6

Passarono quasi tre giorni di Sarr, lunghi tredici ore ciascuno, senza che ci fossero novità; infine la stazione relè in orbita attorno alla Terra segnalò l’arrivo delle due sonde. Come previsto da Feth Allmer e successivamente confermato da Laj Drai, che aveva controllato il dato sulle sue tabelle, i segnali del radiofaro collocato sulla superficie del pianeta provenivano dalla parte in ombra. Dall’osservatorio, Drai telefonò al laboratorio, dove Ken e Allmer erano occupati a controllare la loro navicella, che in quel momento stava decelerando.

«Potete scendere subito, non appena raggiunta la parte in ombra» disse. «Se scenderete descrivendo un ampio cerchio, aggancerete facilmente il segnale del radiofaro. Tenetevi a un’altezza tra i quaranta e i quarantacinque gradi al di sopra del piano dell’orbita planetaria, misurati dal centro del pianeta. Il raggio potrà essere captato dalla vostra sonda quando giungerete a quaranta diametri planetari di distanza. È impossibile non trovarlo. Vi consiglio di agganciare il raggio e di lasciare che sia il pilota automatico a effettuare la manovra di discesa, finché non sarete entrati nell’atmosfera. A questo punto vi conviene passare ai comandi manuali e spostarvi di tre o quattro chilometri, se intendete scendere a terra. Nel caso che gli indigeni si siano accampati accanto al trasmettitore, è meglio non mettersi a pasticciare con le sostanze chimiche in mezzo a loro.»

«Giusto» convenne Ken."Feth ha adesso portato la sonda nella zona in ombra e sta per cominciare la discesa; dista ancora cinque diametri dalla superficie. Mi spiace che nella sonda non ci sia una telecamera. Un giorno o l’altro voglio avvicinarmi al pianeta quanto basta per potere usare un telescopio, a meno che, prima, qualcuno non costruisca una TV capace di resistere ai rigori dell’inverno.»

«C’è da prendersi più che un congelamento» rispose Drai, con convinzione. «Eppure, poco tempo fa, quando osservavate di persona quel mondo, non mi sembravate così desideroso di avvicinarvi.»

«Allora non m’era ancora venuta la curiosità» rispose Ken.

La conversazione s’interruppe per qualche tempo, e Feth Allmer continuò a spostare impercettibilmente le levette che regolavano la spinta dei motori della sonda. La navicella, come aveva riferito Ken quando aveva parlato con Drai, era già entrata nell’orbita del pianeta, ma doveva ancora ridurre la sua velocità relativa, che ammontava a molti chilometri al secondo. Allmer navigava con l’aiuto di alcuni strumenti collocati sulla stazione relè: un calcolatore dello sfasamento dell’eco e un gradiente direzionale, che ritrasmettevano fino al suo quadro di comandi le loro misurazioni; la sonda era ancora troppo lontana dalla Terra perché si potesse utilizzare l’altimetro a riflessione. Per alcuni minuti, Ken osservò in silenzio i quadranti, interpretando come meglio sapeva i movimenti delle lancette e i gesti di Allmer. Alla fine, un brontolio di soddisfazione del meccanico lo informò, più chiaramente di qualsiasi strumento, che il raggio era stato agganciato. Con un tentacolo, il meccanico spinse a fondo scala una delle levette.

«Non capisco perché non installano su queste sonde le attrezzature necessarie per dare loro una buona accelerazione» brontolava Allmer a bassa voce. «Cosa scommettete che usciremo dalla portata del raggio, prima che si riesca a uguagliare la velocità di rotazione del pianeta? Con nove decimi del loro volume dedicati ai motori e agli accumulatori, le nostre sonde potrebbero raggiungere elevate velocità anche senza ricorrere ai motori iperspaziali. Ma questi modelli da pochi soldi…» S’interruppe. Ken non rispose, poiché non capiva se l’altro voleva davvero avere una risposta. Del resto, Allmer era troppo intelligente perché quel tipo di banalità fosse spontaneo, e occorreva riflettere su ogni risposta, anche per semplici motivi di cautela.

Ma, a quanto pareva, il meccanico era eccessivamente pessimista: in pochi minuti riuscì a portare la sonda in posizione verticale rispetto alla superficie del pianeta e a iniziare la manovra di discesa. Lo stesso Ken era in grado di capirlo dai quadranti; ed entro breve tempo anche l’altimetro a riflessione cominciò a trasmettere dati. Lo strumento cominciava a essere efficace a una distanza uguale al diametro di Sarr, circa diecimila chilometri, e Ken si sedette vicino all’operatore non appena notò che l’altimetro si muoveva. Non dovette fare molta strada.

Il suo personale quadro di strumenti, preparato in fretta da Allmer nei giorni precedenti, era ancora immobile. Gli indicatori di pressione erano ancora fermi allo zero, e la temperatura era bassa: a quanto pareva, si era già congelato anche il sodio. Da molte ore non c’erano cambiamenti: evidentemente, la sonda era in equilibrio termico con le radiazioni del sole lontano. Ken guardò con attenzione la lancetta dell’altimetro, che stava scendendo, e per un attimo si domandò quale sarebbe stato il primo effetto dell’ingresso nell’atmosfera. Un aumento di pressione, o una variazione di temperatura?

Per la cronaca, non rilevò alcun effetto. Fu Feth Allmer a notare l’aumento di pressione, prima che si fossero mossi gli indicatori di Ken; e l’investigatore ricordò che il portello era chiuso. C’erano state delle perdite in precedenza, ovviamente, ma la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno era stata molto maggiore. A quanto pareva, attorno alla sonda c’era già una certa pressione atmosferica, anche alla temperatura indicata dal quadrante in quel momento.

«Aprite il portello di carico, per favore» disse Ken, nell’udirne l’annuncio da Allmer. «Così possiamo controllare se c’è qualche elemento che brucia spontaneamente.»

«Un minuto. Sto scendendo troppo velocemente. Se l’aria è densa, a questa velocità c’è il rischio che il portello si stacchi.»

«Non potete decelerare più in fretta?» domandò Ken.

«Sì, adesso. Un momento solo. Non intendo perdere tutta la giornata nella manovra, e ormai la superficie dista soltanto una trentina di chilometri. Da questo momento in poi, sono ai vostri ordini.»

Obbediente, la lancetta dell’altimetro rallentò la sua marcia sulla scala numerata. Ken cominciò a riscaldare il campione di titanio: era quello che aveva la temperatura di fusione più alta; inoltre, era quasi certo che l’atmosfera del pianeta conteneva azoto molecolare: almeno uno, fra i suoi esperimenti, doveva dare un esito positivo.

Quando la sonda giunse a otto chilometri dalla superficie, la piccola fornace era al calore bianco, almeno a giudicare dalla quantità di luce che colpiva la fotocellula posta nel compartimento di carico. La pressione atmosferica era misurabile, anche se insufficiente secondo i criteri sarriani, se ci si poteva fidare del tubo a gas; e Feth gli aveva detto di avere una tabella con le correzioni: l’aveva preparata calibrando sulla parte oscura del pianeta un certo numero di quegli strumenti.

«Possiamo rimanere fermi a questa altezza per qualche momento?» domandò Ken. «Voglio far reagire questo titanio con i gas dell’atmosfera, se possibile. La pressione atmosferica è sufficiente, e l’altezza è abbastanza grande perché non ci scorga nessuno.»

Allmer gli mostrò le indicazioni della fotocellula. «Il portello è aperto, e la fornace è molto luminosa. Vi consiglio di chiuderlo, anche se questo impedirà l’ingresso dell’atmosfera esterna. Una luce come quella, a una tale distanza dal terreno, dev’essere visibile per decine di chilometri.»

«Non ci avevo pensato» disse Ken, stupito di non averlo fatto. Rifletté per qualche istante, poi disse: «Sì, chiudiamo il portello. Conosciamo la misura della pressione. Se si abbassa, vuol dire che il nostro campione reagisce con l’atmosfera.»

«Giusto» commentò Allmer, facendo scattare la levetta che chiudeva il portello. Attese in silenzio che Ken azionasse i comandi. Priva dello sfogo costituito dall’apertura, da cui usciva gran parte del calore prodotto, la temperatura all’interno del compartimento cominciò a salire: Ken si aspettava che salisse anche la pressione, ma vide con piacere che, invece, scendeva. Per controllare la sua ipotesi, ordinò ad Allmer di aprire il portello per poi richiuderlo immediatamente, e il risultato confermò le sue aspettative: la pressione ritornò al valore precedente, poi riprese ad abbassarsi. A quanto pareva, il titanio si combinava con qualche componente gassoso dell’atmosfera circostante, anche se la reazione non avveniva in modo sufficientemente violento perché la si potesse definire una combustione.

«Se siamo abbastanza lontani dal centro del raggio emesso dal radiofaro, scendiamo pure sulla superficie» disse infine l’investigatore. «Vorrei conoscere la percentuale di atmosfera che reagisce in questo modo, e perché la misura sia attendibile devo partire dalla massima pressione atmosferica disponibile.»

Feth Allmer gli rivolse l’equivalente di un cenno d’assenso.

«Siamo a circa tre chilometri dal centro» disse. «Posso scendere dove volete. Preferite che il portello sia chiuso o aperto?»

«Chiuso» rispose Ken. «Lasciamo che il campione si raffreddi un poco. In questo modo, dopo l’atterraggio, potremo ritornare alla pressione normale senza consumare tutto il nostro campione. Poi lo riscalderò di nuovo, con il portello chiuso, e misurerò la quantità d’aria consumata.»

Feth gli rivolse un cenno d’assenso; si udì un debole fischio quando la sonda cominciò a scendere in caduta libera. Come le altre che l’avevano preceduta, anche quella aveva microfono e altoparlante, e Allmer non si era preso la briga di toglierli. Sei chilometri, cinque, quattro, tre, due, uno… con indifferenza, il meccanico arrestò la discesa quando l’altimetro indicò cinquanta metri, e da quel momento in poi fece scendere la sonda a velocità molto ridotta, con grande cautela. A un certo punto, indicò con la punta del tentacolo un altro quadrante, e Ken, dopo qualche istante, capì cosa intendesse dire. La sonda era già giunta a un livello più basso di quello del radiofaro.

«Suppongo che il trasmettitore si sia posato in cima a una montagna, e che la nostra sonda stia adesso scendendo in una valle» disse Feth, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro.

«Ne sono convinto anch’io» rispose Ken. «Abbiamo sempre pensato che questa zona si trovasse in una parte piuttosto accidentata del pianeta. E la cosa mi pare positiva: corriamo meno rischi di essere visti da lontano. Ma che cosa succede? Non siete ancora riuscito a toccare terra?»

L’altimetro aveva raggiunto lo zero, ma la discesa continuava lo stesso. Negli ultimi secondi si erano uditi dei deboli fruscii, che adesso erano stati sostituiti da forti rumori di oggetti spezzati o strappati. La discesa infine si arrestò: a quanto pareva, la sonda aveva trovato un ostacolo sufficiente a riflettere le onde radar e a reggere il suo peso. Ma quando Allmer provò ad applicare un po di spinta diretta verso il basso, le lacerazioni e i crepitii continuarono per alcuni momenti. Alla fine, comunque, tutto terminò: sia il movimento, sia il rumore, anche quando Allmer provò a raddoppiare e a quadruplicare per la durata di parecchi secondi la spinta verso il basso. Tolse l’alimentazione al motore e si rivolse a Ken, con un gesto equivalente a un’alzata di spalle.

«Pare che abbia toccato il suolo, anche se non so fino a che punto lo si possa chiamare suolo… e cioè come quello che conosciamo noi. Comunque, non sembra che si possa scendere più in basso. Questo è l’interruttore per l’apertura del portello, nel caso non lo sapeste. Adesso, fate voi, e spero che non vi dia fastidio se resto qui a guardare. Penso che tra poco avremo qui anche il padrone; a questo punto dovrebbe già essere entrata in orbita anche la sua sonda.»

«Certo, restate qui con me. Sono lieto che mi diate una mano. Forse ci sarà bisogno di spostare la sonda, ma per ora non posso dirlo.» Così dicendo, aprì il portello e vide con soddisfazione la lancetta del manometro salire con un balzo fino a una pressione pari a due terzi di quella normale di Sarr. Nello stesso istante, la temperatura della fornace del titanio, che era ancora elevata, si mise spontaneamente a salire: a quanto pareva, la maggiore densità atmosferica era in grado di far fronte al piccolo raffreddamento che si era prodotto. Il metallo bruciava. Ken si affrettò a chiudere il portello.

La temperatura salì ancora un poco, mentre l’intensità luminosa all’interno del compartimento di carico si mantenne a un valore che sarebbe stato in grado di abbagliare perfino degli occhi abituati al forte sole di Sarr. Le informazioni più interessanti giungevano però dal manometro: e Ken continuava a tenere gli occhi fissi sullo strumento.

Per quasi venti secondi la reazione continuò senza diminuire d’intensità; poi cominciò a indebolirsi, e dopo altri dieci secondi la temperatura prese di nuovo a scendere. Il motivo era evidente; la pressione era scesa a meno del due per cento del suo precedente valore. Non rimaneva più niente che potesse alimentare la reazione.

Dal suo diaframma sonoro, Ken emise il basso ronzio che era l’equivalente sarriano di un fischio di sorpresa.

«Sapevo che il titanio allo stato liquido reagisce con la nostra atmosfera fino a consumarsi completamente, ma non pensavo che potesse farlo anche sul Pianeta Tre. Vedo però che mi sbagliavo: mi aspettavo una miscela di composti che avrebbero richiesto un forte calore di formazione, tale da impedire una simile reazione. Però, suppongo che alla temperatura di quel pianeta, non abbiano bisogno di essere molto stabili dal nostro punto di vista…» Lasciò cadere il discorso.

«La cosa non ha molto significato per me, ma il campione si è certamente bruciato» commentò Allmer. E aggiunse: «E gli altri campioni? Intendete compiere gli esperimenti subito, oppure aspettare che si siano raffreddati fino alla temperatura normale del pianeta?» Prima che riuscisse a rispondere, Ken scorse l’indicazione di un altro strumento.

«Ehi… chi ha acceso il sodio?» chiese, senza rispondere alla domanda di Allmer. «Adesso si sta raffreddando, ma anch’esso deve avere continuato a bruciare per qualche tempo, finché c’è stata dell’aria.» Facciamone entrare dell’altra, e vediamo «proseguì Ken spostando l’apposita leva. Si udì lo schiocco dell’aria che si precipitava all’interno della sonda, in cui c’era quasi il vuoto assoluto. Il sodio continuò a raffreddarsi.»

«Può darsi che si sia incendiato a causa di una scintilla uscita dal cilindro del titanio» disse Allmer. Senza rispondere, Ken chiuse nuovamente il portello e cominciò a riscaldare il contenitore del sodio. A quanto vide, l’ipotesi di Feth non era molto lontana dalla verità; fu sufficiente una piccola aggiunta di calore perché il metallo prendesse fuoco. Questa volta, la reazione si arrestò quando la pressione diminuì del quindici per cento. Poi il portello venne riaperto, e un’altra piccola dose di calore artificiale riaccese la reazione, che questa volta continuò, finché tutto il sodio non si fu consumato.

«Voglio avere molto materiale su cui lavorare, quando la sonda sarà di ritorno» spiegò Ken. «Non sono il miglior chimico analista della galassia.»

Il crogiolo di polvere di carbonio fornì dei risultati imprevisti. Accadde certamente qualcosa, poiché la temperatura del materiale non solo si conservò per qualche tempo, anche dopo l’interruzione della corrente di riscaldamento, ma addirittura aumentò; eppure non ci fu alcun segno di consumo o di produzione di gas nella camera chiusa. Sia Ken che Feth erano leggermente sorpresi.

Il primo, in risposta a un’occhiata del meccanico, carica di perplessità, disse che il fatto doveva essere importante, ma non seppe darne alcuna spiegazione.

Uno alla volta, vennero messi alla prova anche i campioni di ferro, stagno, piombo e oro. Nessuno di essi parve reagire intensamente con quella particolare atmosfera, a nessuna temperatura, con la possibile eccezione del ferro; nel suo caso, la caduta di pressione era troppo piccola perché la si potesse misurare, poiché il riscaldamento aveva portato un aumento di pressione di cui occorreva tenere conto. Il magnesio si comportava allo stesso modo del sodio, e bruciava con una luminosità superiore a quella del titanio.

Anche in questo caso, Ken decise di consumare tutto il metallo riaccendendolo con il portello aperto; e fu così che il programma dei test subì una brusca interruzione.

Entrambi i sarriani sapevano perfettamente che dal portello aperto usciva una lama di luce che disturbava l’oscurità esterna, ma avevano cessato di preoccuparsi della cosa; era già avvenuta per il sodio in fiamme, anche se forse in quel caso l’illuminazione era stata minore; e quando avevano esposto all’atmosfera i campioni di ferro e d’oro, la temperatura a cui li avevano riscaldati li aveva resi luminosi. Ormai, Ken e Feth non si preoccupavano di essere visti; era già passata almeno un’ora da quando la sonda aveva toccato terra, perché tra un test e l’altro avevano aspettato che il vano si raffreddasse, e non c’erano indicazioni che la presenza della sonda fosse stata notata. Ken si era scordato degli strani fenomeni accaduti durante la discesa.

La possibilità gli ritornò all’improvviso alla mente quando riscaldò il campione di magnesio. Quando la fotocellula comunicò che la combustione era ricominciata, dall’altoparlante collocato al di sopra del pannello di comando proruppe un suono acuto che echeggiò in tutta la nave. Né Ken né Feth ebbero bisogno che gli fosse spiegata l’origine di quel suono; nelle registrazioni, entrambi avevano ascoltato la voce dell’indigeno del Terzo Pianeta che si era imbattuto originariamente nella sonda.

Per un istante, tutt’e due rimasero immobili sulle loro spalliere, ed esplorarono mentalmente le possibilità della nuova situazione. Feth fece per spostare l’interruttore che riaccendeva i motori, ma, con uno schiocco dei tentacoli, Ken lo fermò.

«Aspettate! L’altoparlante funziona?» gli disse, con un bisbiglio.

«Sì.» Feth prese un microfono e lo abbassò fino a portarselo a livello del torace, poi fece un passo indietro. Non voleva prendere parte a ciò che Ken intendeva fare. Sallman, però, ancora una volta era completamente assorbito dai misteri del Pianeta dei Ghiacci, e aveva dimenticato tutto il resto; non vedeva alcun motivo di lasciare quel luogo, anche se la loro attività era stata scoperta. Non gli venne neppure in mente di non rispondere all’indigeno che li aveva individuati. Avvicinò il diaframma vocale al microfono e imitò il «capo» di tanti anni prima, cercando di ripetere i suoni che giungevano dall’altoparlante.

Ma passò del tempo, e l’indigeno non rispose.

Dapprima, nessuno degli ascoltatori si preoccupò: pensarono che l’indigeno fosse rimasto solamente sorpreso. Pian piano, però, sulla faccia di Ken si disegnò un’espressione preoccupata, mentre Feth cominciò a guardarlo con un’aria da «io ve l’avevo detto».

«L’avete fatto fuggire» disse infine il meccanico. «Se metterà paura anche al resto della tribù, e la farà scappare, Drai non ne sarà affatto contento.»

All’improvviso, Ken si ricordò di un debole rumore che aveva udito prima che giungesse loro la voce dell’indigeno: uno scricchiolio. In precedenza, tutto preso dai suoi problemi di chimica, non l’aveva notato, ma ora si afferrò a quell’ancora di salvezza.

«L’abbiamo sentito avvicinarsi…» disse. «Lo stesso tipo di rumore fatto dalla sonda quando è scesa sul pianeta… e non l’abbiamo sentito allontanarsi. Dev’essere ancora nei pressi della sonda.»

«Sentito avvicinarsi? Oh… quel rumore! Come potete dire che era lui? Nessuno di noi stava attento ai rumori.»

«Cos’altro poteva essere?» obiettò Ken. La domanda era poco sportiva e Feth, invece di rispondere direttamente, fece un’altra domanda.

«Cosa aspetta, allora?» chiese. Ma il destino gli era contrario; Ken non ebbe bisogno di rispondergli. La voce umana si fece di nuovo udire, in timbro meno acuto. I due sarriani ebbero l’impressione di assistere alla ripetizione di una storia già vista. Ken ascoltò attentamente; Feth, che pareva avere dimenticato la sua risoluzione di dissociarsi dalle attività di Ken, si era avvicinato a sua volta al microfono e stava al suo fianco. La voce continuò, sotto forma di brevi sequenze, e non occorse molta immaginazione per capire che erano domande. Nessuna delle parole più lunghe era riconoscibile, anche se entrambi riconobbero il «no» degli indigeni, in varie occasioni. La creatura non pronunciò nessuno dei nomi di articoli commerciali che i sarriani conoscevano: Feth, che li sapeva tutti, cominciò a scriverli su un foglio, a uso del collega. Ken, alla fine, si spazientì, prese la lista incompleta e cominciò a leggerla ad alta voce, come meglio poté, fermandosi dopo ciascuna parola.

«Iridio… Fiatino… Oro… Osmio…»

«Oro!» lo interruppe il loro invisibile ascoltatore.

«Oro!» gli fece immediatamente eco Ken, parlando al microfono, e nello stesso istante si affrettò a chiedere a Feth, bisbigliando: «Che materiale è?»

Il meccanico gli disse il nome, bisbigliando anche lui, e Ken commentò: «Nella sonda ce n’è un campione, ma non possiamo darglielo. Mi serve per controllare eventuali tracce di corrosione. Comunque, l’ho fatto fondere pochi minuti fa, e l’indigeno non riuscirà a toglierlo dal crogiolo. Come si chiama il materiale che vi danno in cambio?»

«Tafacco» rispose il meccanico, senza riflettere… e mettendosi subito a riflettere, un istante dopo. Gli tornarono in mente le parole di Drai, le minacce contro chi forniva informazioni a Ken sulla «merce» che ricavavano dalla Terra; e, diversamente da Sallman Ken, sapeva che Laj Drai non scherzava. Al ricordo, si sentì addosso un prurito, come se già gli staccassero la pelle. Si chiese come poteva fare, per evitare che la notizia della sua sbadataggine giungesse ai piani superiori, ma non ebbe il tempo di trovare qualche sistema. Venne di nuovo interrotto dall’altoparlante.

L’esclamazione precedente era stata forte, ma questa fu una sorta di esplosione. La creatura doveva trovarsi con il suo apparato vocale a pochi centimetri dal microfono della sonda, e inoltre doveva avere usato la sua piena potenza vocale. Il ruggito echeggiò per diversi secondi nel laboratorio, e per poco non cancellò i tonfi successivi: un rumore che faceva pensare a un corpo duro che colpiva la superficie esterna della sonda. L’indigeno, per qualche misterioso motivo, pareva oltremodo agitato.

Quasi nello stesso istante, anche Ken emise un’imprecazione. Il termometro collegato con il campione d’oro aveva cessato di registrare.

«Quel maledetto selvaggio s’è rubato il mio campione!» ululò, e azionò la leva che chiudeva il portello del vano di carico. La leva si spostò, ma il portello non si mosse… o, almeno, non si accese la spia che indicava che il portello era chiuso. Non c’era possibilità di sapere se si era fermato in qualche posizione intermedia o se era completamente spalancato.

L’indigeno riprese a fare chiasso: più di prima, se la cosa era possibile. Ken riportò la leva sulla posizione di «aperto», attese un attimo, e l’azionò di nuovo in senso inverso. Questa volta, il portello si chiuse. I sarriani si domandarono se il servomotore del portello, che era relativamente poco potente, avesse causato qualche lesione alla creatura. Non parevano esserci dubbi sul motivo del precedente insuccesso; se ce ne fossero stati, i clamori raccolti dal microfono della sonda li avrebbero subito fatti svanire.

«Non credo che intendesse rubare» disse Feth, debolmente. «Dopotutto, avete ripetuto varie volte il nome della sostanza. Probabilmente ha pensato che volevate offrirgliela.»

«Forse avete ragione.» Ken ritornò al microfono. «Cercherò di fargli capire che oggi è giorno di mercato, e non una festa di matrimonio.» Fece un fischio, poi cominciò a gridare: «Tafacco! Tafacco! Oro… tafacco!» Feth rabbrividì in cuor suo. Quando avrebbe imparato a tener chiuso il diaframma?

«Tafacco! Oro… tafacco! Mi chiedo se queste parole significano davvero qualcosa per lui.» Ken si scostò leggermente dal microfono. «Potrebbe non essere una delle creature con cui commerciate. Dopotutto, adesso non ci troviamo nel solito posto.»

«Non è questo il problema principale!» Feth si serrò strettamente i tentacoli attorno al torso, come se si aspettasse la caduta di un fulmine nelle immediate vicinanze. La voce che aveva pronunciato l’ultima frase era quella di Laj Drai.

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