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«No, non è quello il problema principale» ripeté Laj Drai, pensoso, mentre entrava nel laboratorio e si chiudeva distrattamente la porta alle spalle.

«Signore, io…» cominciò Feth, ma le sue scuse terminarono lì.

«No, non badate a me. Continuate, Ken… vedo che avete un problema. Cercate di risolverlo, e poi ci prenderemo cura dell’altro. Non ci saranno interruzioni.»

Un po perplesso, perché si era completamente dimenticato delle minacce di Drai, Ken ritornò al microfono e riprese la sua cantilena. Anche se non capì le parole con cui Roger infine lo interruppe, la cosa era andata tanto per le lunghe che anche lui condivideva l’impazienza del ragazzo. Inoltre, il rumore che udì quando il ragazzo assestò una pedata alla sonda era assai indicativo.

Fu Drai a far decollare la sonda, un attimo più tardi. Anche lui non aveva mai udito quelle parole; ma erano alquanto diverse dalle solite conversazioni umane: talmente diverse da fargli venire i brividi. Non riusciva a concepire l’idea che i suoi rapporti con il Pianeta Tre s’interrompessero o divenissero tesi… la creatura era chiaramente eccitata, e probabilmente in collera. Quel colpo sullo scafo della sonda…

Pensando a questo, Drai fece guizzare un tentacolo verso il quadro dei comandi, sfiorando Sallman Ken: le leve di controllo dell’alimentazione e del motore scattarono contemporaneamente. Dal suo posto sulla spalliera, l’investigatore si voltò lentamente verso il suo datore di lavoro e lo fissò incuriosito.

«Mi sembrate altrettanto eccitato quanto l’indigeno. Cos’è successo?» domandò. Laj trasse un profondo respiro, e infine riuscì a controllare la propria voce. Cominciava ad accorgersi che quel suo ingresso, così teatrale, poteva non essere stata la più saggia delle mosse. Era possibile che l’esperto da lui recentemente assunto avesse appreso in modo del tutto innocente il nome del prodotto che giungeva dalla Terra; e se le cose stavano così, era pericoloso dare troppa importanza all’accaduto. Almeno in pubblico. Fece dunque retromarcia, con tutta l’indifferenza possibile.

«A quanto vedo» disse «le vostre analisi chimiche hanno incontrato delle difficoltà.»

«Lo credo anch’io. A quanto pare, i vostri indigeni non hanno le abitudini completamente diurne che mi avevate detto.» Ken non era partito con l’intenzione di difendere le proprie azioni, ma non poteva venirgli in mente risposta migliore. Laj Drai si soffermò per un istante a riflettere.

«Sì» disse infine «è un punto che mi sorprende leggermente. Per vent’anni non hanno mai fatto segnali, se non durante il loro periodo diurno. Mi chiedo se c’entrino gli abitanti delle distese azzurre, ma non riesco a immaginarne il modo, e neppure il motivo. Siete riuscito a eseguire i vostri test?»

«I più importanti, credo. Dovremo riportare la sonda qui alla base, per vedere che cosa è successo ai miei campioni in quell’atmosfera. Alcuni campioni sono bruciati, lo sappiamo già, ma vorrei conoscere i loro prodotti di combustione.»

«Naturalmente» disse Drai «non saranno solfuri. Uno pensa sempre ai solfuri, quando si parla di prodotti della combustione.»

«Perché ci siano dei solfuri» disse Ken «dovrebbero esserci in sospensione nell’atmosfera grandi quantità di polvere di solfo ghiacciata. Non avevo pensato a questo possibile aspetto… controllerò i campioni, quando la sonda sarà rientrata. A dire il vero, i risultati finora ottenuti mi preoccupano un poco. Non so quale possa essere il composto chimico che riesce a sostenere una combustione e che a così bassa temperatura è ancora allo stato gassoso, eppure laggiù c’è qualcosa che brucia con i nostri composti.»

«Che ne dite del fluoro?» fece Drai, andando a ripescare vecchi ricordi di qualche corso di chimica elementare.

«Potrebbe essere, ma come spiegare la sua presenza nell’atmosfera allo stato libero? Il fluoro mi sembra troppo attivo, perfino a quella bassa temperatura. Mi pare comunque che si possa fare lo stesso discorso per ogni altra sostanza capace di alimentare una combustione, e posso solo aspettare il ritorno della sonda con i campioni. Vi confesso che sono quasi tentato di scendere sul pianeta, nonostante il pericolo, per vedere di persona l’aspetto di quel luogo.»

Drai gli rivolse l’equivalente di un’alzata di spalle. «Se voi e Feth riuscirete a trovare il modo di farlo, non sarò io a proibirvelo. Anzi, potrebbe essere un’iniziativa altamente meritoria. Bene» riprese poi «occorreranno tre giorni perché rientri la sonda, e in questo periodo non ci sarà molto da fare. Feth si occuperà di agganciare la sonda sul raggio quando sarà abbastanza lontana dal pianeta.»

Ken interpretò queste parole come un invito ad allontanarsi, e uscì nel corridoio, dove cominciò a vagabondare senza meta. Doveva riflettere su alcuni suoi problemi che aveva rimandato fino a quel momento. Come aveva detto Drai, non si poteva fare nient’altro, relativamente al Pianeta Tre, fino al rientro della sonda, e lui non aveva più scuse per non pensare alla missione affidatagli da Rade.

Il prodotto che si ricavava dal pianeta veniva chiamato «tafacco». Questa, se non altro, era già una prima informazione. Rade non conosceva il nome del narcotico da lui cercato, e forse quell’informazione poteva essere utile.

Il sistema planetario in cui si trovavano era relativamente vicino a Sarr. Altra informazione che forse poteva essere utile. Le precauzioni adottate da Drai e i suoi compagni per nascondere il fatto che i due sistemi erano abbastanza vicini potevano essere considerate ragionevoli, forse, nel caso si fosse trattato di un’impresa commerciale ai limiti della legalità, ma erano la routine nel caso di un’attività palesemente criminale come lo spaccio della droga.

Il Pianeta Tre era freddo… termine che dava solo una pallida idea della situazione.. e la droga cercata da Rade non resisteva a temperatura ordinaria. Ken non era certo al cento per cento che ci fosse un collegamento tra le due cose, ma propendeva per il sì, a causa della tacita ammissione di Drai che il «tafacco» era un prodotto di origine vegetale.

Per quanto ci pensasse, non riuscì a farsi venire in mente altri particolari che potessero essere utili a Rade. Del resto, Ken era un po scocciato di essere stato coinvolto in quella faccenda dal capo della squadra narcotici, e, diversamente da un normale poliziotto, aveva la tentazione di limitarsi agli aspetti puramente ecologici e astronomici del problema che gli stava davanti.

E cosa dire del suo gelido Pianeta Tre? Certamente era abitato: una realtà che già di per se stessa pareva frutto di fantasia. E certamente non era conosciuto; nessun trasmettitore video, nessuna na vicella con equipaggio erano mai scesi sulla sua superficie. La cosa sembrava un po strana, ora che Ken ci pensava più attentamente. Il freddo era spaventoso, certo, e l’atmosfera assorbiva il calore da un corpo, diversamente dallo spazio che non lo assorbiva, ma lui non riusciva a convincersi che un buon ingegnere non fosse in grado di progettare un apparecchio capace di effettuare la discesa. Feth era più un meccanico che un ingegnere, naturalmente; ma era un po strano che quell’organizzazione fosse così sprovvista di scienziati competenti. Questa mancanza era resa ancor più evidente dal fatto che avevano dovuto assumere uno come lui.

Forse era proprio l’organizzazione cercata da Rade. Di sicuro ogni organizzazione commerciale interstellare regolare aveva la propria squadra ecologica: non poteva farne senza, viste le strane situazioni che sorgevano, a esempio, quando il pianeta Sarr, ricco di metalli, commerciava con i maghi della chimica di Rehagh. che erano degli anfibi. Eppure, Laj Drai era riuscito ad avere soltanto lui, Sallman Ken, un praticone della scienza! La cosa non era soltanto strana: era assurda. Si chiese come Drai fosse riuscito, anche solo per un momento, a fargliela sembrare plausibile.

Comunque, se non avesse scoperto niente, non se la sarebbero presa con lui. Era in grado di esaminare il Pianeta Tre in modo completo, ed era disposto a farlo; poi sarebbe tornato a casa, avrebbe passato a Rade le sue informazioni, e il capo della squadra narcotici ne avrebbe fatto l’uso più opportuno. Il Pianeta Tre era più interessante.

Come scendere su quel mondo inospitale? Anche lui era d’accordo sul fatto che era meglio tenere lontano dall’atmosfera le navi di maggiore dimensione, dopo gli inconvenienti con gli indigeni delle zone pianeggianti azzurre. Però le sonde scendevano sul pianeta da vent’anni senza difficoltà, e l’unica attività degli abitanti delle pianure che era stata osservata erano i raggi radar rilevati negli ultimi due o tre anni. E si riusciva facilmente a ingannarli con coperture da un quarto d’onda, come gli aveva detto Drai. No, l’unico reale pericolo veniva dalle spaventose condizioni naturali del pianeta.

Bene, una normale tuta corazzata da ingegnere permetteva a un sarriano di lavorare per un periodo abbastanza lungo in un lago di alluminio fuso. Nell’alluminio, ovviamente, la differenza di temperatura era inferiore a quella che si incontrava sul Pianeta dei Ghiacci, ma la conduzione del calore, nel metallo, era superiore a quella nell’atmosfera, e compensava la differenza. E se non la compensava, si potevano aumentare le piastre di riscaldamento della tuta, o migliorare il suo isolamento, o tutt’e due le cose. Perché non lo avevano mai fatto? Si ripromise di chiederlo a Feth o a Laj Drai.

Poi, ammesso per un momento che non si potesse scendere sul pianeta neppure in questo modo, perché non si poteva usare la televisione? Ken non riusciva a credere che il vetro sottile del tubo di ripresa di una telecamera non si lasciasse raffreddare senza rompersi fino a raggiungere la temperatura che regnava sul pianeta, anche se occorreva mantenere a normale temperatura le parti elettriche. La differenza di temperatura non poteva essere superiore a quella che c’era negli antichi tubi a incandescenza!

Si ripromise di chiedere chiarimenti a Feth su entrambi i punti.

Stava ritornando al laboratorio per farlo, quando incontrò Drai, che lo salutò come se quel giorno non fosse successo niente di particolare.

«Feth ha agganciato la vostra sonda al raggio principale, e per quasi tre giorni non ci sarà bisogno di controllarla» disse. «Questo nel caso che intendeste recarvi a sorvegliare il quadro di comando.»

«Volevo parlare con Feth» spiegò Ken. «Ho riflettuto sul problema di procurarci una tuta e un equipaggiamento capaci di resistere alle condizioni del Pianeta Tre, e penso che si possa trovare una soluzione.» E riferì al suo datore di lavoro una versione purgata e ridotta delle sue riflessioni.

«Non so» disse infine Laj Drai, quando lo ebbe ascoltato. «Dovete parlarne con Feth, come già pensavate di fare. Abbiamo già provato a fare tutte queste cose nel periodo passato da quando Feth si è unito a noi, e le apparecchiature televisive si sono sempre guastate come da lui previsto. Non era con noi, invece, durante la prima spedizione, che non ha effettuato alcuna ricerca, a parte quelle di cui vi ho parlato. Quella prima spedizione era in realtà una crociera per diporto, e se a bordo erano disponibili tante sonde, era per il solo motivo che il proprietario della nave amava fare le sue osservazioni in tutta tranquillità: quando entrava in un sistema planetario, ne mandava fuori dieci alla volta, e teneva in orbita la Karella finché non trovava qualcosa che desiderava vedere o toccare personalmente.»

«L’ho già conosciuto?» domandò Ken.

«No… è morto vari anni fa. Era già vecchio quando abbiamo scoperto questo posto. Io ho ereditato la nave e ho dato inizio all’attuale commercio.»

«E Feth, quando si è unito a voi?»

«Un anno o due dopo l’inizio… tra tutto il personale, è quello con la massima anzianità. Lui potrà spiegarvi ogni cosa, per ciò che riguarda i nostri guai di ordine tecnico, mentre io non ne sarei capace. Fareste meglio a parlarne con lui, ammesso che abbia voglia di chiacchierare.» Senza spiegare questo commento conclusivo, Drai sparì lungo il corridoio. Ken non diede molta importanza alle parole di Drai; si era già accorto che Feth non era certo una persona loquace.

Il meccanico non pareva avere molto da fare, in quel momento. Era ancora disteso sulla spalliera posta davanti ai comandi della sonda, e sembrava sprofondato nei propri pensieri. Si alzò quando Ken entrò nella stanza, ma non disse niente, e si limitò a fargli un cenno di saluto con la testa. Non notando niente di inconsueto nel suo comportamento, Ken cominciò subito a esporgli le sue idee. Feth lo lasciò finire senza interromperlo.

«Le vostre osservazioni mi sembrano giuste» ammise poi, quando Ken ebbe finito «e certo non sarei in grado di spiegare perché le cose non funzionano come dovrebbero. Posso solo dire che, nonostante tutto, quei tubi si rompono. Se volete far atterrare sul pianeta un’armatura piena di termometri e di manometri, io non ho niente in contrario, ma penso che vorrete scusare il mio pessimismo. Ho già rovinato un mucchio di ottime attrezzature video in quell’atmosfera.»

«Certo, ammetto che la vostra esperienza è superiore alla mia» rispose Ken «ma credo che valga la pena di provare.»

«Se gli strumenti ci danno dei valori accettabili, chi scende poi giù con l’armatura, la volta dopo? Al solo pensiero mi sento irrigidire le ginocchia. È un’idea che mi mette paura, e non ho esitazioni a confessarlo.»

«L’idea mette paura anche a me.» A Ken ritornarono in mente le emozioni incontrollabili che si erano impadronite di lui quando aveva visto per la prima volta il Pianeta Tre. «È un luogo spaventoso, non c’è dubbio, ma vorrei sapere lo stesso come stanno le cose laggiù, e per saperlo sono anche disposto a rischiare.»

«Rischiare… uh! Diventerete il vostro monumento alla memoria nel giro di cinque secondi, una volta che si sarà fatto nella tuta il primo forellino» replicò il meccanico. «Mi sembra addirittura un’eresia spedire laggiù dei buoni strumenti, anche se so che possono resistere alla temperatura. D’accordo, vi preparerò una tuta corazzata, se avete davvero intenzione di provare. Ci sono sonde a sufficienza.»

«Come pensate di infilarla nella sonda? Nel vano di carico non c’è spazio sufficiente.»

«No, non nel vano» rispose il meccanico. «Ci sono degli anelli sullo scafo, e possiamo legare la tuta agli anelli. Basta fare attenzione, e attraversare più lentamente l’atmosfera.» Scivolò fino al fondo del laboratorio, e apri un armadietto. Dal suo interno, prelevò una delle tanto discusse tute corazzate.

Anche alla ridotta gravità di Mercurio, la tuta era difficile da spostare. A causa delle peculiari caratteristiche della struttura fisica sarriana, dall’interno della tuta ci si poteva muovere agevolmente; ma pur essendo al corrente di questo particolare, Ken si chiese come avrebbe fatto a muoversi, una volta raggiunta la superficie del massiccio Pianeta Tre in quel mostro di metallo, con una gravità che era circa il quadruplo di quella attuale. Questo pensiero destò in lui una curiosità.

«Feth, secondo voi, che razza di chimica organica possono avere quegli indigeni? Riescono a muoversi… almeno, noi pensiamo che riescano a farlo… sotto una gravità assai elevata, in condizioni di temperatura che congelerebbero qualsiasi materiale organico. Avete mai pensato a questo particolare?»

Il meccanico rimase in silenzio per qualche istante, come per riflettere sulla risposta da dargli. «Sì» disse alla fine. «Ammetto di averci pensato. Ma non ho molta voglia di parlarne.»

«Perché? Quel posto non può essere così repellente.»

«Non si tratta di questo. Ricordate le minacce di Drai? Ricordate cosa ha promesso di fare a chi vi fornisce delle informazioni sulla merce che otteniamo dal pianeta?»

«Sì, vagamente. Ma cosa c’entra?»

«Forse non c’entra, forse c’entra. Se l’è avuta a male perché vi ho detto il nome della merce. E non ve lo avrei detto, se ci avessi pensato un attimo. La situazione pareva richiedere una risposta rapida, e io ve l’ho data.»

«Ma le vostre idee sulla biochimica degli indigeni» disse Ken «non possono rivelare niente di segreto… o forse possono rivelarlo, già. Comunque, Drai sa benissimo che non ho mai lavorato per un’altra compagnia commerciale, e che non ho interessi commerciali personali… perché dunque continua a trattarmi come una possibile spia? Non ho nessun interesse per la vostra merce: a me interessa il pianeta.»

«Non ne ho alcun dubbio. Tuttavia, se dovesse scapparmi di nuovo qualcosa di simile, vi prego di tenere per voi l’informazione. Mi aspettavo una sorta di esplosione nucleare, quando Drai è entrato mentre voi gridavate «tafacco!» al microfono.»

«Comunque, non può fare molto.» Era una sorta di domanda; Ken aveva ripreso a ragionare.

«Be…» Feth fu molto cauto nel dare la risposta «il padrone è lui, e questo lavoro non è poi così brutto. Consideratelo un favore personale, se non vi dispiace.» Tornò a occuparsi dell’armatura, con un’espressione che indicava che per il momento non aveva più voglia di parlare. Ken non riuscì a ricavare niente di sicuro dalla risposta del meccanico.

Non stette ad almanaccarci sopra, però, perché l’altro problema era troppo interessante. Feth era certamente un ottimo meccanico: non aveva niente da invidiare a molti ingegneri conosciuti da Ken. Aveva completamente aperto l’armatura e aveva tolto tutti i portelli della manutenzione, e aveva cominciato il lavoro effettuando una completa ispezione delle parti interne. Compiuta l’ispezione, aveva di nuovo riempito il sistema di riscaldamento a circolazione di zinco, aveva richiuso ermeticamente i portelli, ma aveva lasciato aperta l’armatura. Poi aveva rivolto a Ken uno sguardo interrogativo, e per la prima volta dopo due ore di silenzio, aveva parlato.

«Avete qualche idea sulla collocazione degli strumenti? Siete voi che dovete dirmi che cosa volete cercare.»

«Be, quello che dobbiamo sapere è se la tuta è effettivamente in grado di mantenere costanti la temperatura e la pressione. Penso che un singolo manometro, in un qualsiasi punto all’interno, e alcuni termometri alle estremità siano sufficienti. Possiamo usare degli strumenti con lettura a distanza, o dobbiamo aspettare il ritorno della tuta?»

«Temo che dovremo aspettare» disse il meccanico. «Il problema non sta negli strumenti, che sono facili da installare, ma nel trasmettitore vocale che c’è nella tuta, il quale non può inviarci i loro dati. Posso mettere all’interno della tuta un multiregistratore, collegandolo agli strumenti in modo che registri i loro dati, e far sì che voi possiate accenderli e spegnerli a distanza: mi limiterò a collegarlo a uno dei comandi della tuta. Suppongo che vogliate poter comandare anche i riscaldatori della tuta, vero?»

«Sì» rispose Ken. «Se occorresse la piena potenza dei riscaldatori per mantenere una temperatura accettabile, sarebbe meglio saperlo. Suppongo che si potrebbero installare degli altri riscaldatori, se fosse necessario?»

«Penso di sì.» Per la prima volta, Feth gli rivolse un’espressione che assomigliava a un sorriso. «Probabilmente potrei montarvi una fornace sotto i piedi, ma non so se riuscireste a camminare.»

«Non riuscirei a camminare, ma riuscirei a vedere» disse Ken.

«Se il vostro visore non incontrerà gli stessi guai incontrati dai miei tubi televisivi» commentò Feth. «Anche il quarzo ha i suoi limiti.»

«No, penso che resista. Comunque, noi non correremo nessun rischio per accertarcene. Procediamo pure, e installiamo quegli strumenti: sono curioso di sapere chi di noi ha ragione. È questo, il registratore?» Prese in un armadio un piccolo apparecchio la cui caratteristica più appariscente era costituita dalle due grosse bobine di nastro magnetico, e lo sollevò per farlo vedere a Feth. Il meccanico gli rivolse un’occhiata.

«Ha una sola pista» disse. «Prendete un L-7: lo riconoscerete dal nastro, che è cinque volte più largo. Metto un solo barometro, come dite voi, e colloco i termometri nella testa, nel tronco, in un piede e in una manica, cercando di metterli nei punti più lontani dal centro. Con questa sistemazione, il nastro ha ancora una pista libera, che potete usare come volete.» Il meccanico, mentre parlava, continuava a lavorare: prelevava, da un armadietto ben fornito, alcuni minuscoli strumenti e li fissava nei punti da lui annunciati. Per un attimo, Ken si chiese se l’esistenza di quella abbondante scorta di strumenti non smentisse la sua teoria dell’assenza di conoscenze tecniche; poi comprese che quegli strumenti non erano altro che un assortimento standard da laboratorio, e indicavano soltanto un forte investimento finanziario. Chiunque poteva comprarli, e chiunque poteva usarli.

Nonostante l’abilità di Feth, quel lavoro richiese un tempo piuttosto lungo. Dato che erano sarriani, non avevano bisogno di dormire, ma anch’essi di tanto in tanto avevano bisogno di riposare. Fu nel corso di uno di questi periodi di riposo che Ken notò per caso l’indicazione dell’orologio.

«Ehi» fece notare al compagno «su quella parte del pianeta deve ormai essere giorno. Mi chiedo se Drai sia già sceso con la sua sonda.»

«Probabilmente, sì» rispose Feth, guardando a sua volta l’orologio. «E probabilmente sarà già di nuovo nello spazio: di solito non perde molto tempo.»

«In tal caso» fece Ken «c’è il rischio che io venga spellato, se salgo fino all’osservatorio?»

Feth lo osservò per qualche istante senza parlare, e Ken si pentì di avergli rivolto la domanda.

«Probabilmente spellerebbe me» gli rispose infine il meccanico «se Drai scoprisse che vi ho consigliato di farlo. È preferibile che rimaniate qui. Abbiamo molte cose da fare.» Si alzò e ritornò alla sua attività, anche se il periodo di riposo era appena iniziato. Ken capì che non intendeva dire altro, e si affrettò a unirsi a lui.

Il lavoro terminò giusto in tempo. L’armatura superò un test di un’ora, svoltosi nel vuoto della camera di decompressione, per accertare le perdite di pressione e di calore; venne assicurata agli anelli di carico posti sullo scafo di un’altra sonda; partì in direzione dello spazio, guidata dal pilota automatico, e proprio allora la sonda con i campioni cominciò a decelerare nel suo viaggio di ritorno. Nel caso della sonda che portava la tuta corazzata, il pilota automatico era necessario: il secondo missile non poteva essere guidato mediante la radio finché il primo non era rientrato, dato che l’altra unità radio veniva utilizzata da Drai per riportare su Mercurio il suo carico.

Tra la partenza della sonda con la tuta e l’arrivo di quella con il laboratorio mobile ci fu il tempo per un breve periodo di riposo; Ken non vedeva l’ora di esaminare i campioni, e infine la sonda, sotto il controllo esperto di Feth, uscì dalla camera di decompressione. Ken intendeva gettarsi subito sui suoi campioni, ma il meccanico gli gridò di fermarsi.

«Fermo! Non è fredda come sul Pianeta Tre, ma è perfettamente in grado di congelarvi! Guardate.» Indicò con un tentacolo la superficie lucida della sonda, sulla quale si condensavano gocce di solfo liquido, che si univano tra loro sotto forma di rivoletti che poi precipitavano a terra, dove si ritrasformavano subito in vapore. «Prima, lasciate che si riscaldi.»

Ken si fermò, obbediente, e si affrettò a tirarsi indietro sentendosi giungere sui piedi il soffio gelido che proveniva dallo scafo. L’aria che arrivava fino a lui era sopportabile, ma lo scafo stesso doveva essere talmente freddo da solidificare lo zinco.

Passarono lunghi minuti prima che il metallo si riscaldasse a sufficienza perché cessasse lo sgocciolio del solfo liquido. Soltanto allora Feth aprì il portello del vano di carico, e il processo di liquefazione del solfo si ripeté. Questa volta, il liquido color paglierino formò una pozza sul fondo del vano di carico, allagando i contenitori e facendo sorgere in Ken seri dubbi sulla purezza dei suoi campioni. L’investigatore accese a bassa potenza tutti i riscaldatori per eliminare in fretta la condensa. Poiché c’era il rischio che il contenuto del vano di carico reagisse con l’aria se la temperatura si fosse alzata troppo, si affrettò a staccare il riscaldamento non appena cessarono il sibilo e il brontolio dell’aria che bolliva; e finalmente fu in grado di esaminare i prodotti delle sue reazioni chimiche. Come avrebbe potuto dirgli Roger Wing, erano davvero qualcosa di sorprendente!

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