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Risultò, con gran gioia di Heather, che le cinquantanove tessere di ciascun gruppo componevano effettivamente un reticolo rettangolare. Di più: formavano quarantotto quadrati perfetti.

Se i reticoli venivano raffigurati sotto forma di pixel bianchi e neri, divenivano visibili numerosi motivi circolari. Tali cerchi presentavano vari diametri, alcuni grandi, altri piccoli, e in base a tale parametro potevano essere suddivisi in categorie: nessun cerchio era unico, quanto a dimensioni.

Tuttavia, a parte i cerchi (la cui presenza pareva confermare che proprio quello era il modo in cui le tessere andavano disposte) non comparvero purtroppo altre immagini chiaramente identificabili. Heather aveva quasi sperato di ritrovarsi con una specie di libro illustrato composto da quattro dozzine di fogli: Quarantotto vedute del Monte Alpha Centauri…

Provò a disporre i quarantotto messaggi in gruppi ancora più grandi: otto righe di sei, tre righe di sedici, e così via. Senza però ottenere alcun disegno ulteriore.

Cercò anche di costruire dei cubi. Talvolta il risultato sembrava avere senso: in certe configurazioni, i cerchi presenti sulle facce opposte di un cubo apparivano posizionati in modo perfettamente simmetrico, tanto da simulare l’intersezione ortogonale con un altro solido a sezione circolare.

Il vero significato di tutto ciò, comunque, continuava a sfuggirle.

Finché, dal profondo… I È intelligente, ma non ha molta esperienza. Il suo schema indica pensiero tridimensionale.

Quella frase continuava ad assillarla.

Spock si era riferito a Khan, ovviamente, ma di chi parlava la voce del sogno?

E poi…

Dio mio!

Il termine usato nel film era “bidimensionale”, non tridimensionale. Come aveva fatto a non accorgersene prima?

Khan si era sconsideratamente limitato a una forma di pensiero bidimensionale, tanto da poter essere sconfitto con un attacco in tre dimensioni.

L’errore di Heather consisteva forse, analogamente, nell’affidarsi al pensiero tridimensionale. Le avrebbe recato giovamento affrontare la questione in modo “quadridimensionale”?

Ma perché gli alieni si sarebbero dovuti avvalere di un modello quadridimensionale?

Be’, e perché no?

No, calma. Doveva esserci un motivo serio, non poteva trattarsi di un semplice capriccio.

Heather si avvalse del terminale web per reperire informazioni sulla quarta dimensione.

Quando poi ebbe finito di sorbirsi tutto il malloppo, si afflosciò sulla sedia, sbigottita.

Dunque c’è davvero una sorgente, pensò. C’è davvero un punto d’incontro fra tutte le specie. Nulla però di così elementare come un gruppo di radiofrequenze. Il terreno comune non ha attinenza con la fisica tradizionale né con la chimica atmosferica né con alcunché di altrettanto ordinario. Eppure si tratta di qualcosa che per molti versi è ancor più basilare, più fondamentale, più insito nella struttura intrinseca dell’esistenza.

Il terreno comune è di natura dimensionale. È la quarta dimensione, per l’esattezza.

A seconda dell’apparato sensoriale, delle facoltà mentali, delle convenzioni stabilite di comune accordo con altri individui della propria specie, e di altri fattori, una forma di vita può percepire l’universo, percepire la sua realtà, in una dimensione, due dimensioni, tre dimensioni, quattro dimensioni, cinque dimensioni e così via, ad infinitum.

Ma di tutte le possibili configurazioni dimensionali, ve n’è una davvero speciale.

Un’interpretazione quadridimensionale della realtà si distingue fra mille altre.

Non tutto il materiale le risultò perfettamente intelligibile: in qualità di psicologa, Heather possedeva ampie nozioni di statistica, ma non se la cavava troppo bene con la matematica superiore. Appariva comunque chiaro, da quanto aveva letto, che alla quarta dimensione dovevano attribuirsi caratteristiche assolutamente uniche.

Sul sito web di “Science News” aveva trovato, e letto con stupore, un articolo di Ivars Peterson risalente al maggio del 1989, che iniziava così:


Quando i matematici - individui abitualmente prudenti e meticolosi - utilizzano aggettivi come “bizzarro”, “strano”, “singolare” e “misterioso” per definire i risultati delle proprie ricerche, ci troviamo di fronte a qualcosa d’insolito. Simili espressioni riflettono l’attuale situazione degli studi sullo spazio quadridimensionale, un territorio situato appena un passo più in là del nostro familiare mondo a tre dimensioni.

Combinando concetti di fisica teorica e nozioni astratte di topologia (lo studio della forma), i matematici stanno scoprendo che lo spazio a quattro dimensioni ha proprietà matematiche completamente diverse da quelle caratterizzanti lo spazio in qualunque altra dimensione.


Andando avanti, l’articolo di Peterson si faceva sempre più astruso e Heather dovette rinunziare a comprendere dichiarazioni del tipo “solo in quattro dimensioni è possibile avere molteplicità che sono topologicamente ma non uniformemente equivalenti”.

Ma non importava. Il punto essenziale rimaneva quello: dal punto di vista matematico, una configurazione quadridimensionale è assolutamente unica. Indipendentemente da come una qualunque razza percepisca la realtà, i suoi matematici finiranno inesorabilmente per imbattersi nei problemi e nelle peculiarità di una struttura a quattro dimensioni.

Ecco quindi un terreno comune davvero speciale, un punto d’incontro per menti appartenenti a qualunque immaginabile forma di vita.

Cristo.

Anzi, qualcosa di più.

Christus Hypercubus.

Dunque, con le sue pagine Heather poteva comporre semplici cubi tridimensionali. E con quarantotto pagine si potevano costruire otto cubi in totale.

Otto cubi, proprio come nel dipinto di Dalì che Kyle teneva esposto in laboratorio.

Proprio come un ipercubo sviluppato.

Certo, Cita aveva detto che esistono diversi modi per sviluppare un normale, semplice cubo. Ma solo uno degli undici possibili sistemi produce la caratteristica forma a croce.

Figuriamoci se anche un ipercubo non poteva essere sviluppato in svariate maniere…

Però c’erano quei disegni circolari a far da guida!

Probabilmente, esisteva un solo modo per assemblare gli otto cubi in modo da ottenere il contemporaneo allineamento di tutti i cerchi.

Heather aveva già provato a comporre le immagini in forma di cubi, nella speranza di trarne schemi provvisti di senso. Ma ora cercò di risistemarle, spostandole sullo schermo del computer, sino a trovarne la giusta collocazione sui singoli cubi di un tesseratto sviluppato.

L’UDT disponeva di autorizzazioni d’uso multiple per gran parte del software utilizzato nelle varie facoltà; Kyle aveva mostrato a Heather come accedere al programma CAD che era stato adoperato per determinare in qual modo le varie tessere potessero combaciare.

Un poco le ci volle, prima di farlo funzionare a dovere, sebbene per fortuna il programma accettasse comandi vocali. Quando finalmente ebbe ridisposto i quarantotto messaggi a formare otto cubi, ordinò all’elaboratore di sistemare i cubi secondo una struttura che consentisse il corretto allineamento dei riferimenti circolari.

I solidi danzarono per qualche tempo sullo schermo, andando da ultimo a raggrupparsi nell’unica conformazione possibile.

Era un ipercrocifisso, proprio come nel dipinto di Dalí: una colonna verticale di quattro cubi, con altri quattro cubi aggettanti dalle quattro facce esterne del secondo cubo dall’alto.

Nessun dubbio, ormai: il messaggio alieno consisteva nello sviluppo di un ipercubo.

Che cosa si otterrebbe, non poté fare a meno di domandarsi Heather, se quella struttura tridimensionale la si potesse veramente ripiegare anà o katà?…


Era una tipica giornata d’agosto: torrida, afosa, caliginosa. Heather si ritrovò imperlata di sudore per il solo fatto d’essere andata a piedi fino al Laboratorio di Costruzioni Computerizzate, che faceva parte della facoltà d’Ingegneria Meccanica. Lì dentro, in pratica, non conosceva nessuno, quindi preferì arrestarsi garbatamente sulla soglia a osservare i vari automi e meccanismi assortiti sferragliami.

— Posso esserle d’aiuto? — le domandò cortesemente un bell’uomo dai capelli argentei.

— Spero proprio di sì — rispose lei sorridendo. — Sono Heather Davis, dell’istituto di Psicologia.

— È mancata una rotella a qualcuno?

— Come, scusi?

— Una battuta… chiedo venia. Capirà, una strizzacervelli che viene a trovare un ingegnere… Anche noi ci occupiamo d’ingranaggi, dopotutto.

Heather ridacchiò.

— Mi chiamo Paul Komensky — disse l’uomo. Tese la mano e Heather la strinse.

— Mi servirebbe un lavoretto da ingegneri, in effetti. Avrei bisogno di far costruire qualcosa.

— Che cosa?

— Non sono proprio sicura. Un mucchietto di pannelli prefabbricati, diciamo.

— Grandi quanto?

— Non so.

L’ingegnere si accigliò… ma Heather non avrebbe saputo dire se fosse un cipiglio per una “ochetta giuliva” oppure per una “maniaca del fai-da-te”. — Un po’ vago, non crede? — osservò Komensky.

Heather gli rivolse il più affascinante dei suoi sorrisi. Al giorno d’oggi, nelle varie scuole d’ingegneria metà degli studenti erano donne, ma Komensky doveva avere abbastanza anni sul groppone da ricordare i tempi quando gl’ingegneri erano tutti rozzi maschiacci che a volte stavano settimane senza vedere una femmina. — Mi spiace — gli disse. — Il fatto è che sto lavorando sui radiomessaggi alieni, e…

— Sapevo d’averla già vista da qualche parte! Ma sì, alla tivù, che programma era?…

Quella domanda la mise un po’ a disagio, tante erano state le trasmissioni cui aveva partecipato ultimamente… meglio sorvolare, per non passare da presuntuosa.

— Forse Newsworld? — provò a imbeccarlo.

— Eh, già, può darsi. Quindi questi pannelli hanno a che fare con gli alieni?

— Non sono sicura, ma credo di sì. Vorrei preparare una serie di formelle che rappresentino i reticoli dei messaggi alieni.

— I messaggi quanti sono?

— Duemilaottocentotrentadue… quelli non ancora decifrati, per lo meno. Sono gli unici che mi serve trasformare in pannelli.

— Un bel mucchio di roba.

— Me ne rendo conto.

— E quanto debbano venire grandi non lo sa?

— Purtroppo no.

— Di che materiale dovrebbero esser fatti?

— Due diverse sostanze. — Gli porse il digimemo. Sullo schermo apparivano due formule chimiche. — È in grado di sintetizzarle?

Lui scrutò il display. — Certo. Nessuna difficoltà. Ma è sicura che siano solide a temperatura ambiente?

Una domanda che la colse di sorpresa. Aveva letto tutta la documentazione su quelle sostanze dieci anni prima, quando erano state sintetizzate per la prima volta, ma da allora, in effetti, non ci aveva più pensato granché. — Non ne ho idea.

— Questa qui credo di sì — sentenziò lui indicando la formula in alto. — Quest’altra… be’, vedremo. Sono formule dedotte dai messaggi alieni?

Heather annuì. — Dalle prime undici pagine. Naturalmente questi composti sono stati già sintetizzati da tempo, ma nessuno ha mai compreso a che cosa servissero.

Komensky sembrava impressionato. — Interessante.

Heather annuì di nuovo. — Voglio che i bit zero siano fatti di una sostanza, e i bit uno dell’altra.

— E uno dei due dev’essere verniciato sull’altro?

— Verniciato? No, no, penso che ciascuno dei due debba venire direttamente realizzato nel suo specifico materiale.

Il volto di Komensky esprimeva perplessità. — Non mi convince. Dalla seconda formula ho idea che venga fuori un liquido, il quale però potrebbe poi asciugarsi formando uno strato solido. Vede questi atomi di ossigeno e idrogeno? Potrebbero evaporare sotto forma di acqua, e come residuo otterremmo, appunto, un solido.

— Oh… Be’, allora sì, vada per la vernice. Oltretutto mi troverei risolto un grosso problema cui non m’era riuscito di dare risposta.

— E sarebbe?

— Ecco, poter stabilire quale sostanza rappresenti i bit uno, e quale i bit zero. Gli uno sono bit “superiori”, quindi la vernice bisogna che rappresenti gli uno, in quanto va stesa sopra il… il…

— Il substrato, in scienza delle costruzioni lo definiamo così.

— Il substrato, certo. E… sarà difficile da realizzare?

— Be’, si torna alla questione di quanto debbano esser grandi i pannelli.

— Mi tocca rispondere di nuovo che non lo so. Non sono tutti delle stesse dimensioni, comunque anche i più grandi bisognerebbe che non superassero pochi centimetri… perché poi voglio connetterli fra loro.

— Come, connetterli?

— Sì, affiancarli, giustapporli, in modo che si corrispondano l’un l’altro come tante tessere di un mosaico. Vede, se i cinquantanove pannelli di ciascun gruppo vengono disposti correttamente, formano un quadrato perfetto… e per arrivarci esiste una sola configurazione.

— Ma allora perché non costruire subito i riquadri grandi invece delle singole tessere?

— Non lo so. Il fatto stesso di dover collegare le formelle potrebbe avere la sua importanza. Ma insomma, non voglio fare supposizioni campate in aria.

— Come il fatto che i bit “superiori” debbano andare “sopra” il substrato?… — domandò Komensky con garbata ironia.

Heather si strinse nelle spalle. — È un’ipotesi buona come un’altra.

Lui annuì e preferì non contraddirla. — Allora, da duemilaottocento pannelli quanti quadrati risulterebbero?…

— Quarantotto.

— Ottenuti i quadrati cosa pensa di farne?

— Costruirci dei cubi… e poi collegare questi cubi per ottenere lo sviluppo di un tesseratto.

— Incredibile… Ma dice sul serio?

— Le pare che stia scherzando?

— D’accordo. E… una volta terminato, vuole che l’oggetto sia abbastanza grande da consentirle d’infilarsi dentro uno dei cubi?

— No, non sarà…

Heather s’interruppe di colpo.

È vero. Niente indicazioni di grandezza. Da nessuna parte, in nessuno dei messaggi, pareva esservi il benché minimo suggerimento circa le dimensioni da attribuire all’oggetto.

Fatelo grande quanto vi pare, sembravano dire gli alieni.

Fatelo della “vostra” misura.

— Ma sì, sì, sarebbe perfetto! Abbastanza grande da poterci entrare.

— Bene, allora, intesi. Nessun problema per realizzare i pannelli del substrato. Di che spessore li vuole?

— Non saprei. I più sottili possibile, credo.

— Volendo posso anche scendere fino a una molecola dì spessore.

— Oh, non “così” sottili. Bisognerà pure che siano maneggevoli. Un millimetro o due dovrebbe andar bene.

— Niente di più facile. Abbiamo già pronta una macchina per fabbricare plastipannelli da edilizia destinati alla Scuola di Architettura. Posso modificarla senza difficoltà in modo che produca le formelle che servono a lei. Le preferisce con i bordi lisci oppure con un sistema a incastro per poterle agganciare?

— In modo, cioè, che componendo i riquadri grandi, quelli rimangano belli compatti?

Komensky annuì.

— Sarebbe l’ideale.

— Per l’applicazione dell’altra sostanza come pensa di procedere?

— Immagino che mi toccherà farla a mano — rispose Heather.

— Be’, potrebbe anche, però qui disponiamo di microspruzzatori programmabili in grado di evitarle il disturbo, purché la sostanza non sia eccessivamente densa. Ci servono a tracciare disegni di vario genere sui pannelli per gli studenti d’architettura, come sagome di mattoni, teste di chiodi… roba del genere.

— Non chiederei di meglio. Quanto tempo ci vorrà?

— Be’, durante l’anno accademico di solito siamo piuttosto ingolfati, ma ih estate abbiamo un sacco di tempo libero. Si potrebbe cominciare anche subito. Dev’esserci ancora un paio di laureati a ciondolare qui in giro; posso incaricarne uno di studiare la preparazione delle sostanze. Come ho detto, a prima vista sembrerebbero abbastanza semplici, ma non possiamo esserne certi finché non ci mettiamo sul serio a sintetizzarle. A proposito… le spese chi se le accolla?

— Quanto crede che verrà a costare? — domandò Heather.

— Oh, non molto. I robot, di questi tempi, sono così a buon mercato che non li ammortizziamo più caricandoli sui costi di produzione come si faceva una volta. Diciamo quindi un cinquecento dollari per il materiale.

Heather annuì. Avrebbe trovato poi come giustificare la cosa col capodipartimento al suo ritorno dalle vacanze. — Va benissimo. Metta in conto a Psicologia. Firmo io la richiesta.

— Le manderò la nota per posta elettronica.

— Splendido. Grazie. Grazie davvero.

— Non c’è di che. — E le sorrise, avvolgendola col suo sguardo.

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