zucca pelata di Stone, per poi guizzare a considerarne la frangia nivea che l’incespugliava d’ambo i lati.

Stone parve non farci caso. Alzò la mano a prevenire obiezioni. — So cosa stai pensando — disse. — Stai pensando che i ragazzi al giorno d’oggi seguono trasmissioni diverse e che io non sono altro che un vecchio baggiano che non è più al passo coi tempi. — Scosse la testa. — Ma il punto non è lì. Be’, cioè, no, credo anch’io che il punto è quello, in un certo senso, ma solo in parte. I ragazzi guardano trasmissioni diverse, d’accordo. Però, vedi, tutti i ragazzi guardano trasmissioni diverse. Mille canali fra cui scegliere, che piovono da ogni buco di questo lercio mondo, più tutta la tivù merda casalinga buttata in rete dai dilettanti. — Riprese fiato con una sorsata di birra. — Ma lo sai quanto si beccò Jerry Seinfeld per l’ultima serie di Seinfeld nell’annata novantasette-novantotto? Un milione di dollari a puntata… dollari USA, oltretutto! E sai perché? Perché a seguirlo c’era mezzo mondo. Di questi tempi, invece, tutti quanti scelgono robe diverse. — Gli cadde lo sguardo in fondo al boccale. — Comunque, spettacoli come Seinfeld non li fanno più. Kyle annuì. — In effetti era un buon programma.

— Erano tutti buoni programmi. E non solo i varietà, ma anche gli sceneggiati. Hill Street Blues, Perry Mason, Colorado Springs… E pensare che nessuno adesso li conosce più.

—Tu sì e io pure.

— E lo credo. Gente della nostra generazione, gente svezzata nel Ventesimo secolo. Ma i ragazzi di adesso… non hanno cultura, ecco. Gli manca una base comune.

— Un altro sorso di birra. — Marshall aveva torto, diciamo la verità. — Sebbene Marshall McLuhan fosse morto ormai da trentasette anni, molti esponenti dell’ambiente universitario continuavano a ricordarlo semplicemente come “Marshall”, il professore che aveva recato fama e lustro all’UDT. — Secondo lui, i nuovi media stavano trasformando il mondo in un villaggio globale… E allora sai che ti dico? Che il villaggio globale è stato balcanizzato.

— Fissò Kyle. — Tua moglie insegna Jung, giusto? Quindi traffica con gli archetipi e tutta quell’altra sguana, no? Bene, nessuno condivide più un accidente di niente. E senza una cultura comune, la civiltà è condannata.

— Può darsi — concesse Kyle.


Trascorse altro tempo e altro alcol andò per la sua strada.

— La vuoi sapere una cosa davvero curiosa? — domandò Kyle a un certo punto. — Io vivevo in una casa con tre donne… mia moglie e le mie due figlie. E non ci crederai, ma avevano finito per essere sincronizzate. E te lo dico io, Stone, può essere una cosa bestiale. Fai conto di camminare in un campo minato una settimana al mese.

Stone si mise a ridere. — Dev’essere stato micidiale.

— È strano, comunque. Voglio dire, come fa a succedere una cosa del genere? Sembra quasi… non so… sembra quasi che a loro gli riesce di comunicare chissà come a un livello superiore, in una maniera che noi maschi non possiamo percepire.

— Ci scommetto che sono i feromoni — sentenziò Stone, ammiccando con aria saputa.

— Sia quel che sia, è una cosa impressionante. Pare uscita dritta dritta da Star Trek.

Star Trek — gli fece eco Stone in tono sprezzante. Poi diede il colpo di grazia alla sua quarta birra. — Non parlarmi di Star Trek!

— Su, avanti, sputa, che hai da dire contro Star Trek?

— Solo che non c’era mai coerenza. Ecco, metti che tutti quelli che lo scrivevano erano donne e vivevano tutte quante nella stessa casa, allora magari può essere che anche lì era tutto sincronizzato.

— Ma di che diavolo stai parlando? Io a suo tempo avevo messo insieme un sacco di materiale di riferimento… modellini, progetti, manuali. Sono stato trekkista convinto fino a tutta l’università. E questi attentati alla coerenza non li ho mai visti, se lo vuoi sapere.

— E invece ti dico io che se ne infischiavano, del materiale di riferimento.

— Avanti, su, fammi un esempio.

— Dunque, vediamo… quale preferisci, fra tutti i Trek.?

— Mah, non lo so… Il film L’ira di Khan, credo.

— Ottima scelta. Ricardo Montalban a petto in fuori senza trucchi e senza inganni.

— Ma dai, figuriamoci.

— No, sul serio, tutta roba genuina. Gran bella muscolatura per un uomo della sua età. Comunque, lasciamo perdere le boiate più ovvie… tipo Khan che riconosce Chekov anche se Chekov non era ancora nella serie tivù al momento che compare Khan. No, andiamo un po’ a spulciare i tuoi decantati manuali tecnici. Sopra e sotto la sezione a disco dell’Enterprise, lungo il margine, si vedono delle piccole chiazze gialle. Secondo i progetti si tratta di propulsori per il controllo dell’assetto. Dunque, verso la fine del film, Shatner ordina di far scendere la nave di “meno diecimila metri”. E l’Enterprise esegue a puntino… ma i propulsori non si accendono mai.

— Balle, sono sicuro che non avrebbero mai fatto un errore del genere. Ci stavano parecchio attenti.

— Controlla da te. Ce l’hai il videochip?

— Sicuro che ce l’ho. Qualche anno fa, per Natale, mia figlia Mary mi regalò una confezione con tutti i film della serie originale.

— E allora coraggio, controlla e vedrai.


Il giorno dopo, martedì primo agosto 2017, Kyle chiamò Heather ottenendo il permesso di passare da casa quella sera.

Appena entrato andò dritto in soggiorno e si mise a frugare in mezzo ai libri.

— Ma che diavolo stai cercando? — volle sapere Heather.

— La mia copia di Star Trek II.

— Quello con le balene?

— No, quello è il quattro. Il due è quello con Khan.

— Ah, già. — Sollevò la mano stretta a pugno davanti al viso come se impugnasse un comunicatore e ingegnandosi a imitare William Shatner gridò: — Khannnn! — Poi, indicando: — Guarda un po’ nello scaffale laggiù.

Kyle attraversò di volata la stanza e trovò il videochip in questione. — Ti dispiace? — domandò, indicando il display appeso alla parete. Heather scosse la testa. Kyle inserì la cartuccia nel lettore, poi si sedette sul divano di fronte al teleschermo. Prese il telecomando e pigiò il dito sull’avanti veloce.

— Cos’è che stai cercando? — gli chiese Heather.

— Conosco un tizio ad Antropologia che dice che nel film c’è un errore… una scena dove si dovrebbero accendere certi propulsori che invece restano spenti.

Heather sorrise indulgente. — Fammi un po’ capire. Riesci a farti propinare senza batter ciglio quella storia dell’Onda Genesi capace di trasformare in poche ore uno sterile ammasso di roccia in un completo ecosistema… e poi fai storie perché i propulsori non si accendono?

— Sss! — intimò Kyle. — Ci siamo quasi.

Le porte del ponte si aprono sibilando. Entra Chekov, con un cerotto sull’orecchio. L’equipaggio lo guarda né più né meno come guarderemmo qualcuno cui di recente sia strisciato fuori dalla testa un parassita alieno. Chekov prende posto alla console tattica. Seguendo lui, l’inquadratura rivela Uhura, Sulu, Saavik, Kirk e Spock, tutti con indosso quelle uniformi di panno cremisi che li fanno sembrare altrettanti agenti della polizia canadese a cavallo. Kirk lascia la postazione centrale e si avvicina a Spock. Stanno cercando di sfuggire, attraverso la Mutara Nebula, inseguiti da Khan Noonien Singh, che si è impadronito di un’astronave della Federazione.

— Non rinuncerà mai — dice Kirk osservando il visi-schermo principale, pieno d’interferenze causate dalla nebulosa. — Mi ha seguito fin qui. Tornerà. Vorrei sapere da dove.

Spock alza lo sguardo dal rilevatore. — È intelligente, ma non ha molta esperienza. Il suo campione indica… pensieri bidimensionali. — Nel pronunziare il termine “bidimensionali” il vulcaniano solleva le sue vertiginose sopracciglia, lui e Kirk si scambiano un’occhiata eloquente, poi un gelido sorrisetto malizioso appare sul volto di Kirk. Egli torna al posto di comando e fa cenno a Sulu. — Fermare.

Sulu manovra i controlli. — Eseguito, signore.

Kirk si rivolge a Sulu: — Meno diecimila metri. — Poi a Chekov. — Pronti i siluri fotonici.

Ed ecco il punto: un’inquadratura dell’Enterprise esattamente dall’alto. Kyle aveva sempre ammirato, nei film della serie classica, il sistema dì autoilluminazione della nave, con quel fascio di luce concentrato che dalla parte centrale rilevata della sezione a disco mette in evidenza la sigla NCC-1701. Proprio sotto il vascello si scorgeva in parte il turbinante maelstrom rosaviolaceo della Mutara Nebula.

Kyle pensò per un istante che Stone avesse preso un abbaglio… c’erano senza dubbio delle luci che lampeggiavano sul bordo del disco. Tuttavia erano collocate esattamente a prua e a babordo: semplici fari di posizione. Quella di dritta non funzionava e ciò confermò a Kyle che davvero notevole era la cura dei particolari, essendo stato quel fianco della nave precedentemente danneggiato in battaglia.

Però… al diavolo, aveva ragione Stone. I quattro gruppi di propulsori per il controllo dell’assetto, chiaramente visibili sulla superficie superiore della sezione a disco, disposti ciascuno a quarantacinque gradi rispetto alla linea centrale, rimanevano irrimediabilmente spenti.


Heather, appoggiata alla parete, guardava Kyle che guardava il film. E si divertiva più di lui. Suo marito, lo sapeva, pensava che William Shatner fosse un attore straordinario. C’era qualcosa che faceva tenerezza, in quella sua totale mancanza di gusto. D’altronde, rifletté, pensa anche che io sia bellissima. Bisognerebbe andarci piano, nel rendere più esigente il metro di giudizio degli altri.

Mentre Kyle seguiva il film sino alla conclusione, Heather centellinò un bicchiere di vino bianco.

— Mi è sempre piaciuto, quel Khan — dichiarò infine con un sorriso, andandosi a sedere anche lei sul divano. — Uno che diventa completamente matto quando gli muore la moglie… proprio com’è giusto che sia.

Kyle le sorrise di rimando.

Ormai era un anno che viveva da solo, ma nessuno aveva mai parlato di una scelta definitiva. Si sarebbe dovuto trattare di appena qualche settimana: per dare a loro due un poco più di spazio, un poco più di tempo, un poco più d’intimità.

Poi, all’improvviso, anche Becky aveva deciso di andarsene.

E Heather era rimasta sola.

E in qualche modo era sembrato che non ci fosse quasi più senso a far tornare Kyle, a cercar di rimettere insieme i cocci della famiglia.

Già, la famiglia… non c’era mai stato neppure bisogno di attribuirle un nome preciso: né i Graves, né i Davis, semplicemente la famiglia.

Riscaldata dal vino, Heather scrutava Kyle. Come lo amava. La sua esperienza con Josh Huneker non aveva mai offerto risvolti altrettanto elettrizzanti. Il rapporto con Kyle era sempre stato più profondo, più importante, più soddisfacente a tutti i livelli. Sebbene lui fosse rimasto per tanti versi un ragazzino… con quella sua passione per Star Trek e un milione di altre cose che la divertiva e le inteneriva il cuore.

Tese la mano, poggiandola su quella di lui.

E lui rispose, ponendo l’altra mano su quella di lei.

Lui sorrise.

Lei sorrise.

Poi si accostarono, congiungendosi in un bacio.

Nel corso di quell’anno c’erano già stati altri baci, meccanici e sbrigativi, ma stavolta si lasciarono coinvolgere. Le loro lingue si toccarono.

Con l’attivazione dello schermo a parete, le luci si erano affievolite automaticamente. Kyle e Heather si fecero più vicini.

Proprio come ai vecchi tempi. Si baciarono ancora un poco, quindi lui prese a mordicchiarle il lobo di un orecchio e ne percorse con la lingua i contorni delicati.

Poi la sua mano riscoprì l’emozione di carezzarle il petto, palpeggiando il capezzolo fra pollice e indice attraverso il tessuto della camicia.

E lei si sentiva sempre più accaldata… erano il vino, il desiderio represso, la sera d’estate.

La mano di lui riprese a vagare, scendendo a palpitarle sul grembo, scivolando lungo la coscia verso l’inguine.

Così come tante volte in passato.

Ma d’un tratto lei s’irrigidì, i muscoli delle cosce le si contrassero.

Kyle allontanò la mano. — Cosa c’è che non va? Heather lo guardò fisso negli occhi. Se solo avesse saputo. Se solo avesse potuto essere certa.

Chinò lo sguardo.

Kyle sospirò. — Sara meglio che vada — disse.

Heather chiuse gli occhi e non lo trattenne.

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