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Solo dopo essere arrivato a casa, Bob si ricordò di non aver chiesto a Norman il libro del dottor Seever, e si ripropose di parlargliene il giorno seguente. Quella sera il ragazzo restò in casa a chiacchierare con i suoi e a leggere, e il Cacciatore si trovò relegato al compito di ascoltare e guardare. Il pomeriggio del giorno dopo andò un po’ meglio, almeno dal punto di vista del Cacciatore.

Bob rimase a casa tutta la mattinata a lavorare nel giardino, visto che gli altri erano a scuola, ma né a lui né all’alieno venne qualche idea buona sul modo di esaminare Charles Teroa. Bob suggerì di lasciare il Cacciatore accanto alla casa del polinesiano verso sera e di andare a riprenderlo il mattino seguente, presto, ma lo straniero bocciò l’idea perché non voleva che il ragazzo lo vedesse. Bob era sicuro che, qualunque fosse l’aspetto del suo ospite, non ne sarebbe rimasto impressionato, ma si lasciò convincere quando l’altro gli fece notare che non avrebbe potuto capire se la massa di gelatina che riprendeva il suo posto dopo l’esperimento era proprio il poliziotto.

Il pomeriggio, comunque, andò meglio. Bob si trovò con i quattro amici, e subito se ne andarono con la barca. Questa volta, non avendo preoccupazioni per l’orario, puntarono decisi verso nordovest costeggiando la riva. Ai remi c’erano Norman Hay e Colby. La tavola nuova si era gonfiata, quindi non imbarcarono più acqua.

L’isolotto dove Norman aveva fatto il suo acquario era effettivamente molto vicino alla riva, e faceva parte del primo tratto di scogliera che dall’estremità della spiaggia dove i ragazzi erano soliti andare a far merenda curvava verso nord per tornare poi indietro. Un braccio d’acqua non più largo di venti metri divideva l’isola dall’isolotto formando un breve canale protetto dalle onde da una corona più lontana di rocce. Osservando il canale, il Cacciatore si trovò d’accordo con Rice: difficilmente il cane avrebbe potuto finire in bocca a un pescecane in quei venti metri d’acqua.

L’isolotto corallino ospitava anche qualche cespuglio verde e misurava una trentina di metri di lunghezza per una larghezza di dieci scarsi. L’acquario di Norman pareva non avere niente in comune con il mare soprattutto se, come aveva detto il ragazzo, i pochi buchi delle pareti erano tappati con cemento. Però, durante l’alta marea qualche onda, passando sopra l’isolotto, provvedeva a mantenere l’acquario pieno d’acqua. Nella pozza galleggiava un pesce farfalla morto, e sul corallo delle pareti non c’erano i soliti minuscoli polipi.

«Forse si tratta di qualche malattia» disse Norman. «Ma io non ho mai sentito parlare di un male che attacchi tutte le forme di vita in questo modo. E voi?»

«No» rispose Bob. «È per questo che ti sei fatto prestare quel libro dal dottor Seever?»

Norman sollevò la testa di scatto. «Sì» disse. «Ma tu, come fai a saperlo?»

«Me l’ha detto il dottore. Volevo controllare una cosa sui virus, e lui mi ha detto di aver prestato a te un libro che riguardava quell’argomento. Ti serve ancora?»

«A dire la verità no. Ma come mai ti interessi dei virus? L’ho letto tutto, quel libro, ma non ci ho capito granché.»

«Ecco… un giorno si parlava, a scuola, e nessuno riusciva a decidere se i virus sono vivi o no. A me è sembrata strana la faccenda. Se mangiano e si riproducono, devono essere vivi!»

«Ricordo di aver letto…»

A questo punto la conversazione venne interrotta, risparmiando a Bob la fatica di inventare altri particolari.

«Per l’amor del cielo, Norman, dagli quel libro appena torni a casa, ma non tenerci una lezione di biologia, adesso!» protestò Malmstrom. «Cerca piuttosto di applicare il cervello su questo mistero del tuo acquario, oppure andiamocene un po’ sulla scogliera esterna.»

Rice appoggiò caldamente le parole dell’amico. Colby, secondo il suo solito, rimase a fare da sfondo silenzioso.

«Va bene» disse Hay, tornando ad occuparsi della pozza d’acqua. «Comunque, non vedo cosa potrei pensare di buono adesso, dato che nei tre mesi scorsi non mi è venuta nessuna idea! Forse Bob ha qualche trovata brillante.»

«Non ne so molto di biologia, oltre quello che ci insegnano a scuola» rispose Robert. «Hai provato a entrare nell’acqua per vedere se scoprivi qualcosa? Hai staccato qualche pezzetto di corallo per cercare di capire che cos’è successo ai polipi?»

«No, non sono mai sceso a nuotare qui dentro, prima per non disturbare i pesci che avevo raccolto nell’acquario, e poi perché ho pensato che se i pesci e il resto morivano per via di qualche malattia, poteva essere pericoloso anche per me.»

«Potrebbe anche essere così, però avrai toccato l’acqua chissà quante volte, e a quanto pare non ti è successo niente. Se vuoi entro io.» La proposta mise a dura prova la pazienza del Cacciatore. «Cosa preferisci che ti porti su?»

Norman guardò l’amico. «Se pensi davvero che non ci sia pericolo, vengo con te.»

Questo frenò l’entusiasmo di Bob. Il ragazzo si era automaticamente considerato al sicuro da qualsiasi minaccia dovuta a germi, ma Norman non aveva la protezione di un simbionte!

Questo pensiero gliene fece venire un altro, opposto. E se invece Norman avesse ospitato anche lui un extraterrestre? Non era un’idea da trascurare, per il momento però il problema era un altro: doveva mantenere buona l’offerta di entrare nell’acqua misteriosa e accettare che l’amico lo seguisse?

Decise di sì. Dopo tutto sull’isola c’era un medico.

«Va bene» disse, cominciando a spogliarsi.

«Ehi, aspettate un momento! Siete diventati matti?» Malmstrom e Rice gridarono quasi contemporaneamente. «Quest’acqua ha ucciso i pesci! Siete pazzi a entrare.»

«Noi non siamo pesci» ribatté Bob. Sapeva anche lui di aver fornito una ragione fiacca, ma lì per lì non gli era venuto in mente nient’altro. Kenny Rice e Kenneth Malmstrom discutevano ancora quando lui scivolò cautamente nell’acqua seguito da Norman. Colby, il quale non aveva dato alcun contributo alla discussione, andò alla barca, prese un remo, e tornò accanto alla pozza, mettendosi a guardare. Il mistero di quell’acqua venne risolto abbastanza in fretta. Bob arrivò sino al centro dell’acquario e poi fece una capriola, manovra che avrebbe dovuto farlo scendere con facilità fino in fondo, due metri e mezzo più giù. Invece non andò così. Lo slancio lo fece arrivare con i piedi appena sotto il pelo dell’acqua. Il ragazzo allora si aiutò con un paio di movimenti delle gambe, toccò il fondo, strappò un ciuffo d’alghe e tornò su velocemente. Com’era sua abitudine mandò fuori il fiato prima di emergere, cosa che gli fece entrare un po’ d’acqua in bocca. Fu sufficiente.

«Norman! Assaggia l’acqua!» gridò. «Per forza i pesci muoiono!»

L’altro ragazzo, per quanto a malincuore, fece come gli veniva detto, e commentò con una smorfia: «E da dove arriva tutto questo sale?»

Bob arrivò al bordo della pozza, ne uscì e cominciò a vestirsi prima di rispondere.

«Avremmo dovuto pensarci subito» disse infine. «Le onde portano acqua qui dentro, ma quest’acqua se ne va solo per effetto dell’evaporazione. Il sale rimane depositato sul fondo. Non avresti dovuto tappare tutti i buchi. Bisognerà aprirne uno e poi proteggerlo con una rete metallica per non lasciar uscire i pesci, se vuoi fare ancora fotografie.»

«Maledizione, che stupido!» esclamò Norman. «E sì che solo l’anno scorso ho fatto un esame proprio sul Gran Lago Salato!» Si rivestì anche lui senza preoccuparsi, come Bob del resto, di essere ancora bagnato. «Adesso cosa facciamo? Andiamo a prendere un piccone, o giriamo un po’ per la scogliera, già che siamo qui?»

Dopo breve discussione venne accettata la seconda proposta, e i cinque ragazzi risalirono in barca. L’ultimo fu Norman, che si era fermato a prendere da un cespuglio un secchio tutto acciaccato. «Lo adoperavo per mettere acqua nella pozza quando mi pareva che il livello fosse troppo basso» spiegò. «Adesso gli troveremo qualche altro uso.» Mise il secchio a poppa, montò a sua volta, e con una spinta allontanò la barca dall’isolotto.

Per un’ora circa girarono su e giù all’interno della scogliera, sbarcando ogni tanto sulle rocce più grosse e servendosi di ramponi per tenersi lontani dagli scogli più pericolosi. Poi raggiunsero uno degli isolotti più grandi, sul quale crescevano sei o sette palme. Sbarcarono lì e tirarono la barca in secco.

Il Cacciatore era alquanto infastidito per la mancanza di scoperte interessanti, almeno fino a quel momento, dato che l’idea di esplorare da vicino la scogliera in cerca di tracce era stata sua. Ora si trovavano a circa un chilometro e mezzo dall’estremo limite nord della spiaggia, e questo significava che circa un quarto dello spazio entro il quale lui aveva sperato di trovare qualche segno del fuggitivo era già stato coperto, e senza risultati. Però c’era ancora parecchio da vedere e il Cacciatore usò gli occhi di Bob nel migliore dei modi. Su un lato dell’isolotto le onde si frangevano rumorose, l’altro era lambito dall’acqua relativamente calma della baia. A un centinaio di metri si vedeva un serbatoio. Accanto al serbatoio c’era la chiatta per la raccolta dei rifiuti, e gli uomini dell’esiguo equipaggio si muovevano agilmente sul passaggio che sovrastava il tetto di vetro del cassone. Dietro, a circa quattro chilometri, c’erano le case dei bianchi che abitavano l’isola, appena visibili.

Il Cacciatore concentrò l’attenzione sull’isolotto. La sua conformazione era simile a quella dell’altra roccia emersa dove c’era l’acquario di Norman, con eguali rive frastagliate e a picco, nelle quali si aprivano piccole grotte tappezzate di corallo dove l’acqua spariva gorgogliando per spruzzare poi alta sino a lambire le facce dei ragazzi quando un’ondata si schiantava sulla barriera. In alcune insenature dall’imboccatura molto stretta l’acqua era quasi immobile per quanto si alzasse e si abbassasse continuamente seguendo l’altalenare delle onde. Fu nella più grande di queste insenature che i ragazzi, sempre alla ricerca di tesori marini, compirono le loro ricerche. Del resto, nelle altre sarebbe stato impossibile per la stessa natura turbolenta e irriflessiva tipica dei giovanissimi. Rice fu il primo a scendere dalla barca, e mentre gli altri pensavano a issare l’imbarcazione sulla riva, lui corse all’insenatura e, buttandosi per terra, guardò in giù nell’acqua. Quando arrivarono i compagni lui era già pronto a tuffarsi.

«Quello è mio!» gridò mentre gli altri quattro sbirciavano sul fondo dell’insenatura per vedere che cosa aveva attirato l’attenzione dell’amico, e prima che qualcuno avesse visto qualcosa lui era già in acqua. Rimase sotto parecchio, poi ricomparve per chiedere una delle pertiche che avevano caricato sulla barca.

«Non riesco a liberarlo» disse. «Pare piantato sul fondo.»

«Che cos’è?» chiese uno dei ragazzi.

«Non lo so ancora. Certo che non ho mai visto niente di simile. È per questo che non ci voglio rinunciare!» Prese il palo teso da Colby e tornò sott’acqua. L’oggetto che aveva attirato il suo interesse si trovava a una profondità di un metro e mezzo, e lì nell’insenatura l’acqua arrivava da un metro e trenta a un metro e ottanta a seconda dell’importanza delle onde attorno.

Kenny Rice riaffiorò parecchie volte per respirare, e alla fine Bob si tuffò per aiutarlo. Bob aveva un vantaggio sui compagni: grazie alla capacità del Cacciatore che poteva modificare la curvatura delle sue retine, intervenendo con pellicole del proprio corpo, riusciva a vedere sott’acqua molto meglio degli altri. Il ragazzo distinse subito la forma dell’oggetto sul quale si accaniva Rice, ma non lo riconobbe. Era una specie di mezzo cilindro cavo, in metallo, del diametro di nove o dieci centimetri e spesso un centimetro e mezzo, con una piastra dello stesso materiale stesa sulla parte piatta, per metà dell’area. Stava appeso come un cappello a un ramo di corallo, sospeso a qualche centimetro dal fondo. L’altra estremità dell’oggetto era infilata nel fango come un cuneo. Rice stava cercando di staccarlo dal corallo, aiutandosi con la pertica. Dopo alcuni minuti di sforzi inutili, i due amici si fermarono, risalirono per respirare e concertarono un nuovo sistema d’attacco. Bob sarebbe andato sul fondo per tentare di smuovere l’oggetto di dietro con il bastone. Rice, al suo segnale, avrebbe puntato un piede contro la parete dell’insenatura (i ragazzi calzavano le scarpe perché solo un pazzo sarebbe entrato a piedi nudi in un’insenatura tappezzata di rocce corallifere), e avrebbe tirato forte in avanti per staccare lo strano cilindro dal pesante ramo di corallo che lo teneva agganciato. Il primo tentativo fallì. Bob non aveva impugnato bene la pertica che gli scivolò dalle mani. Il secondo invece riuscì anche troppo bene. Il pezzo di metallo si staccò di colpo, e rotolò via finendo in acque più profonde. Subito Bob risalì per prendere fiato. Si riempì i polmoni e si voltò per parlare a Rice, ma non vide la testa rossa del ragazzo. Per un attimo pensò che l’amico fosse già emerso e tornato sotto, all’inseguimento del suo tesoro, ma nell’attimo in cui il livello dell’acqua si abbassò, la testa rossa apparve.

«Aiuto! Il mio piede…» gridò Rice, e venne interrotto dal nuovo aumento dell’acqua. Ma ormai la situazione era chiara per tutti. Bob tornò subito giù, appoggiò saldamente i piedi sul fondo e cercò di sollevare il pesante pezzo di corallo che, staccatosi dalla parete sotto la pressione del cilindro, era caduto imprigionando un piede di Rice. Bob non riuscì a smuovere il frammento e risalì rapido a immagazzinare aria.

«Non parlare! Prendi fiato!» gridò Malmstrom. Superfluo. Rice, la cui testa era riaffiorata col calare dell’acqua, non pensava ad altro che a respirare. Bob si guardò attorno alla ricerca del bastone che era scomparso. Lo vide galleggiare a qualche metro di distanza e andò a riprenderlo. Colby era corso via in direzione della barca, senza dir niente. Tornò nel momento in cui Bob stava per rituffarsi. Aveva in mano il secchio che Norman aveva portato via dall’isolotto. Norman e Malmstrom guardarono lui e il secchio, sbalorditi, senza capire e Colby non perse tempo a dare spiegazioni. Si buttò a pancia in giù sulla riva dell’insenatura, si sporse il più possibile verso l’intrappolato Rice, e appena il livello dell’acqua tornò ad abbassarsi fissò il secchio sulla testa dell’amico pronunciando le sue prime parole della giornata.

«Tienilo così.»

Rice capì immediatamente, e quando l’acqua riprese a salire si trovò con la faccia chiusa in un secchio pieno d’aria.

«Hai bisogno d’aiuto?» chiese Norman, ansioso.

«Penso di farcela, questa volta» rispose Bob. «Prima mi preoccupavo per l’aria, ma adesso Kenny è a posto. Mi riposo solo un momento per respirare più a fondo.» Restò aggrappato alla riva mentre Norman gridava incoraggiamenti al compagno quando la testa di latta restava fuori dall’acqua. Durante la pausa Bob trovò il tempo di mormorare al Cacciatore: «Ecco perché non mi andava l’idea di venire fin qui da solo!» Poi, afferrato saldamente il bastone, si immerse di nuovo.

Riuscì a trovare un punto migliore per fare leva, e impiegò tutta la sua forza. Il pezzo di corallo cominciava a sollevarsi, e il ragazzo sentiva che ce l’avrebbe fatta, ma a un certo punto il bastone si ruppe e una delle estremità scheggiate lo ferì allo stomaco. Per una volta tanto il Cacciatore non protestò. Quella era decisamente una ferita sul campo di battaglia, perciò l’extraterrestre provvide a chiudere i profondi graffi senza commenti. Bob risalì alla superficie.

«Forse sarà meglio che scendiate tutti. Stavo per riuscirci ma il bastone si è rotto. Prendete altre pertiche, o i remi, e tuffatevi. La marea sta salendo e il secchio funziona finché l’acqua lo copre solo per pochi secondi. Su, venite.» In un attimo i quattro ragazzi, armati di remi e bastoni, furono in acqua attorno all’amico: Bob sul fondo a sistemare un’estremità delle leve improvvisate, gli altri tenendo saldamente i pezzi di legno, pronti a premere in giù appena lui avesse dato il segnale. Nessuno sapeva che Bob ci vedeva meglio di loro sott’acqua, ma avevano accettato che fosse lui a comandare perché quello non era il momento più adatto per mettersi a discutere. L’impresa costò un remo, ma finalmente Kenny fu liberato, e con l’aiuto degli amici salì all’asciutto, dove si sedette stringendosi il piede fra le mani mentre gli altri ciondolavano attorno.

Tenuto conto della sua normale abbronzatura, Kenny Rice era pallidissimo, e ci volle un bel po’ prima che il respiro e i battiti cardiaci gli tornassero normali. Gli altri quattro erano spaventati quasi quanto lui, e nessuno suggerì di immergersi di nuovo per ripescare il diabolico oggetto metallico. Fu Rice a parlarne, dopo una decina di minuti, dicendo che era un peccato aver fatto tanto fatica per niente, e allora Bob si tuffò di nuovo, ma non riuscì a vedere il cilindro fra i coralli e le alghe del fondo. Dopo essersi trovato a faccia a faccia con un riccio di mare, smise di frugare sotto tutto quello che vedeva e tornò definitivamente alla superficie. Del lavoro di tutto il pomeriggio a Rice rimase così soltanto la paura, ma era un genere di souvenir che il ragazzo non ci teneva a mostrare ai suoi genitori.

Erano le quattro e mezzo, e restava ancora parecchio tempo prima di cena, ma chissà perché la prospettiva di continuare le esplorazioni nella zona della scogliera non pareva più molto attraente. Dopo una brevissima discussione i ragazzi decisero di andare ai dock.

«Quello dovrebbe essere un posto tranquillo e sicuro, dato che la nave arriverà soltanto fra una settimana» commentò innocentemente Norman Hay. Nessuno parlò, ma probabilmente pensavano tutti la stessa cosa. Il Cacciatore sentì la frase, ma non le diede importanza: la sua mente era ancora completamente assorbita dal relitto visto e sentito, e che non era certo un pezzo della sua astronave.


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