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Ken si affrettò a infilarsi la tuta spaziale e a lasciare la nave insieme con gli altri. Una volta giunto all’interno della base, e toltasi l’ingombrante tuta, corse in laboratorio per vedere a che distanza si trovasse la sonda con la tuta corazzata; poi, soddisfatto dei progressi che trovò laggiù registrati, si diresse all’osservatorio per riprendere la conversazione con Laj Drai.

Non incontrò nessuno lungo il tragitto. Lee era rimasto sull’astronave, Feth era scappato non appena si era aperto il portello della cabina di decompressione: aveva una sua commissione da fare. Il resto del personale badava unicamente ai fatti propri. Questa volta, Ken non si preoccupava di essere visto, poiché intendeva avere con Drai una regolare conversazione.

Tuttavia, mentre studiava il modo migliore di presentare le sue ragioni, venne bloccato dal fatto che la porta dell’osservatorio era chiusa.

Era la prima volta, dal suo arrivo alla stazione, che incontrava una porta chiusa a chiave, e la cosa lo indusse a riflettere. Era certo che la sonda commerciale era ritornata durante l’assenza della Karella, e che in qualche punto dell’edificio c’era un carico di tafacco. Se quella era l’unica porta chiusa… e trattandosi, dopotutto, della porta della stanza che Drai usava come ufficio…

Ken si appoggiò alla porta, cercando di capire dal rumore se c’era qualcuno nella stanza. Gli pareva che non ci fosse nessuno, ma, anche se ne avesse avuto la certezza, che cosa avrebbe potuto fare? Probabilmente, un vero poliziotto avrebbe aperto la porta in pochi secondi, ma Ken non era un vero poliziotto; la porta era sbarrata ermeticamente, per quanto lo riguardava. A quanto sembrava, l’unica cosa da fare era quella di cercare Drai da un’altra parte.

Aveva già percorso una decina di metri, scendendo lungo la rampa, e aveva perso di vista la porta dell’osservatorio, quando sentì che si apriva. Subito girò sui tacchi e risalì la rampa come se arrivasse in quel momento. Quando raggiunse il gomito che gli nascondeva la porta, sentì che si chiudeva di nuovo; un istante più tardi si trovò faccia a faccia con Feth.

Il meccanico, per la prima volta da quando Ken lo conosceva, pareva inquieto e agitato. Evitò lo sguardo di Ken, e serrò ancor più strettamente fra i tentacoli, nascondendolo alla vista, il piccolo oggetto che stava trasportando. Passando davanti a Ken, gli rivolse un rapido cenno di saluto e si affrettò a sparire dietro il gomito della rampa, senza rispondere alla sua domanda se Drai era nell’osservatorio.

Ken fissò ancora per alcuni secondi il punto dove Feth era scomparso. Il meccanico era sempre stato una persona di poche parole, ma si era sempre dimostrato amichevole. Adesso sembrava quasi in collera per la presenza di Ken.

Con un sospiro, il poliziotto a mezzo servizio riprese a salire. In ogni caso, si disse, era meglio bussare. Il motivo che lo aveva indotto in precedenza a non bussare era probabilmente un’inconscia speranza che Drai si trovasse da un’altra parte e che lui fosse libero d’investigare. E poiché il buon senso gli consigliava di sospendere momentaneamente le investigazioni, bussò alla porta.

Si congratulò con se stesso per non avere tentato di scassinare da dilettante la serratura, quando la porta si aprì. Drai era all’interno e, a quanto pareva, lo stava aspettando. Sulla faccia, non aveva alcuna espressione decifrabile: o le preoccupazioni di Feth non lo sfioravano neppure, o era un attore molto migliore del meccanico. Ken, che pensava di avere capito il carattere di Feth, propendeva per la prima ipotesi.

«Temo che non siate riuscito a convincermi di potere usare il terriccio sarriano» disse Drai, aprendo la conversazione. «Sono d’accordo che gran parte delle sostanze in esso presenti, a quanto ne so, possono essere presenti alla temperatura del Pianeta Tre, ma non sono sicuro che valga anche l’inverso. Possono esistere delle sostanze che sono solide o liquide a quella temperatura e gassose alla nostra; queste sostanze sarebbero assenti nel terriccio importato dal nostro pianeta natale.»

«Non ci avevo pensato» ammise Ken. «Non mi viene in mente nessuna sostanza simile, ma questo non vuol dire che non esistano. Posso controllare sul manuale se c’è qualche composto inorganico di questo tipo, ma non è detto che li trovi tutti: se le forme viventi del Pianeta Tre sono analoghe alle nostre, ci saranno probabilmente milioni di composti organici… e questi non ci sono sul catalogo. No, maledizione, penso che abbiate ragione; dovremo prendere il materiale dal pianeta stesso.»

Rifletté su questo particolare, e tacque. Infine fu Drai a riprendere il discorso: «Pensate davvero di potere scendere sulla superficie di quel pianeta?» chiese.

«Non vedo perché non dovrebbe essere possibile» rispose Ken. «Mi sembra che, in passato, qualche squadra sia discesa su mondi addirittura peggiori di questo. Feth è pessimista, comunque, e io suppongo che sia più esperto di me, al riguardo. Potremo fare dei piani più precisi quando sarà rientrata la tuta corazzata che abbiamo mandato su! pianeta, e tra poco rientrerà. A quanto dicono gli strumenti, è ripartita due ore fa.»

«Questo significa quasi tre giorni prima di potere sapere qualcosa di sicuro. Ci dev’essere qualche altro modo… ecco! Voi dite che il raffreddamento che si verifica sul Pianeta Tre è così grande per la presenza di un’atmosfera che conduce troppo bene il calore? Vero?»

«Certo. Sapete anche voi, come lo so io, che si può uscire nel vuoto dello spazio, con una normale tuta spaziale, anche se il sole più vicino dista vari anni-luce. La perdita per radiazione è facile da compensare. Perché me lo chiedete?»

«Pensavo… Ci sono altri pianeti nel sistema. Se potessimo trovarne uno privo di atmosfera, che avesse pressappoco la stessa temperatura del Tre, potremmo prelevare il terriccio da quello.»

«È un’idea.» Ken si lasciò subito prendere dall’entusiasmo. «Basta che sia abbastanza freddo… e la cosa non dovrebbe essere difficile in questo sistema. Tre ha un satellite… me l’avete mostrato voi. Possiamo raggiungerlo in un attimo con la Karella… e mentre siamo per strada possiamo anche raccogliere quella tuta che viaggia verso di noi. Chiamate Feth: partiamo subito!»

«Temo che Feth non sia disponibile per un po di tempo» rispose Drai. «Inoltre» continuò, sorridendo «io sono già stato su quel satellite, e il suo terreno è soprattutto costituito da polvere di pomice; potrebbe arrivare direttamente dal Deserto Polare di Sarr. Meglio considerare anche le altre possibilità, prima di partire. Il guaio è che l’unica caratteristica che conosciamo di quei pianeti è il movimento. Abbiamo sempre cercato di evitarli, e non di visitarli. Mi pare di ricordare, comunque, che il Cinque e il Sei hanno un’atmosfera e che quindi sono da scartare. Potreste controllare la posizione del Quattro, però: suppongo che siate in grado di leggere un’effemeride.»

In seguito, Ken comprese che la cortesia era davvero un lato inutile del carattere di una persona. Se non avesse voluto fargli una cortesia, non si sarebbe preso la briga di rispondere al suggerimento di Drai, e se non avesse pensato alla risposta da dargli, non avrebbe commesso il gravissimo errore di avvicinarsi al cassetto dove erano chiuse le effemeridi in questione, e di aprirlo. Solo quando toccò la carta si accorse di quello che faceva, e con un ammirevole sforzo di volontà finì la frase che stava dicendo, sulla sua capacità di leggere un’effemeride, e completò il gesto di prendere i fogli. Però, nel voltarsi verso il suo datore di lavoro, si sentì come se gli avessero applicato allo stomaco una pompa aspirante.

Drai non si mosse di un millimetro, e l’espressione sulla faccia rimase imperscrutabile.

«Temo di avere commesso un’ingiustizia nei riguardi del nostro amico Feth» commentò con indifferenza. «Mi chiedevo dov’eravate andato a prendere l’idea che un viaggio di andata e ritorno a Sarr richiedesse soltanto una settimana. Comprendo, naturalmente, che le vostre scoperte sono avvenute per caso, e che non c’era niente di più lontano dalla vostra mente che il volgare spionaggio; ma sussiste il problema di cosa fare delle vostre sfortunate conoscenze. La cosa richiederà una certa dose di riflessioni. Nel frattempo, continuiamo qon la questione del Pianeta Quattro. È in una posizione facile da raggiungere, e possiamo raccogliere, come suggerite, la sonda che trasporta la vostra tuta senza allontanarci troppo dalla rotta?»

Ken venne preso completamente alla sprovvista. Date le circostanze, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato da Drai era quell’atteggiamento blando e distaccato. Non riusciva a credere che l’altro fosse davvero così indifferente alla cosa; dietro quegli occhi fermi doveva maturare qualche decisione spiacevole. E lui, come meglio poté, cercò di comportarsi in modo altrettanto imperturbabile. Con uno sforzo, rivolse la sua attenzione alle effemeridi, trovò la colonna che gli occorreva, e fece mentalmente alcuni calcoli.

«I pianeti sono quasi a novanta gradi l’uno dall’altro, visti da qui» annunciò infine. «Noi, come sapete, siamo quasi esattamente tra il sole e Tre; Quattro è nella direzione retrograda, a circa il doppio della distanza di Tre. Tuttavia, per la Karella, la cosa dovrebbe significare poco.»

«Vero» commentò Drai. «Benissimo, partiremo tra un’ora. Entro questo tempo, portate a bordo tutte le attrezzature che pensate vi possano occorrere. Meglio usare una tuta corazzata sul Pianeta Quattro, anche se non c’è aria. Dovrete indicare il posto dove sono le tute alla persona che vi manderò perché vi dia una mano.»

«E Feth?» Ken si era fatto l’idea che il meccanico fosse incorso nelle ire di Drai perché sospettato di avere tradito il segreto della loro posizione.

«Non sarà disponibile per qualche tempo… è occupato. Vi darò una persona io. Andate nell’officina a prendere quello che vi occorre… ve la manderò laggiù. Entro un’ora.» Laj Drai si voltò dall’altra parte, come per indicare che il colloquio era finito.

La persona mandata da Drai era un tale che Ken aveva già visto in giro per la stazione, ma al quale non aveva mai parlato. E l’attuale occasione non cambiò molto la situazione complessiva; era quasi taciturno come Feth, e Ken non sapeva neppure il suo nome. Trasportò sulla Karella tutto quello che gli veniva richiesto, e poi scomparve. La partenza avvenne al momento previsto.

Ordon Lee, che evidentemente aveva già ricevuto i suoi ordini, fece girare l’astronave attorno al pianeta così rapidamente che l’accelerazione verso l’esterno superò quella prodotta dalla gravità; i viaggiatori ebbero l’impressione che il mondo fosse sospeso sopra di loro. Poi, quando il sole scomparve al di sotto dell’orizzonte, dietro di loro, Lee portò a zero l’accelerazione radiale e fece rotta in modo da allontanarsi dall’astro. Sotto la forte spinta dei motori interstellari, entro pochi minuti il sistema di Terra e Luna si trasformò in una coppia di dischi dai contorni molto netti. Lee applicò con abilità le spinte motrici, portando la nave a fermarsi, relativamente al pianeta, a una distanza di due milioni e mezzo di chilometri, in una posizione tra il pianeta e il sole. Drai indicò a Ken un quadro di comandi uguale a quello del laboratorio.

«È sulla frequenza della vostra sonda» disse. «Lo schermo a destra è un’unità radar che potrà esservi utile per rintracciarla. In cima al quadro c’è un indicatore direzionale, e premendo questo interruttore la sonda trasmette un segnale.»

Senza dire niente, Ken si mise al quadro di comando e in pochi minuti imparò a usarlo. Dapprima l’indicatore direzionale gli fornì dei valori poco attendibili, a causa della grande distanza a cui si trovava la sonda; ma in poco tempo Lee riuscì a ridurre questa distanza, e un quarto d’ora più tardi la piccola navicella, ancora invisibile, si trovò a non più di una ventina di chilometri da loro. Da quel punto in poi, Ken non ebbe difficoltà a guidare la sonda: poco più tardi, lui e Drai lasciarono la cabina di comando e scesero in un deposito, situato nella stiva della Karella, dove la sonda si stava riscaldando.

A richiamare tutto il loro interesse fu questa volta la tuta che era ancora legata all’esterno della sonda. Sonda e tuta erano state immerse nell’atmosfera per un’intera ora, tempo che a Ken pareva sufficiente per scoprire ogni possibile difetto. Rimase un po scoraggiato nel vedere che l’aria si condensava anche sulla tuta, e non solo sullo scafo metallico; se i riscaldatori avessero lavorato come dovuto, durante le ore di volo nello spazio si sarebbe dovuto raggiungere un equilibrio tra gli strati interni e quelli esterni dell’armatura. Più precisamente, visto che un equilibrio era stato senza dubbio raggiunto, lo si sarebbe dovuto raggiungere a temperatura molto più alta.

Comunque, sulla tuta l’aria cessò di condensarsi molto prima, e Ken riprese un poco a sperare quando fu finalmente in grado di staccare la corazza dalla sonda e di esaminarla attentamente.

La superficie metallica esterna aveva cambiato colore. Era la prima cosa che si notava, la più ovvia. Invece della lucentezza argentea dell’acciaio levigato, su certe aree c’era una forte tinta bluastra, soprattutto verso la punta delle appendici di manipolazione, simili a mani, e sulla parte posteriore delle gambe. Ken pensava di attribuire quel colore a corrosione causata dall’ossigeno, ma non riusciva a capire la sua distribuzione inuguale. Con trepidazione aprì il torso della massiccia tuta e infilò un tentacolo all’interno.

L’interno era freddo. Troppo freddo per i suoi gusti. I riscaldatori sarebbero stati in grado di rimediare a questa situazione, ma non funzionavano. Il registratore era partito automaticamente, grazie a un circuito collocato nella sonda e azionato da un manometro che l’aveva fatto scattare non appena era stato rilevato un aumento della pressione atmosferica, e sulla bobina erano avvolte alcune spire di nastro. La registrazione raccontava una storia abbastanza chiara. Temperatura e pressione erano rimaste costanti per alcuni momenti; poi, all’incirca nel momento in cui la sonda aveva raggiunto la superficie, o poco più tardi, entrambe avevano cominciato a scendere irregolarmente. Molto irregolarmente, anzi: per qualche istante c’era stato perfino un innalzamento di temperatura. Il registratore si era fermato quando la temperatura aveva raggiunto il punto di congelamento del solfo, probabilmente a causa di aria che si era solidificata attorno alle sue parti mobili. Ma neanche dopo essere ritornato a temperatura normale aveva ripreso a funzionare. Quel pianeta era evidentemente una trappola per assorbire calore, pura e semplice.

Non c’erano prove dirette che la tuta avesse perso gas o che ne avesse lasciato entrare da fuori, ma Ken sospettava che fosse successo appunto questo. Il colore azzurrino che si scorgeva su certe parti del metallo era probabilmente dovuto a una fiamma: ossigeno in fiamme, che bruciava sotto i soffi di solfo ad alta pressione che giungevano da qualche invisibile fessura della tuta. Sia il solfo che l’ossigeno mantenevano la combustione, come ben sapeva Ken, e si combinavano tra loro; si fece un appunto mentale di controllare qual era il calore di formazione dei solfuri d’ossigeno esistenti.

Alla fine staccò gli occhi dal teatro della sua disfatta.

«Quando ritorneremo alla base, facciamo dare un’occhiata alla tuta da Feth» disse. «Forse avrà qualche idea migliore delle mie sui motivi che hanno portato questa tuta a perdere l’isolamento. Adesso conviene recarci sul Pianeta Quattro per vedere se c’è qualcosa che possiamo utilizzare come terriccio.»

«Immagino che la nave sia già in orbita attorno al pianeta» rispose Drai. «Lee doveva dirigersi verso di esso non appena portata a bordo la vostra sonda, ma gli ho detto di aspettare il mio ritorno in cabina di comando, prima di scendere.»

I due sarriani si affrettarono a ritornare dal pilota, servendosi delle maniglie da impiegare quando la nave era su un’orbita, in assenza di peso, e la raggiunsero in pochi istanti. Ken cominciava ad abituarsi ad ambienti dove la gravità era diversa da quella sarriana, e anche all’assenza di gravità.

La supposizione di Drai risultò corretta; i motori erano spenti e al di là degli oblò si scorgeva la forma di Marte. Agli occhi dei sarriani, il pianeta appariva ancora più buio che la Terra, e al pari della Terra possedeva ovviamente un’atmosfera. Su Marte, comunque, l’involucro gassoso era molto più sottile. Erano troppo vicini per distinguere i cosiddetti canali, che, visti con adeguati strumenti ottici, risultano essere valli naturali scavate dai fiumi, ma anche i fiumi erano qualcosa di nuovo per i sarriani. Erano troppo vicini per poter vedere dalla loro latitudine anche le calotte polari, ma quando la Karella raggiunse una posizione più a sud, comparve alla loro vista una vasta distesa bianca. La calotta era molto meno estesa di quanto lo era stata un paio di mesi prima, ma anche ora si trattò di un fenomeno totalmente nuovo per gli occhi degli alieni.

O, più precisamente, quasi totalmente nuovo. Ken serrò un tentacolo su uno di quelli di Drai.

«C’era una distesa bianca come questa sul Pianeta Tre! La ricordo distintamente! C’è una certa rassomiglianza tra le due, comunque.»

«Come dato di fatto» replicò Drai «ce ne sono due. Volete recarvi su quella macchia per raccogliere i vostri campioni di terreno? Non abbiamo nessuna prova che gli indigeni del Tre coltivino il tafacco proprio su quelle zone.»

«Credo anch’io di no; ma in qualsiasi caso mi piacerebbe dare un’occhiata alla sostanza di cui è composta. Possiamo atterrare ai suoi bordi e raccogliere campioni di tutto quello che troviamo, Lee?»

Il pilota pareva poco convinto, ma alla fine accettò di scendere lentamente nell’atmosfera. Si rifiutò però di toccare terra finché non si fu accertato della rapidità con cui l’aria del pianeta raffreddava lo scafo della nave. Né Drai né Ken fecero obiezioni, e alla fine la distesa bianca, verde e marrone che si allargava sotto di loro cominciò ad assumere l’aspetto di un vero e proprio paesaggio invece che di un disco dipinto sospeso nell’oscurità.

L’atmosfera risultò piuttosto deludente. Con la nave sospesa a poche decine di metri al di sopra della superficie, gli indicatori esterni di pressione parevano assai riluttanti a staccarsi dallo zero. La pressione era circa un cinquantesimo di quella misurabile alla superficie di Sarr. Ken lo fece notare al pilota, ma Ordon Lee non volle che il suo scafo toccasse il terreno prima di avere controllato per una quindicina di minuti i pirometri esterni. Alla fine, convinto che la perdita di calore potesse venire compensata dai riscaldatori, fece posare la nave su una chiazza di sabbia di colore scuro e per un po di tempo stette ad ascoltare il cigolio della catena che si adattava alla nuova distribuzione di peso e alla nuova perdita di calore. Infine, almeno in apparenza soddisfatto, si staccò dai comandi e si rivolse a Ken.

«Se volete uscire a visitare questo posto in lungo e in largo» disse «fate pure. Non credo che la vostra tuta corazzata corra rischi più gravi di quelli che corre il nostro scafo. Se avrete dei problemi, li avrete ai piedi: la perdita di calore attraverso l’aria è pressoché nulla. Se però cominciate a sentire freddo ai piedi, ritornate subito a bordo!»

Ken rivolse a Drai un’occhiata maliziosa. «Peccato non avere portato due tute» disse. «Sono certo che vi sarebbe piaciuto scendere con me.»

«Neppure se avessi cento vite!» si affrettò a dire Drai. Ken rise. Fatto alquanto curioso, il suo iniziale terrore dello spaventoso gelo di quei pianeti pareva essere svanito; provava un vivo desiderio di scendere sul pianeta a fare la sua prova. Aiutato da Lee e Drai, s’infilò nell’armatura portata fin lì da Mercurio, la chiuse a tenuta d’aria e controllò le varie parti. Poi entrò nel portello ermetico della Karella e osservò con attenzione gli strumenti mentre l’aria veniva aspirata. Non pareva esserci niente di guasto, cosicché chiuse l’interruttore che azionava l’apertura del portello esterno.

Per qualche motivo che lui stesso non avrebbe saputo spiegare, mentre il paesaggio marziano cominciava a svelarsi ai suoi occhi, la sua mente indugiava ancora a pensare alla strana perdita di colore subita dalla tuta che era stata esposta all’atmosfera del Pianeta Tre, e si chiedeva se anche laggiù sarebbe successo qualcosa di simile.

Curiosamente, a duecentocinquanta milioni di chilometri di distanza, un ragazzo tredicenne cercava di capire come fosse scoppiato un incendio che pareva avere incenerito una piccola macchia di cespugli, circondata su tutti i lati da distese di roccia nuda, sul fianco di una collinetta posta circa otto chilometri a ovest della sua casa.

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