Heather tornò al laboratorio di Paul Komensky nel tardo pomeriggio del giorno successivo. Il minirobot stava ancora dandosi da fare, comunque aveva esaurito gran parte del terzo e ultimo foglio di substrato. — Questione di pochi minuti — dichiarò Paul andandole incontro.
— Benissimo. — A Heather venne in mente di aver sentito dire che quanto ai tempi di consegna mai fidarsi delle promesse di un ingegnere…
Come a voler dimostrare che non era poi così in ritardo, Paul accennò ai due capaci contenitori, che in effetti erano quasi pieni di piccoli pezzi rettangolari di substrato verniciato.
Heather si avvicinò ai contenitori e prese le prime due formelle che le capitarono a tiro. Le incastrò insieme, constatando che l’aggancio era perfetto.
L’automa emise un insistente pigolio elettronico. Girandosi, Heather vide che gli intralciava il passo e si scansò. La macchinetta raggiunse il secondo contenitore, vi depositò una formella, poi cinguettò una diversa serie di segnali e si fermò.
— Fatto — annunciò Paul.
Heather provò a sollevare uno dei contenitori. Doveva pesare oltre venti chili.
— Avrà bisogno di una mano, per portare questa roba al suo ufficio — si offrì Paul.
Un aiuto le avrebbe fatto comodo, in effetti, ma non voleva approfittare più di tanto. O, per dirla chiaramente, si era già indebitata abbastanza. Il giorno innanzi era stata bene, in compagnia di Paul, ma poi ripensandoci non le era parso di aver fatto la cosa giusta… e ormai era quasi ora di cena: lui probabilmente non si sarebbe accontentato di farle da facchino attraverso il campus.
— No, grazie, mi arrangio da me.
Le sembrò che Paul ci fosse rimasto male, ma non gli mancava senz’altro la capacità d’interpretare correttamente certi segnali; chi non ci riesce non sopravvive a lungo, nell’ambiente universitario… nonostante l’episodio di quel tizio ad Antropologia, Bentley, Bailey, o comunque si chiamasse.
Però subito dopo Heather tornò a considerare i due contenitori; le sarebbe venuto un colpo se avesse tentato di portarli a Sid Smith con quel caldo. Bisognava che si rassegnasse a farsi aiutare.
— D’altronde…
Il viso di Paul s’illuminò.
— Ma sì, via, un paio di braccia in più non guasteranno.
Paul alzò un dito a significare che tornava all’istante. Uscì dal laboratorio e ricomparve in men che non si dica spingendosi dinanzi con qualche impaccio, uno a destra e uno a sinistra, un paio di carrelli a mano indisciplinati che sembrava volessero andarsene ciascuno per conto proprio. Heather gli si fece incontro, e le loro mani si sfiorarono nel momento in cui lei afferrò per i manici uno degli attrezzi.
— Grazie — gli disse.
Paul sorrise. — Lo faccio volentieri, davvero. — Guidò il proprio carrello sino a spingerne il pianale sotto uno dei contenitori, poi inclinò l’arnese all’indietro, dimodoché il recipiente andò a poggiarsi contro la rossa intelaiatura metallica. Heather eseguì la stessa manovra con l’altro contenitore.
Paul sollevò di nuovo quel suo dito così espressivo. — Le servirà anche una discreta scorta di morsetti e fermagli, se vuole collegare i riquadri per ottenere dei cubi. — Prese un terzo recipiente, che evidentemente aveva già pronto, e l’impilò sul primo occupante del suo carrello.
— Dentro ci sono anche un paio d’impugnature per vetro. — Aprì il contenitore e ne tirò fuori una. Era un aggeggio a ventosa provvisto di manico nero. — Visti mai affari del genere? Servono a maneggiare le lastre di vetro, ma le potranno tornare utili per manovrare i suoi riquadri, una volta assemblati.
— Non ho parole — commentò Heather.
— Lei sa, naturalmente, che un vero tesseratto possiede solo ventiquattro facce.
— Cosa? — trasecolò Heather. Maledizione, non poteva aver commesso un errore così grossolano. — Ma Kyle ha detto…
— Be’, quando è sviluppato mostra in effetti quarantotto facce, ma una volta richiuso, ogni faccia ne tocca un’altra, quindi ne rimangono solo ventiquattro. Quella di base va a toccare quella in cima, i cubi laterali si ripiegano verso l’interno, e così via. Anche se, evidentemente, non esiste alcun modo di richiuderlo, in realtà. — Una pausa. — Vogliamo andare?
Heather annuì. Lasciarono quindi il laboratorio, spingendo i carrelli innanzi a sé.
Appena giunti in ufficio, si disse Heather, avrebbe potuto limitarsi a ringraziare Paul e salutarlo, tuttavia…
Duemilaottocento tessere, mica scherzi! A collegarle da sola ci avrebbe messo un’eternità.
Forse Paul sarebbe stato disposto ad aiutarla e…
No, no. Non glielo poteva chiedere, non poteva trascorrere tutto quel tempo insieme a lui. Prima doveva risolvere la questione con Kyle. Però…
Come avrebbe fatto, a risolverla? Come avrebbe fatto a essere certa della sua innocenza? E se non acquisiva quella certezza, avrebbe dovuto far violenza a se stessa ogni volta che le mani di Kyle fossero tornate a toccare il suo corpo?
Diede un’occhiata a Paul.
Le mani di lui stringevano le impugnature ricoperte in gomma. Belle mani, mani forti. Dita lunghe.
— Sa — disse infine, esitante. — Se non ha niente da fare, mi farebbe comodo un aiuto per mettere insieme tutte quelle tessere.
Paul la guardò e sorrise, e anche il suo sorriso era bello. — Non chiedo di meglio.
Dopo aver scarrozzato i contenitori per mezzo campus, con una sosta ristoratrice a un paio di panchine strada facendo, Paul e Heather approdarono finalmente a destinazione. Per raggiungere l’ingresso di Sydney Smith Hall imboccarono la rampa disabili. Proprio davanti si trovarono uno studente grande e grosso che indossava una giacca in pelle Varsity Blues col nome KOLMEX stampato sul dorso. Heather pensò che il ruolo di giocatore di football doveva contribuire grandemente all’autostima di quel signorino, per indurlo a indossare una giacca del genere in pieno agosto. Sperò fino all’ultimo che avrebbe almeno tenuto loro la porta aperta, ma quello, varcata la soglia, lasciò andare senza tanti complimenti il battente, che si richiuse alle sue spalle con sbatacchiare di vetri. Inarcando le sopracciglia, Paul scambiò con Heather un’occhiata eloquente, da insegnante a insegnante: guarda un po’ che razza di gioventù. Destreggiandosi poi col carrello riuscì a liberare una mano il tempo sufficiente a riaprire la porta.
Come Dio volle, raggiunsero entrambi l’ufficio di Heather.
— Ah — commentò Paul, guardandosi attorno nel fare il suo ingresso. — Vedo che qui è in condominio.
Heather annuì. Anche le università hanno le loro gerarchie. — Purtroppo sono solo associata — spiegò. — Diversi anni li ho impegnati fuori ad allevare le figlie. Ho paura che dovrò darmi parecchio da fare, per rimettermi in pari. Il mio collega, Omar Amir, è in ferie ai laghi, per tutta l’estate.
Spinse via col piede il contenitore dal pianale del suo carrello, poi crollò a sedere per riprendere fiato. Scosse il capo leggermente, e volse lo sguardo in giro. Avrebbero dovuto spostare la scrivania di Omar, ma spingendola contro la libreria si sarebbe creato abbastanza spazio, sulla moquette a pelo raso, per cominciare a mettere insieme quel gioco d’incastri dell’altro mondo.
Anche Paul si concesse una tregua, complice la poltroncina di Omar. Però dopo un paio di minuti si alzarono e spostarono la scrivania. Poi Heather si fece stampare dal programma CAD lo schema del primo pannello, aprì il primo contenitore e si sedette per terra, a gambe incrociate. Anche Paul si sedette, un metro più in là. Heather avvertì l’effluvio lieve del suo sudore. Da quanto tempo non annusava, senza provarne fastidio, il sudore di un uomo…
Impazienti come due bambini cominciarono a collegare le tessere, godendosi la soddisfazione condivisa di veder le tracce, apparentemente casuali, presenti su ciascuna, proseguire a completarsi con geometrica perfezione sulle tessere circostanti.
Verso le otto e mezzo ordinarono due pizze (scoprendo d’avere gli stessi gusti in fatto di condimenti e guarnizioni varie) e due lattine di Coca. Quando comparve il fattorino, Paul offrì la sua SmartCash, ma Heather protestò che non se ne parlava nemmeno e volle assolutamente pagare lei. Fu contenta che Paul sapesse cedere con garbo.
Alle dieci avevano ultimato tutti e quarantotto i riquadri.
Grandi all’inarca settanta per settanta, attendevano poggiati al bordo della scrivania di Omar. Adesso bisognava mettere insieme quel maledetto aggeggio. Servendosi dei fermagli e dei morsetti portati da Paul, congiunsero i quadrati, spigolo contro spigolo, sino a ritrovarsi con otto cubi completi.
Le tracce di vernice, lievemente luccicanti come mica, non formavano ancora un disegno riconoscibile, ma fluivano sulla superficie dei cubi in un labirinto intricato simile a quello dei circuiti stampati.
Facendosi guidare dal diagramma CAD, procedettero poi a collegare i cubi nel complesso finale. Non potendo posizionarlo in verticale, dato che il soffitto non era abbastanza alto, dovettero montarlo in orizzontale, con la barra di quattro cubi parallela al pavimento:
La struttura poggiava su un cubo solo, quindi sorressero l’estremità più sporgente della barra mettendoci sotto una pila di libri. Una volta terminata, la costruzione s’innalzava fin quasi al soffitto.
Bene, ce l’avevano fatta. Heather e Paul rimasero lì a contemplare il frutto del loro lavoro. Era un’opera d’arte? Un altare? O qualcos’altro? Il fatto più intrigante stava di certo in quella somiglianza con una croce: anche a vederlo così, coricato su un fianco, la suggestione nasceva inevitabile. Ma come potevano, creature aliene, condividere quel particolare simbolismo? Pur ammettendo che un Dio putativo avesse figliolanze putative su pianeti diversi dalla Terra, sicuramente nessun altro avrebbe utilizzato una croce come strumento per esecuzioni capitali. Essendo tale oggetto, dopotutto, calibrato sull’anatomia umana. No, doveva trattarsi di una pura coincidenza.
Paul scosse la testa perplesso. — Cosa pensi che sia?
Heather si strinse nelle spalle. — Non ne ho la benché minima idea.
Diede un’occhiata all’orologio e Paul la imitò.
Camminarono fianco a fianco sino alla stazione della metro. Heather doveva andare a est verso Yonge; Paul, che viveva in un condominio a Harbourfront, si doveva dirigere a sud verso Union. Comunque, data l’ora, accompagnò Heather al binario est per farle compagnia.
La stazione di St. George era adorna di mattonelle verde chiaro, non troppo dissimili, seppure un po’ più grandi, dalle tessere che loro due avevano messo insieme quella sera. Qui le gallerie correvano dritte come fusi. Heather con largo anticipo vide comparire in lontananza il suo convoglio.
— Buonanotte, Paul. — Gli rivolse un caloroso sorriso. — Voglio dirti che ho apprezzato tantissimo il tuo aiuto.
La mano di Paul giunse a sfiorarle un braccio. Nulla di più. Heather si domandò che cosa avrebbe fatto, se lui avesse cercato di baciarla.
Poi il treno entrò rombando in stazione e Heather imboccò la strada verso casa, la sua grande casa vuota.
Heather non aveva fatto che girarsi e rigirarsi per tutta la notte, col bizzarro manufatto alieno e l’inebriante Paul che si alternavano nei suoi sogni.
Sebbene il quotidiano pellegrinaggio via metro per recarsi al lavoro si svolgesse essenzialmente in galleria, esistevano due tratti ove la sotterranea soccombeva al fascino dell’ossimoro e faceva capolino in superficie. In entrambi i punti, nei pressi delle stazioni di Davisville e di Rosedale, la luce del mattino risultò dolorosamente vivida per gli occhi insonnoliti di Heather.
Fortuna volle che al suo arrivo in ufficio le tende fossero ancora chiuse. Mettersi al lavoro con quella montagna di cubi che ingombrava il locale sarebbe stato un problema. Comunque, per il momento, sedette tranquilla nella penombra a sorseggiare un caffè comperato nell’atrio e attese che le tempie smettessero di martellarle.
Cosa che finalmente avvenne. Aveva sperato che una notte di sonno potesse suggerirle una risposta all’enigma rappresentato da quanto lei e Paul avevano costruito, ma nessuna farfalla era rimasta nel retino. Adesso, poi, scrutando quell’aggeggio, si sentì una vera idiota. Ma come le era saltata in mente un’idea così pazzesca?
Meno male che Omar, e con lui quasi tutti gli altri, era via in vacanza…
Mandò giù un altro sorso di caffè, poi decise di sentirsi pronta ad affrontare la giornata. Si alzò, andò alla finestra, spalancò le tende scolorite. Il sole inondò la stanza.
Heather tornò a sedersi, incrociò le mani dietro la nuca e…
“Ma che diavolo?…”
I motivi dipinti sui pannelli di substrato sfavillavano nella luce solare. Trattandosi di una pellicola cristallina forse non era poi un fatto così sorprendente, però…
… sembravano vibrare, ondeggiare…
Heather si alzò per andare a vedere più da vicino, ma incespicò in un mucchietto di stampati in sincarta lasciati sul pavimento. Cercò invano di riprendere l’equilibrio e capitombolò in avanti, finendo rovinosamente addosso al manufatto.
Avrebbe dovuto farlo a pezzi, smembrando diversi cubi in pannelli, disintegrando molti pannelli in centinaia di formelle.
Certo, avrebbe dovuto… ma non andò così.
La struttura resisté. In effetti, Heather rischiò di fratturarsi un braccio, quando ci finì addosso.
Qualcosa teneva insieme i pannelli. Così da vicino, poteva vedere che i singoli motivi quadrangolari tracciati sulle formelle scintillavano separatamente, rifrangendo la luce come la superficie di bolle di sapone.
Il giorno innanzi era stata una costruzione fragile e inconsistente che si reggeva per scommessa, accozzata a forza di morsetti, puntellata alla meno peggio con una pila di libri.
Oggi, invece…
Si spostò all’altro capo della struttura, esaminandola. Poi con le nocche le affibbiò un bel colpo secco. Era resistente, ma non del tutto inerte, infatti oscillò leggermente. La sua caduta aveva spinto la faccia di fondo a diretto contatto con la parete. Heather demolì con un calcetto la pila di libri che puntellava quell’estremità e i volumi si sparsero a terra.
Ma il cubo terminale non fece una grinza. E invece di crollare sotto il suo stesso peso, l’intera fila di cubi si mantenne dritta, senza cedere di un millimetro.
Chissà che la vernice non agisse come una specie di mastice, una volta asciugata a sufficienza? Forse…
Si guardò intorno, vide il sole che entrava dalla finestra, la propria ombra proiettata sulla parete.
E se quell’aggeggio sfruttava la radiazione solare?
La luce del sole. L’unica fonte di energia a disposizione di qualsiasi civiltà in qualsiasi parte dell’universo. Non tutti i pianeti conterranno elementi pesanti come l’uranio, si disse Heather, e sicuramente non tutti avranno giacimenti di combustibili fossili. Ma ogni pianeta della galassia possiede almeno una stella attorno alla quale ruotare.
Tornò alla finestra e richiuse le tende.
L’oggetto conservò la propria rigidità. Heather sospirò… be’, naturalmente non poteva essere così semplice. Si sedette alla scrivania, cercando di riflettere.
Dopo qualche secondo uno scricchiolio sinistro trafisse il silenzio della stanza. Sotto il suo sguardo allarmato la struttura cominciò a deformarsi. Heather balzò in piedi e si precipitò ad afferrare il cubo terminale prima che finisse in pezzi, evento imminente dato che i pannelli esposti si andavano squinternando a vista d’occhio.
Mentre con una mano faceva del suo meglio per sostenere la struttura, con l’altra si adoperò freneticamente a riedificare il puntello di libri. Non appena scongiurata la catastrofe, si affrettò alla finestra per riaprire le tende.
Ovviamente l’apparato doveva esser capace di accumulare una sia pur minima riserva per autoalimentarsi. Requisito fondamentale in un dispositivo a energia solare: non è ammissibile, infatti, che smetta di funzionare ogni qual volta viene colpito dall’ombra di un passante.
Bene, allora.
Per prima cosa doveva assicurarsi che la costruzione fosse permanentemente rifornita di energia; fra un paio d’ore il sole avrebbe abbandonato quella finestra. Heather pensò di portar fuori l’aggeggio, ma ciò avrebbe risolto il problema solo fino a sera. Evidentemente i fluorescenti a basso consumo che illuminavano l’ufficio non erano bastati ad alimentarlo, il giorno prima; però avrebbe potuto ottenere lampade a incandescenza ad alta emissione dall’istituto di Scienze dello Spettacolo, o forse da Botanica.
Si sentì inondare da un fiotto di adrenalina. Ancora non aveva idea di che cosa avesse scoperto, ma senza alcun dubbio coi messaggi alieni aveva fatto più progressi di chiunque altro.
Accarezzò per un attimo l’idea di collegarsi immediatamente al sito del Centro Segnale Alieno per fornire un resoconto dell’intera faccenda. Sarebbe stato certo sufficiente a garantirle ogni diritto di priorità. Con la conseguenza, però, che nei giorni successivi centinaia di ricercatori avrebbero ricalcato le sue orme… e uno di loro poteva benissimo fare il passo successivo, scoprire a cosa diavolo serviva quell’incredibile gingillo. Quanto a lei, aveva da recuperare una dozzina d’anni di camera; chissà che individuare lo scopo del congegno non fosse sufficiente d’un sol tratto a compensarla del tempo perduto…
Andò a cercare le lampade.
E poi si mise all’opera.