32

Heather invitò a cena Kyle per la sera dopo.

C’erano tante di quelle cose che gli voleva dire, tante di quelle cose da chiarire… Quando poi se lo trovò davanti, si accorse di non saper da che parte cominciare. Così decise di prenderla un poco alla lontana, la teoria innanzitutto, da professore a professore.

— Ritieni possibile — gli domandò — che entità all’apparenza distinte e separate in tre dimensioni facciano parte, in quattro dimensioni, di un unico insieme più grande?

— Senza dubbio — rispose Kyle. — È uno di quei concetti che ripeto spesso ai miei studenti. Per convincersene basta adottare un ragionamento deduttivo, osservando come appaiano, in due dimensioni, gli oggetti tridimensionali. Un mondo bidimensionale equivale a un piano, come un foglio di carta. Se facessimo passare verticalmente una ciambella attraverso un piano orizzontale, un ipotetico abitante del mondo bidimensionale, privo della percezione tridimensionale, non vedrebbe la ciambella, bensì le sue intersezioni col piano, cioè ben cerchi ben distinti.

— Esattamente — approvò Heather. — Esattamente. E adesso ascolta. Che ne diresti se “umanità”, questo nome collettivo che usiamo tanto spesso, a livello più elevato fosse un nome singolare? Se cioè quelli che percepiamo in tre dimensioni come sette miliardi di individui separati altro non fossero che manifestazioni di un’unica, gigantesca entità?

— Be’, una ciambella è un poco più facile da visualizzare, comunque…

— Lascia perdere la ciambella. Pensa invece a… ecco, pensa a un riccio di mare, a una sfera da cui fuoriescono un gran numero di aculei. E al posto del foglio di carta prendi un velo di nailon, tipo il materiale di cui sono fatte le calze. Se il nailon fosse avvolto attorno al riccio, vedresti sporgere tutte quelle punte e ti verrebbe naturale considerare ciascuna di esse un elemento separato dagli altri, non ti sarebbe facile comprendere che invece sono tutte attaccate a un centro comune, che si tratta solo di estensioni di qualcosa di più grande.

— Un concetto interessante, senza dubbio — ammise Kyle. — Tuttavia, personalmente, preferisco le teorie che possono essere sottoposte al vaglio della prova.

— D’accordo, ma se questa prova fosse già stata effettuata? — Heather si fermò a riflettere, cercando il modo migliore per andare avanti. — Certo, gran parte delle cosiddette esperienze psichiche sono solo fandonie, smontabili in quattro e quattr’otto, giustificabili in termini banali. Però di tanto in tanto, in rare occasioni, magari a distanza di anni, si verificano casi che non possono essere spiegati tanto facilmente. Tali eventi, in effetti, si mostrano refrattari a qualunque interpretazione scientifica in quanto non riproducibili, si verificano una volta sola sottraendosi con ciò all’indagine. Prova dunque a immaginare che in circostanze particolari, diciamo pure eccezionali, due aculei del nostro riccio, normalmente separati, si pieghino l’uno verso l’altro giungendo a toccarsi per brevi istanti… Quale sarebbe il risultato? Non si potrebbe in tal modo spiegare la telepatia e…

Kyle, accigliato, scuoteva la testa. — Oh, ma per favore, Heather, tu alla lettura del pensiero ci credi quanto ci credo io!

— Non credo che la gente possa farla a piacimento, questo no. Però come manifestazione occasionale è tramandata sin dagli albori della civiltà, quindi qualcosa di vero potrebbe anche esserci. Lo stesso Jung, negli ultimi anni, sostenne che il funzionamento dell’inconscio sfugge al meccanismo causa-effetto e alle normali leggi della fisica, rendendo possibili fenomeni come la chiaroveggenza e la precognizione.

— A quel punto era solo un vecchio rincoglionito.

— Può darsi, però per esempio il mio preside ha preso il dottorato alla Duke, dove hanno fatto un mucchio di esperimenti interessanti sulle percezioni extrasensoriali, e secondo lui…

— Tutti esperimenti che non reggono a un’analisi serrata.

— Be’, certo, nessuno dice che la lettura del pensiero sia una scienza esatta, tuttavia esistono effettivamente diversi studi molto seri secondo i quali, in condizioni di deprivazione sensoriale, certe persone sono in grado d’indovinare, con precisione al di fuori della norma, quale di quattro possibili scelte sia stata effettuata da un altro soggetto. Basandosi sulla pura casualità ci si dovrebbe attendere in media una percentuale di successi del venticinque per cento, ma ricerche condotte da Honorton nel New Jersey hanno fornito una percentuale positiva dal trentatré al trentasette per cento, e un gruppo selezionato di venti soggetti ha fatto salire la percentuale addirittura al cinquanta per cento. E la supermente quadridimensionale…

— Ah — la interruppe Kyle sorridendo. — La famosa SMQD…

— La supermente quadridimensionale — ripeté Heather con decisione — fornisce un modello teorico che può giustificare il verificarsi di occasionali collegamenti telepatici.

— Starai mica escogitando di farti scucire soldi per una nuova ricerca, eh? — domandò Kyle continuando a sorridere.

Anche Heather sorrise, ma dentro di sé: se c’era una cosa che non le sarebbe più mancata, erano proprio i finanziamenti. — Questo modello potrebbe anche spiegare certi lampi di genio — continuò. — Specialmente quelli che si verificano durante il sonno. Ricordi l’episodio raccontato da Kekulé a proposito della scoperta della struttura chimica del benzene? Egli sognò un anello di atomi che poi risultò corrispondere esattamente alla realtà. Ma forse non giunse da solo a quella grande intuizione. — Heather si fermò a riflettere un istante. — Già, e forse nemmeno io sono giunta da sola a elaborare questo concetto. Forse il motivo per cui dormiamo tanto è che durante il sonno interagiamo più da vicino con la supermente. Forse i sogni hanno luogo allorché le esperienze diurne di ciascuno vengono scaricate nella super-mente. Come sai, impedire a una persona di sognare può portare a conseguenze gravissime. Farmaci pericolosi ce ne sono a bizzeffe, ma assumere una sostanza che inibisca la funzione onirica significa condannarsi a morte. Perché il contatto con la supermente è essenziale. E, ora che ci penso, è probabile che quando qualcuno sta cercando di arrivare a capo di un problema, talvolta non sia solo, nell’impresa. È un po’ come il principio di funzionamento del tuo elaboratore quantico: l’apparecchio di cui disponi tu effettua solo una minima parte del calcolo complessivo, ma nel frattempo lavora in tandem con tutti gli altri. Può darsi benissimo che a volte, durante il sonno, nel contatto con la supermente noi si tragga beneficio dal pensiero creativo di altre persone.

— Non te ne avere a male, ma tutto ciò mi sa tanto di certi sproloqui New Age… — commentò Kyle.

Heather fece spallucce. — Se è per questo, la tua meccanica quantistica risulta completamente incomprensibile alla maggior parte della gente, eppure è il modo in cui funziona l’universo. — S’interruppe, poi riprese il filo del discorso attratta da un altro aspetto della questione. — Chissà che salti di gioia farebbero, i seguaci di Noam Chomski, a illustrargli questa teoria. Nel suo Le strutture della sintassi, Chomski avanza l’ipotesi che il linguaggio sia innato. Che noi, cioè, non impariamo a parlare allo stesso modo in cui impariamo ad allacciarci le scarpe, o ad andare in bicicletta. Secondo lui gli esseri umani sarebbero provvisti di un’intrinseca capacità linguistica: particolari circuiti cerebrali che consentirebbero alle persone di acquisire ed elaborare il linguaggio senza alcuna consapevolezza cosciente delle sue complesse regole. Quando correggi i compiti degli studenti l’ho sentito dire anche a te: “Sono sicuro che questa frase è scorretta dal punto di vista grammaticale; non saprei spiegare esattamente perché, ma so che è così”.

Kyle annuì. — È vero. Ricordo di aver fatto più volte un’osservazione del genere.

— Quindi tu, come chiunque altro o quasi, possiedi evidentemente il senso del linguaggio. Ma secondo la teoria di Chomski, con questo senso ci si nasce, e ciò induce a presumere che esso debba essere presente già nel codice genetico.

— Sembrerebbe logico.

— E invece non lo è — si affrettò a correggerlo Heather. — Philip Lieberman ha infatti evidenziato una grossa pecca nella teoria chomskiana. Chomski afferma, in sostanza, che nel cervello di ogni essere umano è presente un identico organo del linguaggio. Ma ciò non è possibile. Non esistono caratteristiche geneticamente determinate che siano identiche in tutte le persone. Avvengono continuamente delle variazioni. L’organo del linguaggio dovrebbe quindi manifestare la stessa variabilità che osserviamo per il colore della pelle e degli occhi, per la statura, per la predisposizione ai disturbi cardiaci, e via dicendo.

— E perché mai, se è lecito?

— Perché non potrebbe essere altrimenti. Lo impongono le leggi della genetica. Segui il mio ragionamento. Ci sono persone che digeriscono i cibi in modo diverso dal normale: un diabetico digerisce in una certa maniera, una persona con intolleranza al lattosio in un’altra maniera. Anche individui ritenuti perfettamente sani possono mostrare scarti significativi, per esempio nel tipo e nella quantità degli enzimi utilizzati. A livello sociale, comunque, ciò non ha importanza: il processo digestivo è una questione assolutamente personale e il modo in cui io mi gestisco il mio non ha alcuna influenza sul modo in cui tu ti gestisci il tuo. Il linguaggio, invece, deve necessariamente essere condiviso… altrimenti in che consiste la sua utilità? Se avvenissero variazioni nel modo in cui io e te elaboriamo mentalmente il linguaggio, non saremmo in grado di comunicare.

— Non sono d’accordo. Cita capisce e si fa capire, eppure utilizza svariate procedure di elaborazione vocale che non si rifanno ad alcun modello umano, ma si basano invece su ingegnosi algoritmi e tecniche avanzate di programmazione.

— Certo, variazioni di modesta entità, che non comportino differenze vistose, non impediscono la trasmissione del significato. Ma proviamo appunto a considerare una sottigliezza linguistica che probabilmente metterebbe in imbarazzo Cita. Io e te concorderemo sul fatto che “grande palla gialla” è una costruzione corretta, mentre l’espressione “gialla palla grande”, se non completamente errata, è senza dubbio anomala… eppure a scuola non ci hanno mai insegnato che la grandezza è più importante del colore. In pratica, tutte le persone che parlano una stessa lingua si trovano d’accordo su minuzie sintattiche che non hanno mai costituito oggetto di esplicito insegnamento. E Chomski sostiene che ciascuna delle circa cinquemila lingue diverse parlate attualmente nel mondo, oltre a tutte le lingue esistite nel passato, segue sostanzialmente le medesime regole. In ciò ha probabilmente ragione: acquisiamo e utilizziamo il linguaggio con tale straordinaria facilità che esso dev’essere innato. Tuttavia non può essere innato geneticamente: come sottolineato da Lieberman, ciò violerebbe una legge fondamentale della biologia, che non solo consente entro certi limiti la diversità individuale, ma ne è al tempo stesso indirizzata in senso evolutivo. C’è anche da dire che nell’ambito del Progetto Genoma Umano non si è riusciti a identificare alcun gene, o combinazione di geni, su cui potesse basarsi l’organo del linguaggio congetturato da Chomski. Il che ci porta a una domanda inevitabile: se è innato e non è di origine genetica, da dove viene?

— E a questo punto, immagino, entra in gioco la tua presunta supermente.

Heather allargò le braccia. — Perché no? Non ti sembra un’ipotesi sensata? Oltretutto non è solo il linguaggio a sembrare precostituito. Anche i simboli sono patrimonio comune di individui e culture. È quello che Jung chiamava “inconscio collettivo”.

— Ma di sicuro lo intendeva come una metafora.

Heather annuì. — All’inizio sì. Comunque il bagaglio di simboli e idee che noi tutti condividiamo è veramente ricchissimo. Conosci il libro di Joseph Campbell L’eroe dai mille volti? Lo uso in uno dei miei corsi. Dimostra come narrazioni mitologiche sostanzialmente simili siano presenti in culture lontanissime fra loro. Che spiegazione dai a un fatto del genere? Semplici coincidenze? Altrimenti che cosa?

— Di nuovo la supermente, mi dirai. Però, via, è un concetto così bizzarro…

— Lo credi davvero? Pensaci bene. Il principio del rasoio di Occam ti invita a scegliere la soluzione col minor numero di elementi. Postulando nient’altro che la super-mente si può risolvere ogni genere di problemi di linguistica, mitologia comparata, psicologia e persino parapsicologia. In effetti si tratta della soluzione più semplice e in tal caso…

L’orologio sul caminetto intonò il quarto d’ora.

— Oh! — s’interruppe Heather. — Scusa, mi sono lasciata prendere la mano, chiacchierona che non sono altro, e comunque ormai non ce la faccio a spiegarti tutto, fra poco abbiamo visite.

— Chi?

— Becky.

Kyle s’irrigidì visibilmente. — Non sono affatto sicuro di volerla vedere. Maledizione, perché non mi hai detto che veniva anche lei?

Heather allargò le braccia. — Perché volevo esser certa che tu non ti rifiutassi. Ascolta, ti garantisco che andrà tutto bene, devi solo avere…

Giunse il rumore della serratura che scattava. Becky aveva aperto da sé, invece di suonare il campanello.

La porta d’ingresso si spalancò. Immobile sulla soglia, rigida, incerta, una sagoma esile si stagliò qualche tempo contro l’oscurità, prima di entrare e dirigersi titubante verso le scale.

Kyle indugiava in piedi accanto alla finestra del soggiorno, sforzandosi di respirare normalmente. Giunta nella stanza, Becky esitava in silenzio. Dalla finestra aperta, il sibilo di un libratore in transito e il cicaleccio di un gruppo di ragazzi che si allontanava sul marciapiede.

— Papà — osò finalmente Becky.

Era la prima volta, da più di un anno, che Kyle la udiva pronunziare quella parola. Teso, indeciso sul da farsi, si limitò ad attendere.

— Papà — ripeté Becky. — Mi dispiace tanto.

Il cuore gli martellava, il respiro gli si mozzava in gola. Sforzandosi di balbettare qualcosa si sentì riaffiorare alle labbra quell’ultima, inutile frase, che come un addio era rimasta impigliata ai brandelli del suo orgoglio di padre: — In vita mia non ti ho mai fatto del male.

— Lo so — rispose Becky. Colmò un poco della distanza che li separava. — Sapessi come sono mortificata. Non era mia intenzione ferirti a quel modo.

Kyle si domandò se la voce gli avrebbe retto. C’era ancora tanta di quella rabbia, tanto di quel risentimento in lui…

— Cosa ti ha fatto cambiare idea? — riuscì ad articolare.

Becky diede un’occhiata a sua madre, poi chinò lo sguardo al pavimento. — Mi… mi sono resa conto che non potevi assolutamente avere fatto una… una cosa come quella.

— Prima però eri sicura, eh? — Nitide e aspre, le parole gli sfuggirono di getto prima che riuscisse a trattenersi.

Becky fece un lieve cenno di assenso. — Lo so. Lo so. Ma ho ricontrollato ciò che mi ha fatto l’analista, le tecniche che ha usato. Io… non lo sapevo che si potessero fabbricare ricordi falsi. — Incrociò di sfuggita lo sguardo di suo padre, poi tornò a fissare il tappeto.

— Quella miserabile — disse Kyle. — Guarda che disastro ha combinato.

Becky fissò di nuovo sua madre, e lui se ne accorse. Quelle due evidentemente se la intendevano, ma erano ancora tante le cose da chiarire…

— Per ora lasciamola perdere — disse Becky. — Ti prego. L’importante è che il malinteso fra noi sia finito… o almeno spero, se mi vorrai perdonare.

Lo scrutò, stavolta più a lungo, coi suoi grandi occhi scuri. Kyle fece di tutto per rimanere impassibile. Ancora non sapeva bene che atteggiamento assumere. Era stato ridotto a brandelli, messo alla gogna, marchiato a fuoco… e adesso, così di punto in bianco, tutto finito e, amici come prima?

Come faceva ad accontentarsi di un paio di scuse? Erano ferite, quelle, che ci avrebbero impiegato decine di anni, a rimarginarsi. Ciò nonostante…

Ciò nonostante, più d’ogni altra cosa, proprio questo aveva desiderato. Non che si fosse messo a pregare, ovviamente, se però avesse mai deciso di pregare per qualcosa, l’avrebbe fatto affinché sua figlia riconoscesse il proprio errore.

— Ma adesso, sei proprio sicura? — le domandò. — Non sarà che poi cambi di nuovo idea? Non potrei sopportarlo, sai, se per caso…

— Non cambierò idea, papà. Te lo prometto. Dunque era davvero finita? L’incubo si era veramente dissipato? Quante interminabili notti insonni trascorse a vagheggiare di poter rimettere indietro le lancette dell’orologio… e adesso sembrava che proprio questo lei gli stesse, in sostanza, offrendo.

Ripensò al povero Stone impalato fuori del proprio ufficio, costretto a incontrare le studentesse in corridoio.

Becky attese immobile ancora un poco, quindi gli si avvicinò di un passettino. Kyle ebbe un ultimo istante di esitazione, poi dischiuse le braccia, accogliendola. Lei gli crollò d’un tratto in pianto sulla spalla.

— Mi dispiace, papà, mi dispiace tanto tanto… — balbettava fra i singhiozzi.

Kyle non trovava parole. Non si può spengere la collera girando un interruttore.

La tenne a lungo stretta così. Da quanto tempo non l’abbracciava… L’ultima volta doveva essere stato per i suoi sedici anni. Sentiva umido sulla spalla. Le lacrime di Becky gli avevano inzuppato la camicia. Un attimo d’indecisione… uno spasimo d’ansia che probabilmente l’avrebbe accompagnato per il resto dell’esistenza… poi sollevò la mano a riconoscere, in una carezza, i morbidi neri capelli di lei.

Il silenzio si protrasse, acquietando gli animi. Infine Becky, scostandosi un poco, sollevò lo sguardo verso suo padre. — Ti voglio bene — gli disse, asciugandosi gli occhi.

Kyle brancolava ancora in cerca di equilibrio, ma la risposta gli sgorgò quasi spontanea: — Anch’io ti voglio bene, Becky.

Lei reclinò il capo scuotendolo lievemente.

Vincendo un’altra esitazione, Kyle le sollevò il mento con gesto delicato. — Qualcosa che non va?

— Non “Becky” — rispose sua figlia. Gli occhi arrossati s’illuminarono di un sorriso. — Testolina.

Ora toccò a lui non riuscire a trattenere le lacrime. Stringendola forte di nuovo fra le braccia, stavolta davvero non conobbe incertezza: — Anch’io ti voglio bene… Testolina.

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