La mente tornò nel suo corpo sotto i gradini della fattoria dei Gross, e prese a scrutare la casa per accertarsi che nessun’altra creatura vivente, oltre Gross e sua moglie, vivesse lì dentro. Specialmente cani, che con il loro abbaiare avrebbero potuto svegliare la moglie quando Gross fosse sceso al piano terreno. Ma non trovò cani. Nel soggiorno, in una gabbia ricoperta, c’era soltanto un canarino. Ma il suo prigioniero non avrebbe avuto bisogno di entrare in quella stanza.
Nella loro camera da letto Siegfried ed Elsa Gross dormivano profondamente.
La mente entrò nel cervello di Gross, e ancora una volta ci fu il breve e terribile scontro che avveniva nel prendere possesso di una entità intelligente. Con suo disappunto, però, fu uno scontro più breve di quello sostenuto nel cervello di Tommy. Possibile che il suo nuovo prigioniero fosse meno intelligente di un ragazzo che aveva dovuto ripetere due anni di scuola e che non si interessava assolutamente della scienza, a meno di non voler chiamare scienza il lavoro dei campi? Da una persona anziana aveva sperato di più, ma evidentemente si era sbagliata. Gross aveva interrotto la sua istruzione dopo sei anni di scuola, e sapeva ben poco di ciò che avveniva fuori della sua fattoria. Non aveva neppure la radio, e le sue uniche letture consistevano in un settimanale e un gazzettino d’informazione sull’agricoltura. Ma leggeva questi due giornali con una certa difficoltà.
La mente non fece muovere immediatamente il suo prigioniero. Lasciò Gross disteso nel suo letto finché non si fu perfettamente orientata e non ebbe appreso alcune cose che le interessavano.
Trovò subito la risposta a due domande importanti. Ed entrambe furono soddisfacenti. Primo: Elsa Gross aveva il sonno pesante. Un rumore appena più leggero di quello provocato dal gufo quando aveva sfondato il vetro della stanza accanto, con tutta probabilità non l’avrebbe svegliata. Una volta nella cucina, che non si trovava nemmeno direttamente sotto la camera da letto, avrebbe dovuto prendere soltanto precauzioni normali contro i rumori, e non lasciar cadere niente a terra. Secondo: nel frigorifero c’erano una zuppiera colma di brodo e una scodella di sugo di carne. Mescolati insieme, riscaldati per sciogliere i grassi solidificati in modo che il suo corpo potesse assorbire il cibo con maggiore rapidità, quei due ingredienti avrebbero formato un’ottima soluzione nutriente.
Sotto la direzione della mente Siegfried Gross scivolò dal letto e in punta di piedi raggiunse la porta. L’aprì e la richiuse il più silenziosamente possibile, e al buio scese la scala fino al piano terreno. Non accese la luce finché non fu in cucina.
Muovendosi in silenzio prese la zuppiera e la scodella dal frigorifero. Versò il brodo in una pentola grande abbastanza da contenere il guscio della mente, aggiunse il sugo della scodella, e mescolò il tutto. Poi accese il fornello e mise la pentola sulla fiamma. Continuò a mescolare mentre il cibo si scaldava, e di tanto in tanto controlllava la temperatura assaggiando con la punta del cucchiaio.
Quando tutto il grasso fu sciolto e la temperatura fu quella esatta (la mente comunque, protetta dal guscio, poteva essere immersa in un liquido dai cinquanta gradi sotto zero fino al punto di ebollizione dell’acqua) spense la fiamma. Uscì lasciando la porta della cucina aperta, in modo d’avere un po’ di luce, e raccolse il guscio nascosto sotto gli scalini. Lo portò in cucina e con delicatezza lo immerse nel liquido della pentola.
Poi, dopo aver guardato l’orologio per calcolare la durata dell’operazione, Siegfried si mise a sedere, e intanto la mente scrutò tutti i ricordi del suo prigioniero.
Ciò che apprese non fu incoraggante e la consigliò di tenere Gross soltanto per quel lavoro.
Siegfried Gross aveva sessantacinque anni, ed era un essere amareggiato e solitario. Era in buoni rapporti con tutti i vicini e con alcuni negozianti del paese, ma non aveva amici. Non amava nessuno, e nessuno amava lui. Neppure sua moglie. Tra loro l’affetto era scomparso da molti anni. Stavano insieme per il semplice motivo che avevano bisogno uno dell’altro. Ma per motivi differenti. Elsa non aveva parenti da cui poter andare e non sarebbe stata in grado di mantenersi da sola. Siegfried aveva bisogno di lei per fare andare avanti la casa e per i lavori della stalla. Si tolleravano a vicenda.
Avevano due figli. Un maschio e una femmina, ma Siegfried aveva litigato sia con l’uno che con l’altra, ed essi avevano deciso di lasciare la fattoria e andare a vivere in città. Tutti e due avevano scritto alcune lettere alla madre, ma Siegfried aveva proibito alla moglie di rispondere, e da parecchio tempo i Gross non sapevano neppure dove i figli fossero andati a vivere.
Il suo futuro era piuttosto nero perché da alcuni anni soffriva di artrite, e in forma progressiva. Non aveva fiducia nei dottori, e questi, d’altra parte, non avrebbero potuto far molto per alleviare i suoi dolori. Lavorare era diventato una vera sofferenza, e Gross sapeva che in capo a un paio d’anni avrebbe dovuto vendere la fattoria. Con tutta probabilità avrebbe ricavato una somma sufficiente per comperare una casetta dove vivere il resto dei suoi giorni con Elsa. Questo era tutto ciò a cui poteva mirare… se fosse vissuto abbastanza.
La mente si soffermò ad apprendere queste notizie perché doveva aspettare che il suo corpo finisse di nutrirsi. Poi, per quanto fossero banali, tutte le informazioni riguardanti le consuetudini degli umani potevano sempre diventare utili. Non provava alcuna simpatia per i problemi e i dolori di un ospite-schiavo, perché alla mente interessava solo la propria sorte e quella dei suoi simili. Comunque, aveva già deciso che Siegfried Gross avrebbe cessato di essere utile quella notte stessa.
Gross viveva come un recluso. Non aveva rapporti costanti con altre persone, e il mandarlo in giro in cerca di notizie, cosa che non aveva mai fatto, avrebbe destato i commenti e la curiosità di tutti. Gross non aveva telefono, non scriveva lettere, e non riceveva posta personale. Una volta alla settimana, il sabato, si recava a Bartlesville per comperare ciò che serviva alla fattoria. Dato che non aveva mai voluto prendere la macchina, raggiungeva il paese con un carro tirato dal cavallo. Entrava solo in certi negozi, e non si fermava a parlare o ad ascoltare ciò che gli altri dicevano. Da quindici anni a quella parte non era mai andato più lontano di Bartlesville.
No, Siegfried Gross, mantenuto in carattere e facendolo agire nel suo modo naturale, sarebbe stato il peggior strumento di ricerca di informazioni che avesse potuto scegliere. Le era servito per uno scopo preciso, ma al termine del suo incarico doveva sparire.
Poi, quella notte la mente aveva scoperto il perfetto schiavo da mandare in cerca di notizie: il gatto. Finché teneva prigioniero Gross non poteva usare i gatti, ma subito dopo uno di quegli animali l’avrebbe guidata a un essere umano, delle fattorie vicine o abitante a Bartlesville, adatto a divenire suo ospite-schiavo per un certo periodo.
Mentre Gross stava seduto in attesa, la mente pensò di ricavare da lui qualche notizia sui vicini.
Venne così a sapere una cosa che poco prima l’aveva lasciata perplessa: il motivo per cui i vicini di Gross tenessero un cane da guardia legato a una catena, nella stalla. I vicini si chiamavano Loursat (nome tipico francese, per quanto loro fossero di origine belga), e il cane era un labrador femmina, un bellissimo animale che Loursat aveva sempre usato per la caccia alle anitre. Poco prima di diventare improvvisamente feroce, era stata accoppiata a un labrador di razza, e tra poco avrebbe avuto i cuccioli. La bestia aveva assalito persino la signora Loursat, per fortuna senza riuscire a mordere, e il signor Loursat aveva deciso di ucciderla. A ogni modo sperava che la cagna non uccidesse i cuccioli e che li allevasse almeno fino al giorno in cui fossero riusciti a sostenersi da soli. Gross era al corrente della storia perché Loursat, un giorno in cui si erano incontrati, gli aveva chiesto se voleva uno dei cuccioli, spiegandogli la faccenda della cagna. Gross aveva rifiutato. Gross non amava i cani, come non amava le persone. Tollerava il gatto per il semplice motivo che uccideva i topi.
Attraverso gli occhi di Gross la mente guardò l’ora, e decise di essere stata nella soluzione per un periodo sufficiente. Aveva dovuto affidarsi all’orario perché quando si trovava nel cervello di uno schiavo non aveva la sensazione del suo corpo.
Gross si alzò e tolse il guscio dalla soluzione ormai fredda. Poi si diresse verso la porta. All’ultimo momento ricordò qualcosa e raggiunse il lavandino per lavare accuratamente il guscio. Poi l’asciugò. La mente si era ricordata che l’odore della soluzione avrebbe potuto attirare qualche animale, col rischio di essere tirata fuori da sotto i gradini. Personalmente non emanava alcun odore. Lo aveva saputo dalla mente di Buck quando l’aveva tolta dalla grotta per andarla a nascondere nel buco dell’albero.
Gross uscì di casa, e ancora una volta lasciò la porta aperta per avere un po’ di luce. Questa volta la mente volle rendere più sicuro il suo nascondiglio, e si fece ricoprire con alcuni centimetri di terra. Poi Gross cancellò tutte le impronte di piedi nudi lasciate sul terreno.
E infine rientrò in casa per morire.
Prima però fece sparire tutte le prove di ciò che aveva fatto. Gettò nel lavandino ciò che era rimasto della soluzione e lavò i tre utensili che gli erano serviti. Mise la scodella del sugo al suo posto, e la zuppiera assieme alle altre zuppiere. Naturalmente Elsa si sarebbe meravigliata per la scomparsa del brodo e del sugo, ma a questo non c’era rimedio. Per fortuna negli ultimi tempi Elsa aveva perso la memoria, e lo sapeva. Con tutta probabilità avrebbe pensato di avere già usato sia il brodo che il sugo, e di essersene dimenticata. Oltre tutto, per distrarla da una questione così banale, ci sarebbe stato lo shock della sua morte. Non avrebbe provato un gran dolore, ma ogni avvenimento improvviso che cambia la vita di una persona è sempre uno shock. Poi si sarebbe resa conto che aveva fatto bene a uccidersi. Vendendo la fattoria, la somma ricavata le avrebbe permesso di trascorrere una vecchiaia tranquilla.
Doveva scriverlo sulla lettera? Perché questa volta una lettera avrebbe dovuto esserci. L’aveva imparato con la morte di Tommy. La morte silenziosa del ragazzo aveva sollevato troppa curiosità, tanto da spingere Hoffman e Garner fino alla grotta e far venire loro l’idea di scavare la sabbia del fondo. Il suicidio di Gross doveva apparire assolutamente normale, in modo da non sollevare curiosità.
Mandò Gross a prendere dei fogli di carta e una penna, e lo fece sedere al tavolo della cucina. Poi pensò alle parole che Gross avrebbe scritto se fosse stato lui a decidere di mettere fine ai suoi giorni.
Gross cominciò a scrivere lentamente e con fatica.
«Non posso resistere ai dolori dell’artrite. Mi uccido».
Firmò con nome e cognome.
Poi andò a prendere la pistola che teneva in un cassetto della cucina e la caricò. Tornò a sedere e mise la canna in bocca, tenendola verso l’alto. Premette il grilletto.
Ancora una volta nel suo guscio, ben nascosto sotto i gradini, la mente riprese a osservare con il suo senso percettivo.
Udì Elsa gridare il nome del marito, poi la vide accendere la luce e scendere al piano terreno.