Sì, era Kyle.
Heather lo riconobbe all’istante.
E riconobbe anche il luogo, osservandolo attraverso gli occhi di lui: il suo ufficio all’UDT. Non il laboratorio, ma proprio l’ufficetto cuneiforme in fondo al corridoio. Heather c’era stata centinaia di volte, impossibile sbagliare. Su una parete faceva mostra di sé un poster del Festival Internazionale degli Autori di Harbourfront. Un altro poster mostrava un Allosaurus conservato al Royal Ontario Museum. Sulla scrivania, pile cospicue di documenti, una delle quali sormontata da un ologramma di Heather incorniciato in oro. Nei colori come li vedeva Kyle prevaleva una lieve sfumatura azzurrina; Heather sorrise al pensiero: nessuno aveva mai accusato suo marito di vedere il mondo attraverso un paio di occhiali rosa.
Heather credeva di conoscerlo, Kyle, ma evidentemente ne aveva colto finora solo qualche minuscolo frammento, la punta dell’iceberg, l’ombra sul muro. Già nel volgere di pochi istanti stava scoprendo in lui molto più di quel che avesse mai immaginato: quanta complessità, quanta introspezione, quanta incredibile, multiforme vitalità…
In margine all’attenzione di Kyle andavano guizzando ininterrottamente sciami d’immagini ricorrenti. Che il problema con Becky lo preoccupasse era evidente e inevitabile, ma Heather non aveva compreso fino a che punto egli ne fosse costantemente ossessionato.
Kyle volse lo sguardo all’orologio da polso: un magnifico digitale svizzero che Heather gli aveva regalato in occasione del loro decimo anniversario di matrimonio. La cassa portava incise le seguenti parole:
A KYLE, MARITO MERAVIGLIOSO, PADRE MERAVIGLIOSO.
CON AMORE, HEATHER
Ma nella coscienza di Kyle non riverberò alcuna eco di questa dedica, ed egli si limitò a consultare l’ora: mancava un quarto alle quattro.
“Dio santo!” pensò Heather. Era davvero così tardi? Si trovava nella struttura ormai da cinque ore, e tanti saluti alla riunione delle due.
Avendo evidentemente deciso che gli toccava muoversi se non voleva cominciare la lezione in ritardo, Kyle si alzò di scatto. L’informazione visiva che dall’esterno gli giungeva al cervello subì un brusco sobbalzo al quale lui non fece neppure caso, mentre Heather, che aveva accesso unicamente alla sua coscienza e non ai segnali inconsci di bilanciamento ritrasmessi dall’orecchio interno, si sentì sballottata come un turacciolo.
In cielo navigava un sole sfolgorante quando al mattino Heather era entrata nella struttura, e secondo le previsioni sarebbe stato sereno tutto il giorno. Ma qui fuori, in St. George Street, a Kyle non sembrava affatto che fosse una bella giornata luminosa. Per lui era squallida e tetra. Pur avendo udito più volte l’espressione “vivere sotto una nube”, Heather non aveva mai compreso quanta verità potesse racchiudere.
Lungo il marciapiede si sciorinava il carrettame gaiopinto dei trafficanti di mordi-e-fuggi e panineria assortita, oltre agli spacciatori di manicaretti cinesi, che esibivano celestiali ghiottonerie rigorosamente reclamizzandole nell’artistico nitore della lingua originale.
Kyle si fermò. Tirò fuori il portafoglio, ne estrasse la SmartCash, e con stupore di Heather si avvicinò a un venditore di hot-dog.
A dire il vero era dall’infarto di quattro anni prima che Kyle si riguardava nel mangiare: al bando le carni rosse, sotto col pesce anche se non gli piaceva granché, aspirina a giorni alterni, e quasi niente più birra in favore del vino rosso.
— Il solito? — domandò una voce dall’accento italiano.
Il solito, pensò Heather, raggelata. Il solito.
Kyle annuì.
Attraverso gli occhi di Kyle, Heather osservò l’omiciattolo estirpare dalla graticola un rigonfio salsiccione rossoscuro, massiccio quanto l’impugnatura di una mazza da baseball, e depositarlo in una pagnottella trapunta di semi di papavero, servendosi quindi delle medesime pinze per ramazzare una copiosa mestolata di cipolle fritte che accatastò destramente sul malloppo.
Kyle porse la carta al venditore, ne attese la restituzione, irrorò la preda d’intingolo e mostarda, e infine continuò per la sua strada, dedicandosi al cibo nel corso del cammino.
Senza trarne, comunque, alcun vero piacere. Stava, con ogni evidenza, contravvenendo alle inequivocabili prescrizioni del medico (e Heather percepì nettamente la sua inquietudine al pensiero che lei potesse venirlo a sapere), ma neppure questo gli dava qualche soddisfazione.
In pratica aveva ricominciato a ingozzarsi delle stesse porcherie in cui era solito grufolare prima dell’infarto, quando ancora nemmeno lontanamente immaginava che una cosa del genere potesse accadere proprio a lui.
Adesso, però, a ragion veduta, avrebbe dovuto stare attento, badare di più alla salute.
“Il solito”.
Il pensiero era lì, appena sotto la superficie.
Non gl’importava più.
Non gl’importava di vivere o morire.
Il sugo bollente del salsicciotto gl’incendiava il palato.
Ma quel dolore era nulla, a confronto della sofferenza che incombeva giorno e notte sulla vita di Kyle Graves.
Quanto a Heather, si sentiva tremendamente in colpa per aver violato a quel modo l’intimità di suo marito. Mai si era sognata di spiarlo, eppure adesso stava facendo molto di più, annidandosi nella sua coscienza e condividendone ogni gesto e ogni pensiero.
Kyle proseguì per St. George fino a raggiungere Willcocks, poi girò in direzione ovest e percorse il breve isolato che conduceva a New College. Tre studenti lo salutarono al suo ingresso, ed egli contraccambiò senza tuttavia riconoscerli. L’aula era grande e di forma strana, più romboidale che rettangolare.
Mentre Kyle si dirigeva alla lavagna una studentessa discese a intercettarlo, desiderando evidentemente parlargli prima che avesse inizio la lezione.
Kyle sollevò lo sguardo su di lei e…
“Che bambola.”
Heather trovò istintivamente irritante quel pensiero. Poi si soffermò sull’immagine che le giungeva attraverso gli occhi di Kyle.
“Bambola…” giusta definizione, in effetti. Avrà avuto diciannove o vent’anni, benché ne dimostrasse non più di sedici. Ed era attraente, molto attraente… capelli biondi elaboratamente mesciati, grandi occhi pervinca, labbra di corallo.
— Professor Graves, riguardo al compito che ci ha dato, vorrei…
— Sì, Cassie?
I nomi degli studenti che l’avevano salutato in corridoio niente, ma di questa qui se lo ricordava eccome.
— Ecco, professore, mi chiedevo se nella definizione di consapevolezza delle I.A. si debba necessariamente utilizzare il modello di Durkan… o se invece non possiamo rifarci a quello di Muhammed.
“Bambolina…” pensò di nuovo Kyle, prima di rispondere: — Potete anche usare il modello di Muhammed, però tenendo conto della critica di Segal.
— Grazie, professore. — E abbagliatolo con un sorriso da un megawatt si volse per tornare al suo posto. Lo sguardo di Kyle rimase incollato al sederino dondolante che rimontava la gradinata sino a una delle file mediane.
Heather era rimasta letteralmente sbalordita. Mai che avesse udito Kyle esprimere un apprezzamento fuor di luogo su qualche studentessa. E questa, proprio questa fra tutte, appariva così giovane, tanto simile a una bambina che giocasse a far la donna…
Kyle diede inizio alla lezione. Procedeva con rigore, ma anche con freddezza. Non era mai stato un insegnante appassionato ed eloquente alla Papineau, e lo sapeva. La sua forza si estrinsecava tutta nella ricerca. Mentre lui procedeva dunque senza entusiasmo alla disamina degli argomenti, Heather, ormai di casa nel suo cervello, decise di darsi pure lei da fare. Giunta com’era sull’orlo del precipizio, aveva esitato, se ne rendeva conto, prima di fare il gran salto.
Ma era tempo, ormai.
Arrivata sin lì dopo tante peripezie, individuata la mente giusta fra sette miliardi di possibilità, non poteva rinunziare proprio adesso.
Si fece forza.
“Rebecca.”
Si concentrò sul nome, evocandone intanto l’immagine.
“Rebecca.”
Provò e riprovò con sempre maggior forza, urlando il nome nella propria mente, formandosi un’immagine accuratissima del suo volto.
“Rebecca!”
Niente. Esigere i ricordi non bastava, questa volta, a farli emergere. In precedenza c’era riuscita concentrandosi su specifiche persone: ma, per qualche motivo, i ricordi che Kyle aveva di Rebecca risultavano bloccati.
O rimossi?
Eppure un sistema doveva esserci. Certo, il cervello umano non era progettato per accedere a ricordi esterni, ma rimaneva pur sempre uno strumento adattabile e flessibile. Si trattava solo di trovare la tecnica adatta, la metafora giusta.
Metafora? Già. Pur avendo posto la propria mente in connessione con quella di Kyle, non deteneva alcun controllo sul corpo di lui. Così come aveva fallito nel bloccare il violentatore francese, anche adesso, l’assai più semplice tentativo di costringere Kyle ad abbassare per un istante gli occhi al pavimento non sortiva alcun effetto. Lo sguardo di lui continuava a vagare sugli studenti. La metafora adottata sinora dalla sua mente era infatti quella di una viaggiatrice che si facesse passivamente scarrozzare standosene seduta al finestrino… in pratica affacciata agli occhi di Kyle. Le era parso il modo più naturale di organizzare l’esperienza. Ma di certo non era l’unico. Doveva esserci un altro sistema, un sistema più dinamico, più energico, più efficace.
Insisté dunque nel tentativo di trovare quella chiave, ma a parte le fuggevoli, aspre immagini di una Becky accusatrice ininterrottamente trascorrenti ai margini della coscienza, il forziere nel quale Kyle racchiudeva i suoi ricordi della Rebecca di un tempo continuò a rimanerle completamente inaccessibile.