17

«Papà, vuoi per favore spiegarmi come sei riuscito a fartela dare?» Don fissava a occhi spalancati la radio sarriana. Roger rise.

«Non è stato lui a farsela dare. Ha passato tutto il pomeriggio a insegnare l’inglese all’extraterrestre, e quello, proprio mentre stava per andarsene via, si è voltato e ha posato per terra quell’oggetto. «Portare!» ha gridato, ed è partito. Cosa credi che sia, papà?»

«Non posso saperlo fino al suo ritorno, Rog. Può essere un apparecchio che intende usare nella sua prossima visita; può essere un dono per ringraziarvi di averlo aiutato a raccogliere le piante. Mi pare che sia meglio portarlo a casa, come ci ha detto lui, e non fare niente fino al suo ritorno.»

«Ma se non ritornerà prima di due giorni…»

«So che la curiosità è una malattia dolorosa, Rog; ne soffro anch’io. Ma continuo a credere che risulterà vincitore in questa nuova sorta di commercio colui che procederà con maggiore cautela e che terrà nascosti più a lungo i suoi veri interessi. Non siamo ancora sicuri che le sue indagini scientifiche non abbiano un solo scopo: evitare di dover pagare il tabacco. In fin dei conti, perché questo tizio ha cominciato proprio con le piante? C’è un mucchio di altre cose che potrebbero interessargli.»

«Se la sua forma di vita è tanto diversa dalla nostra, come può sapere che il tabacco viene da una pianta?» rispose Roger. «Alla sua temperatura, certamente brucerà subito e non gli permetterà di guardare i pezzi al microscopio o qualcosa di simile, e una sigaretta non assomiglia certo a una pianta.»

«Vero» ammise il padre. «Be, io dico solo che non abbiamo nessuna prova che le sue intenzioni non siano quelle. E che mi sembra probabile che invece lo siano.»


Stranamente, anche Ken pensò a un argomento simile, nell’intervallo tra quella visita e la successiva; e quando scese nella radura accanto alla casa dei Wing, con quattro scatole legate alla navicella, per prima cosa fece capire che voleva mettere dei minerali in una cassa che era priva di apparecchio refrigeratore. Indicandone poi una seconda, anch’essa senza refrigeratore, disse: «Oggetto… buono caldo… buono freddo.» I Wing si guardarono tra loro per un attimo; fu poi Edith a prendere la parola.

«Volete dire, oggetti che sono buoni sia al caldo che al freddo? Roba che non occorre mettere ne! refrigeratore?»

Nella frase c’erano molte parole nuove, ma Ken tentò lo stesso. «Sì. Caldo, buono» disse. Era ancora sospeso a mezzo metro dal terreno, poiché questa volta aveva legato il carico in modo da poterlo staccare senza essere costretto a scendere a terra. Ora si posò lentamente sul terreno, e cominciarono a succedere delle cose.

Il sottobosco, come capita spesso nelle foreste di conifere, era composto prevalentemente di aghi di pino. Intorno alla casa, in parte erano stati scopati via, ma il terreno era decisamente infiammabile. Naturalmente, nel momento in cui il piede di Ken, chiuso nello stivale d’acciaio, toccò lo strato di aghi secchi, si alzò una nube di fumo, e solo la sua rapidità nel sollevarsi nuovamente in aria evitò che s’incendiassero. Comunque, nessuno si sentì al sicuro finché Roger non ebbe versato sul luogo un secchio d’acqua.

Questo, però, fece nascere complicazioni di altro genere. Ken non ricordava di avere mai visto l’acqua, e certo non aveva mai visto delle attrezzature capaci di dispensare quantità di liquido apparentemente illimitate. Il rubinetto utilizzato per riempire il secchio suscitò in lui un notevole interesse; e in base a una sua richiesta, fatta in una mescolanza di segni e di parole inglesi, Roger riempì un altro secchio, lo posò sul muretto di cemento, ai piedi degli scalini davanti alla porta, e poi si allontanò. Ken, che in tal modo poteva esaminare l’oggetto senza entrare in contatto con altro, lo studiò a lungo; e terminò tuffando con cautela un manipolatore in quel curioso liquido trasparente. La nube di vapore che ne fuoriuscì lo sorprese quasi quanto la momentanea e intensa sensazione di freddo che gli giunse dal metallo, e si affrettò a tirarsi indietro. Cominciava a sospettare la natura di quel liquido, e mentalmente si tolse il cappello davanti a Feth. Il meccanico, ammesso che fosse veramente un meccanico, era davvero capace di pensare.

Alla fine, Ken venne installato sopra un forno all’aria aperta, nei pressi della casa; le scatole per i campioni vennero appoggiate per terra e i bambini scomparvero in varie direzioni per riempirle. Riprese la lezione di lingua, e per circa un’ora si fecero notevoli progressi. Alla fine di quel periodo, maestro e allievo rimasero piacevolmente sorpresi nel constatare di riuscire a scambiarsi frasi accessibili: frasi goffe e grezze, piene di circonlocuzioni, ma comprensibili. Sulla faccia di Wing padre si disegnò un sorriso quando se ne accorse; si disse che era giunto il momento di dare una leggera sorpresa al suo ospite, e forse di riuscire in tal modo a ricavarne qualche informazione utile. Ricordava cosa si erano detti lui e Don la sera prima, e pensando al figlio provò una sorta di tranquilla soddisfazione: quel tipo di soddisfazione che talvolta trasforma i padri in solenni seccature.

«Non mi hai fornito molte date» gli aveva detto Don «ma sono state sufficienti. Concordano con altre informazioni. L’intervallo tra l’invio del segnale e l’arrivo della sonda varia con un periodo di circa centoventi giorni, considerando i dati di vari anni. Naturalmente, in molti di questi «periodi» non sono arrivate sonde, ma il ciclo è quello: prima due giorni, e poi tre giorni. E centoventi giorni è il periodo sinodico di Mercurio: il tempo occorrente perché Mercurio raggiunga la Terra nel corso di due successive rivoluzioni attorno al sole. Ricordavo la posizione di Mercurio perché l’ho studiata a scuola questa primavera, e ho fatto alcuni calcoli: gli intervalli brevi tra segnalazione e arrivo cadevano quando Mercurio era più vicino, e quelli lunghi quando era dall’altra parte del sole, a una distanza circa doppia. A quanto pare, quelle sonde arrivano da Mercurio con un’accelerazione di circa una volta e un quarto quella di gravità.» Wing padre non era un fisico, ma aveva capito a sufficienza il discorso del figlio. Il concetto era diventato di dominio pubblico in collegamento con il volo degli aeroplani.

Aveva controllato le cifre di Don, che erano abbastanza facili da seguire, e gli erano sembrate giuste; dietro sua richiesta, il ragazzo aveva disegnato uno schema delle orbite dei pianeti interni del sistema solare, indicando su di esse la presente posizione dei pianeti stessi. In quel momento, Wing padre aveva la piantina in tasca.

Con l’extraterrestre avevano appena finito di parlare della parola «casa», a cui erano giunti per combinazione. Wing padre pensava di avere sufficientemente chiarito il concetto, e gli pareva che fosse giunto il tempo di mettere sul tavolo uno degli assi che fino a quel momento aveva tenuto nella manica.

Cominciò sollevando un braccio in modo da indicare l’intero orizzonte. «Terra» disse. Il sarriano ripeté la parola, senza fare gesti che indicassero che aveva capito. L’uomo pronunciò di nuovo la parola, pestando in terra il piede; poi prese un foglio del suo taccuino e fece uno schizzo del pianeta, disegnandolo come, secondo lui, doveva apparire dallo spazio. Come spiegazione finale, fece una sfera servendosi di un pezzetto di creta da modellare che aveva trovato nella stanza dei giochi e che aveva portato con sé. Indicò la sfera, il disegno e il terreno, ripetendo ogni volta la parola.

Ken comprese. Lo dimostrò sporgendosi oltre l’orlo del forno e usando la sua striscia metallica per disegnare a sua volta una figura sul terreno. Tracciò un disegno perfettamente riconoscibile del Sole e delle orbite dei primi tre pianeti. Sapeva che, così facendo, rischiava di andare al di là delle conoscenze astronomiche locali, ma il fatto che l’indigeno conoscesse la forma del proprio mondo era incoraggiante.

Wing padre si affrettò a tirare fuori il disegno di Don, che sostanzialmente era identico a quello di Ken, a parte il fatto che vi erano indicate anche l’orbita e la posizione di Marte. Passò vari minuti a dirgli il nome dei pianeti, chiarendo anche il significato della parola «pianeta». Poi fecero una sorta di gara; Ken aggiunse allo schema anche Giove e Saturno per scoprire fino a che punto giungessero le conoscenze astronomiche dell’indigeno. Wing padre disse il nome dei due pianeti, e aggiunse Urano, Nettuno e Plutone; Don, che fino a quel momento non aveva preso parte alla lezione, corresse l’orbita di Plutone in modo da farla passare attraverso quella di Nettuno e si mise ad aggiungere satelliti. Padre e figlio poi ritennero che la sfilza di suoni sarriani che giùnse dall’altoparlante significasse che erano rimasti sorpresi, e ne trassero una certa soddisfazione.

Ken era rimasto sorpreso per vari motivi.

«Drai» disse «se siete in ascolto, questi indigeni non sono affatto dei selvaggi. Devono avere una scienza abbastanza progredita. A quanto pare, conoscono nove pianeti di questo sistema, mentre noi ne conosciamo soltanto sei; e uno di loro mi sta elencando un gran numero di lune… ne ha addirittura messe due attorno al Pianeta Quattro, mentre noi non ne abbiamo vista nessuna. O posseggono il viaggio nello spazio, o hanno dei telescopi molto buoni.»

«In vent’anni di osservazione, non abbiamo visto nessuna astronave su questo pianeta» gli rammentò Feth. Ken non rispose; Wing padre aveva ripreso a parlare. Indicava sul proprio disegno il Pianeta Tre e ripeteva il nome che gli aveva dato.

«Terra… casa io.» Indicò se stesso con la mano per dare maggiore evidenza al pronome personale. Poi posò il dito sul pianeta più vicino al sole. «Mercurio… casa voi.» E indicò Sallman Ken.

Wing padre rimase un po deluso dalla reazione, ma non lo sarebbe stato se fosse stato in grado di riconoscere le espressioni facciali dei sarriani. Lo scienziato rimase stupefatto per una buona decina di secondi; quando riprese il controllo della voce, si rivolse ai suoi lontani ascoltatori e non all’uomo della Terra.

«Sono certo che v’interesserà sapere che è a conoscenza del fatto che veniamo dal Pianeta Uno. Penso che creda che noi viviamo laggiù, ma l’errore non mi sembra molto grave, date le circostanze.»

Questa volta gli rispose la voce di Drai. «Siete pazzo! Dovete averglielo detto voi stesso, stupido! Come può averlo saputo, senza aiuto da parte nostra?» esclamò.

«Io non gli ho detto niente» rispose Ken. «Avete ascoltato anche voi quello che ci siamo detti, e dovreste saperlo. Inoltre, non mi sembra di dover essere io a spiegare come ha fatto a saperlo; io mi limito a riferirvi cosa succede qui, da un momento all’altro.»

«Be, cercate di togliergli dalla testa quella idea! Negate tutto! Sa già troppe cose!»

«Non vedo cosa ci sia di male» osservò Ken, in tono ragionevole.

«Supponiamo che abbiano davvero il volo spaziale! Non vogliamo che ci piombino addosso! Come… Sono riuscito a tenere segreto questo luogo per vent’anni.»

Ken non si preoccupò di segnalargli i difetti del suo ragionamento. Si limitò a dire: «Non so fino a che punto siano certi della loro affermazione, e temo che una negazione da parte mia possa essere pericolosa. Se fossero davvero certi di quello che affermano, capirebbero che mento, e la cosa potrebbe risultare controproducente.»

Drai non fece commenti, e Ken tornò a dedicarsi al terrestre, che era rimasto ad ascoltare la conversazione senza capire.

«Sì, Mercurio» disse il sarriano.

«Capire. Caldo» rispose Wing padre.

«No, freddo» Ken s’interruppe, cercando le parole adatte. «Poco caldo. Caldo per voi. Caldo per…» alzò un braccio della tuta e descrisse un largo cerchio «… piante, per cose. Freddo per noi.»

Don mormorò, rivolto al padre: «Se giudica Mercurio troppo freddo, deve provenire dall’interno di qualche vulcano. Gli astronomi non pensano che ci siano pianeti tra Mercurio e il Sole, e lui stesso non ne ha messi nel suo schema, se l’hai notato.»

«Sarebbe interessante sapere qual è il grado di calore che gli sembra giusto» disse Wing padre. Stava per rivolgersi di nuovo a Ken per chiedergli informazioni su questo particolare, quando dall’altoparlante della sonda scaturì una scarica di parole aliene. Lo stesso Ken ne comprese il significato soltanto in parte.

«Ken! Qui…» Solo queste due parole, pronunciate da Feth; poi la trasmissione cessò, con lo scatto che indicava che era stata interrotta la comunicazione. Ken ripeté varie volte il nome di Feth nel suo microfono, ma non ottenne risposta. Tacque anche lui, e rifletté sulla situazione.

Gli indigeni ora si limitavano a guardarlo senza parlare, poiché evidentemente avevano capito che era successo qualcosa di grave; ma in quel momento Ken non voleva pensare a loro. Era come un palombaro che sente scoppiare un litigio tra la squadra addetta a pompare l’aria fino a lui, e non aveva orecchi per altro. Che combinavano, là sopra, per la Galassia?

Che Drai avesse deciso di abbandonarlo laggiù? No; anche se il capo spacciatore avesse improvvisamente deciso che Ken era inutile, non avrebbe abbandonato un mucchio di costose attrezzature al solo scopo di sbarazzarsi di lui.

Inoltre, Ken sospettava che lo spacciatore preferisse vederlo morire per una crisi di astinenza, anche se questo sospetto era forse un’ingiustizia. Oppure? Che Drai si fosse messo ad agire con astuzia, e avesse interrotto la trasmissione perché sperava che Ken si tradisse in qualche modo? Poco probabile. Se non altro, Feth lo avrebbe avvisato in qualche modo indiretto, mentre nelle parole che erano giunte a Ken prima che la comunicazione fosse interrotta c’era troppa ansia.

Forse la sfiducia di Drai… abbastanza giustificabile, date le circostanze… era giunta al punto da spingerlo a scendere di persona per controllare le azioni del suo scienziato addomesticato. Comunque, Ken non riusciva a immaginarselo sul Pianeta dei Ghiacci, infilato in una tuta, per importante che fosse quello che voleva scoprire.

C’era però un altro modo di scendere di persona. Lee non l’avrebbe gradito, naturalmente. Forse sarebbe addirittura riuscito a convincere il suo datore di lavoro che era troppo pericoloso. O almeno avrebbe cercato di farlo, perché, se Drai aveva davvero in mente quell’idea, probabilmente non si sarebbe lasciato convincere da nessuna ragione.

In tal caso, da un momento all’altro poteva scendere su di loro l’ombra della Karella. La cosa spiegava il tentativo di avvertirlo, da parte di Feth, nonché l’improvvisa interruzione delle comunicazioni. Se così stavano le cose, lui non aveva di che preoccuparsi: Drai era padronissimo di controllare quanto voleva, fino a congelarsi gli occhi sull’oblò. Non s’era vista da nessuna parte la benché minima traccia di tafacco, anche se i bambini indigeni erano già ritornati diverse volte con dei nuovi campioni di vegetazione da infilare nelle scatole e ne avevano insegnato il nome a Ken. Ken stesso, del resto, non aveva ancora fatto niente per dare inizio al proprio piano.

Era appena giunto a questo punto delle sue considerazioni, e cominciava a tranquillizzarsi, allorché l’indigeno che gli insegnava le parole tirò fuori una sigaretta e l’accese.

Wing padre, in realtà, non aveva intenzione di fare niente del genere. Aveva una buona idea dei valore che quelle creature attribuivano al tabacco, e non voleva distrarre lo scienziato da quelle che sembrava una conversazione ricca di notizie. Anzi, avrebbe preferito far credere alla creatura che il commercio veniva svolto da tutt’altre persone. La forza dell’abitudine, però, fece naufragare tutte le sue buone intenzioni; tutto preso a chiedersi i motivi dell’interruzione, soltanto alla prima boccata si accorse di avere acceso la sigaretta.

L’alieno, constatò Wing padre, puntava entrambi gli occhi sul piccolo cilindro, e già questo era un fatto abbastanza inconsueto. Di solito, uno degli occhi girava qua e là, in un modo che riusciva a dare fastidio perfino a Roger. Il motivo di quell’improvvisa attenzione sembrava ovvio; Wing padre s’immaginò mentalmente che l’alieno passasse in rassegna la lista di ciò che aveva con sé, chiedendosi cosa potesse dare in cambio del resto del pacchetto. E non era molto lontano dal vero.

Quel tipo di pensieri, comunque, non portava a niente, e Ken lo sapeva. In quel momento, il vero problema era togliere di mezzo la micidiale sostanza, prima dell’arrivo di Drai… sempre che Drai intendesse arrivare. Per un momento, Ken si chiese se poteva usare l’altra radio: l’aveva vista al suo arrivo, posata in terra accanto alla porta d’ingresso della casa. Bastava il buon senso a dirgli che era impossibile. Anche se fosse riuscito a convincere uno degli indigeni a portargli la radio e a trascinare via la sonda, conducendola fuori portata del suo microfono, non sarebbe riuscito a farlo in tempo. Poteva soltanto sperare: il cilindro si stava consumando lentamente, e c’era la possibilità che, prima dell’arrivo della nave, si consumasse del tutto. Cosa non avrebbe dato per sapere che sulla nave avevano chiuso anche il ricevitore, quando avevano chiuso il trasmettitore!

Se Drai era ancora in ascolto, il silenzio degli ultimi istanti avrebbe ulteriormente destato i suoi sospetti, pensò Ken. Ma si rassegnò pensando che non poteva farci niente.

In realtà, ci fu poi tutto il tempo perché la sigaretta si consumasse, e questo fu merito di Ordon Lee. Feth aveva cercato di dare l’avviso non appena aveva capito quali fossero le intenzioni di Drai, ma, prima che potesse finire, l’altro l’aveva cacciato via dal quadro di comando e l’aveva sbattuto fino in fondo alla cabina.

Quando si era ripreso e si era rialzato, Feth si era visto puntare contro una pistola, il cui calcio a forma di disco era saldamente appoggiato al busto del trafficante.

«Allora, voialtri due state davvero meditando qualche trucco!» aveva detto Drai. «La cosa non mi sorprende. Lee, cercate il raggio portante di quella sonda e puntate su di essa!»

«Ma, signore… nell’atmosfera di Tre? Non resisteremo…»

«Resisteremo, sciocco schiumatore spaziale. Quel mio scienziato domestico l’ha sopportata per più di tre ore in una tuta corazzata, e vorreste farmi credere che lo scafo di questa nave non può sopportarla?»

«Ma gli oblò… e le piastre motrici esterne… e…»

«Ho detto di scendere laggiù! Ci sono dei finestrini anche in una tuta, e le piastre del fondo della nave sono state in grado di resistere al suolo del Pianeta Quattro. E non parlatemi della minaccia costituita dagli indigeni delle pianure azzurre! Sappiamo entrambi che lo scafo di questa nave è protetto anche nei riguardi del radar a modulazione di frequenza, oltre che dei raggi normali che gli indigeni usano… ho speso un occhio della testa per quel rivestimento, e ci ha permesso di passare inosservati in mezzo alla guardia costiera di Sarr. Su, muovete quelle leve!»

Ordon Lee si arrese, ma gli si leggeva sulla faccia l’insoddisfazione. Regolò la bussola con un’aria ancora leggermente speranzosa, che presto svanì quando si accorse che la sonda di Ken continuava a emettere la sua onda portante. Con la faccia scura, attivò un vettore di forza che aveva la medesima direzione. Al di là dell’oblò, la macchia di luce che era il Pianeta Tre cominciò a ingrandirsi.

Quando sul quadro di comando si accese l’indicatore che segnalava la presenza di pressione atmosferica esterna, Lee fermò la nave e rivolse al suo datore di lavoro un’occhiata titubante. Drai gli fece segno di scendere, con la canna della pistola.

Rassegnato, Lee alzò le spalle, accese i riscaldatori dello scafo, e cominciò a scendere lentamente nell’oceano di gelidi gas, brontolando tra sé e facendo una faccia da «ve l’avevo detto» ogni volta che sentiva scricchiolare una lastra della carenatura che si contraeva a causa del freddo.

Feth, ormai convinto di non potere più sperare niente dalla radio, dedicò la sua attenzione a uno degli oblò. Anche Drai lo imitò, con uno solo degli occhi, e non cambiò espressione nel constatare che Ken aveva detto la verità. Grandi montagne, aria velata dalla foschia, vegetazione verde, lucenti distese che ricordavano le grandi pianure azzurre i cui abitanti avevano abbattuto le sonde; c’era tutto quello che aveva detto lo scienziato: era illuminato debolmente dal pallido sole di quel sistema ma risultava chiaramente visibile.

Feth, senza badare alla pistola di Drai, si gettò all’improvviso verso la porta, gridando: «La macchina fotografica!» e scomparve in fondo al corridoio.

Drai posò la pistola. «Perché non siete anche voi come quei due?» domandò, rivolto al pilota. «Basta trovargli qualcosa d’interessante, e si dimenticano di qualsiasi pericolo che ci può essere nell’universo.»

Il pilota non rispose; e, a quanto pareva, Drai non si aspettava risposta, perché si avvicinò all’oblò senza attendere un istante. Poi, senza alzare gli occhi dal suo quadro di comando, Lee domandò in tono acido: «Se pensate che Ken si interessi soltanto del suo lavoro e di nient’altro, perché vi è venuta tutta questa voglia, all’improvviso, di andare a controllarlo?»

«Soprattutto perché non so bene quale sia il lavoro che gli interessa. Ditemi, Lee, secondo voi, di chi è la colpa, se soltanto oggi scendiamo per la prima volta su questo mondo che conosciamo da vent’anni?»

Il pilota non diede nessuna risposta a voce, ma girò un occhio in direzione del suo datore di lavoro e incontrò per un attimo il suo sguardo. Evidentemente, la domanda lo aveva spinto a pensare a qualcosa d’altro, e non solo a congelamenti e a piastre che si rompevano per il freddo; Laj Drai non era forse un genio, come lui stesso aveva avuto occasione di dire, ma la sua psicologia spicciola era di prima qualità.

La Karella continuò a scendere. Ormai la cima delle montagne era al livello dei suoi finestrini; sotto la nave si stendeva una distesa pressoché ininterrotta di verde, ma la bussola puntava verso di essa, senza esitazione. A una quota di centocinquanta metri si cominciarono a distinguere i singoli alberi, e in mezzo a essi il tetto della casa dei Wing. Non c’era traccia di Ken e della sua sonda, ma nessuno dei due sarriani che si trovavano nella cabina di comando ebbe alcun dubbio: si trattava della casa di cui aveva parlato lo scienziato. Entrambi si erano completamente dimenticati di Feth.

«Spostatevi di qualche metro, Lee. Voglio essere in grado di vedere dall’oblò. Mi pare di scorgere la tuta corazzata di Feth… sì. Il terreno è in discesa; scendiamo un poco al di sopra della casa, sul fianco della montagna. Tra queste piante si può vedere a una certa distanza.»

Il pilota obbedì in silenzio. Anche se udì l’urlo di Feth, che echeggiava nel corridoio, proveniente dalla cabina nella quale il meccanico scattava fotografie, non diede segno di averlo sentito; e in ogni caso le parole erano inudibili a causa dell’eco.

Il significato, comunque, divenne chiaro un istante più tardi. All’interno della nave, il rumore dello scafo che si faceva strada in mezzo ai rami non riusciva a penetrare; ma l’altro segno del suo arrivo era perfettamente percettibile. All’improvviso si era alzata una nube di fumo che aveva oscurato tutti gli oblò, e mentre Laj Drai faceva un passo indietro per la sorpresa, una lingua di fiamma guizzò verso l’alto, accarezzando la curva del grande scafo.

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