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La Karella era sospesa in orbita, immersa nell’ombra della Terra, molto al di là delle ultime tracce dell’atmosfera. La bussola sferica indicava una direzione che sarebbe stata quella del filo a piombo se ci fosse stata gravità. Ordon Lee era occupato a leggere, e dava automaticamente un’occhiata al suo amato quadro di comando ogni volta che una spia luminosa si metteva a lampeggiare: cosa che accadeva spesso, poiché Ken e Feth svolgevano i test delle tute corazzate con una tecnica da catena di montaggio.

Una delle tute era già ritornata ed era stata controllata; Feth si trovava all’interno della camera di decompressione, il cui portello esterno era aperto, e indossava una normale tuta spaziale. Era intento a staccare dalla sonda la seconda corazza e a mettere al suo posto la terza. Si teneva in contatto radio con Ken, che era all’interno della nave, davanti al quadro di comando delle sonde. Lo scienziato teneva la sonda, come meglio poteva, parzialmente all’interno della camera di decompressione, che però non era fatta per quel tipo di manovre e che non era abbastanza grande per l’intera lunghezza del proiettile. Anche Feth aveva i suoi guai a causa di questo, e la spia che segnalava che il portello era ingombro, sul quadro di comando di Lee, lampeggiava freneticamente.

Quando la sonda si tuffò ancora una volta verso la buia superficie sottostante, le cose si tranquillizzarono per qualche tempo… ma solo per qualche tempo. Feth portò all’interno della nave la seconda tuta, e dovette chiudere il portello esterno per farlo, cosa questa che diede origine a uri nuovo spiegamento di luci colorate che disturbarono le letture del pilota. Poi rimase soltanto la spia che segnalava la distanza della sonda e che diventava sempre più debole, e il compito di dover badare a due cose nello stesso tempo passò a Ken. Doveva rimanere al suo quadro di comando, ma cercò disperatamente di vedere cosa facesse Feth.

Ken sapeva già che la prima delle tute si poteva indossare: la sua temperatura interna era scesa solamente di una quarantina di gradi, cifra che rappresentava una perdita di calore perfettamente sopportabile dal suo metabolismo; inoltre, il sistema di riscaldamento era stato regolato da Feth sul minimo, in modo da poter misurare le perdite di calore. Una volta regolato il riscaldamento sui valori normali, Ken doveva trovarsi a proprio agio sul Pianeta dei Ghiacci: almeno, quanto lo poteva essere una persona che si portava addosso settanta chili di metallo.

Saputo questo, la seconda tuta, che in quel momento veniva controllata da Feth, non destava in lui eccessive preoccupazioni; ma si accorse di non riuscire a dedicare molta attenzione al lavoro che stava svolgendo. Rimase un poco stupito quando udì suonare un segnale posto sul quadro di comando della sonda: il segnale indicava che la sonda era sottoposta a una pressione esterna. Ken non aveva ridotto la velocità, ed era ben lontano dai margini di sicurezza, cosicché, per qualche minuto, ebbe molto da fare; e quando finalmente la sonda giunse a terra… senza niente di rotto, si augurò Ken… Feth aveva terminato i suoi controlli. Adesso le tute utilizzabili erano due.

Questo tolse di mente a scienziato e meccanico la principale delle loro preoccupazioni, e non se la presero quando la terza tuta fallì la prova. Ken sospettava quale potesse essere il motivo: Feth aveva trovato che le perdite si erano verificate in corrispondenza delle articolazioni del ginocchio e del «gomito», due punti che dovevano essere stati messi sotto forte sforzo durante le manovre di accelerazione. Non parlò di questa sua ipotesi, e Feth non fece domande. Ma Ken aveva l’inquietante impressione che il meccanico, con le sue strane conoscenze di chimica e di fisica, fosse perfettamente in grado di capire da solo com’erano andate le cose.

Questa preoccupazione, ammesso che così la si potesse chiamare, sparì comunque subito nell’agitazione degli ultimi preparativi per la discesa. Ordon Lee si rifiutò decisamente di abbassare la sua astronave per farla entrare nell’atmosfera della Terra, da lui ritenuta un pericoloso assorbitore di calore, anche dopo il ritorno di due delle tute; di conseguenza, Ken fu costretto a scendere nello stesso modo in cui erano scese le tute vuote, ossia appeso a una sonda. Occorreva però spostare gli attacchi in modo che lo stesso Ken fosse in grado di staccarsi dalla sonda da solo, e questo richiese un po di tempo. Ken consumò un buon pasto, e prese l’inconsueta precauzione di bere. Di solito, i sarriani metabolizzavano nei propri tessuti tutto il liquido loro occorrente.

Forse lo scienziato ebbe dei dubbi, infilandosi nella massa metallica che nelle prossime ore doveva essere la sua unica difesa nei riguardi del più orrendo ambiente che poteva immaginare, ma il suo orgoglio non gli permise di mostrarli. Non fece commenti mentre Feth collocava attentamente al suo posto la parte più alta della tuta… in quelle tute si entrava dalla cima… e mentre ascoltava con un minuscolo stetoscopio il funzionamento delle pompe che facevano circolare il liquido di riscaldamento.

Poi, soddisfatto, il meccanico rivolse un cenno d’assenso allo scienziato chiuso nell’armatura; Ken si afferrò a un corrimano con uno dei suoi manipolatori, e così spinse in direzione del portello quella sorta di carro armato che indossava. Dovette attendere nel corridoio mentre Feth tornava a indossare la tuta leggera, e poi all’interno della camera di decompressione, pazientemente, mentre Feth legava l’armatura alla parte esterna della sonda. Lee si era finalmente deciso a dare loro una mano, e pilotava la sonda in modo da farla rimanere all’interno della camera di decompressione nonostante la spinta dei repulsori di meteore, che non aveva voluto spegnere neppure per un istante.

Anche dopo che il portello esterno fu chiuso tra lui e il resto dello spazio abitabile entro centinaia di milioni di chilometri, Ken riuscì a mantenere l’autocontrollo. Fortunatamente, ormai si era abituato all’assenza di peso: una sensazione che aveva gravi effetti mentali su molte persone. E non gli dava fastidio neppure il vuoto dello spazio che lo circondava, poiché riusciva a distinguere un numero di oggetti sufficiente a orientarlo. Le stelle visibili da quel sistema erano quasi altrettanto numerose quanto quelle che poteva vedere dal suo pianeta natale, poiché duecento parsec significano poco, rispetto alle dimensioni della galassia.

Infatti, conservò la calma finché anche gli occhi, oltre al senso di equilibrio, non gli dissero che stava cadendo. La Karella era ormai svanita da tempo dietro, o sopra, di lui. Il sole era pressappoco nella stessa direzione, poiché non c’era stato bisogno di discussioni per decidere di scendere nella zona illuminata del pianeta. Era stata invece necessaria una lunga discussione prima di scegliere il solito vecchio punto di atterraggio: Ken, naturalmente, voleva vedere gli indigeni, ma anche la sua curiosità scientifica era disposta ad arrendersi di fronte alle considerazioni dettate dalla cautela.

Feth, che considerava quella discesa unicamente alla stregua di un’ulteriore prova dell’armatura, si era opposto a eventuali contatti con gli indigeni perché a suo parere costituivano unicamente una complicazione in più; ma poi la curiosità l’aveva avuta vinta. Ken scendeva in direzione del radiofaro presso cui si svolgeva il commercio: l’intesa era che lo avrebbero fatto posare un poco più a ovest. Lui era più che disposto a conoscere il «suo» indigeno, ma non voleva disturbare il commercio.

Comprendeva, naturalmente, che era molto probabile che le creature che abitavano sul pianeta fossero in grado di muoversi con i propri mezzi, ma evitava decisamente di pensare a quel che poteva essere successo se la creatura da lui spaventata si fosse messa in contatto con quelle che commerciavano; le considerava ipotesi da cui non c’era niente da guadagnare, che era appunto il rischio che correvano tutti.

Il risultato di tutte le discussioni, comunque, era stato che adesso poteva vedere chiaramente allargarsi il pianeta sotto di lui: la sensazione, infatti, era che il pianeta fosse sotto, perché in quel momento Feth faceva rallentare la discesa della sonda. Ken non poteva vedere lo scafo a cui era legato, perché la sua armatura era in contatto con la sonda dalla parte della schiena, e le aperture posteriori di osservazione erano quasi completamente a contatto con il metallo. Cominciava perciò a sentirsi come un uomo che si calava a pancia in giù in un precipizio mediante un cavo la cui resistenza era dubbia.

Se il suo apparato vocale fosse stato strettamente collegato a quello respiratorio come accade per gli esseri umani, la radio avrebbe certo rivelato le sue ansie agli ascoltatori che stavano sopra di lui. Invece, dall’astronave non furono in grado di udire il suo respiro affannato, e Ken dovette vincere da solo e in silenzio i suoi terrori. E probabilmente fu meglio così; la reazione di Ordon Lee non sarebbe certo stata di comprensione, e quanto a Feth, anche se avesse preso parte alle sue angustie, era poco probabile che esprimesse a voce i suoi sentimenti.

Intorno c’era adesso dell’aria: o quanto meno, la miscela gassosa che costituiva l’atmosfera di quel pianeta. L’aria fischiava attorno a lui, ed era udibile perfino all’interno dell’armatura. Non poteva, distare più di sette o otto chilometri dalla superficie, e la discesa era ancora rapida… troppo rapida, anzi, a parer suo. Come in risposta a questo pensiero, il suo peso aumentò improvvisamente: Ken capì che Feth, dall’astronave, aveva dato potenza ai motori.

Con uno sforzo, Ken distolse l’attenzione dallo spettacolo del paesaggio che, sotto di lui, si allargava sempre di più, e dal cigolio delle catene che si tendevano al di sopra della sua testa, e si concentrò sui particolari. Una volta che ebbe iniziato, la cosa divenne più facile, perché gli aspetti fuori dell’ordinario, attorno a lui, erano numerosi e non si limitavano soltanto alla temperatura.

Naturalmente, non poteva vedere molto lontano. Occhi la cui massima sensibilità sta nel campo dell’azzurro e del violetto non sono molto efficienti nell’atmosfera velata della Terra. Comunque, il territorio sotto di lui continuava ad acquisire sempre nuovi dettagli.

Era un terreno molto corrugato, come avevano dedotto nelle loro osservazioni dall’orbita. Anche se le montagne non si presentano certo nel loro aspetto migliore quando sono osservate dall’alto, l’esperienza di Ken era sufficiente a fargli capire che si trattava di altezze del tutto rispettabili secondo i criteri di Sarr.

La superficie era sepolta sotto una confusione di colori, soprattutto sfumature di verde, marrone e grigio. Qua e là, qualche distesa piana, dalla lucentezza metallica, gli ricordava con inquietudine le vaste, lisce aree dove abitavano le intelligenze del pianeta, misteriose e ostili. Forse le piccole aree lucenti erano dei loro avamposti… ma, si disse Ken, non avevano mai interferito con le sonde commerciali che da anni continuavano a scendere in quell’area.

Quando la sua quota si fu ridotta, vide che alcune delle alture grige avevano una forma molto strana: molte di esse erano più grandi in alto che in basso. Dovette però scendere molto di più, prima di accorgersi che quegli oggetti non facevano parte del paesaggio, ma in realtà erano sospesi nell’aria. Le uniche nubi che aveva visto in precedenza erano le grandi tempeste di polvere sollevate dai furiosi venti di Sarr, ma pensò che avessero la stessa natura. Probabilmente erano costituite di particelle molto più piccole, per permettere loro di rimanere in sospensione: un pianeta così freddo non poteva avere venti molto forti.

Descrisse il fenomeno ai suoi ascoltatori con tutta la precisione di cui fu capace. Feth riferì che stava registrando le trasmissioni di Ken, e gli fornì alcune utili informazioni.

«La vostra discesa si è quasi fermata, adesso. Siete a circa un chilometro è mezzo al di sopra del trasmettitore, e a un centinaio di metri al di sopra del punto dove avete fatto i test sull’atmosfera. Volete scendere subito, oppure preferite rimanere fermo dove siete, e osservare per qualche tempo la zona circostante?»

«Fatemi scendere a moderata velocità, per favore. Non è possibile vedere molto lontano, e vorrei scendere in un punto dove si possano scorgere dei particolari interessanti. Sembra una regione montuosa… cercherò di darvi delle indicazioni esatte, per farmi scendere vicino a una cima, in modo di posarmi su un punto fermo, da cui si possa osservare una zona estesa.»

«Benissimo, vi faccio scendere.» Passarono due o tre minuti senza che nessuno parlasse; poi Ken riprese la parola.

«Mi state facendo muovere anche in senso orizzontale?»

«No, siete già a una certa distanza dal trasmettitore… cinque o sei chilometri.»

«Allora, in questa atmosfera ci sono delle correnti più forti di quanto mi aspettavo. Mi sto spostando in modo assai visibile, anche se non rapidamente. È difficile definire la direzione… il sole non è molto lontano dalla verticale, e lo scafo della sonda me lo nasconde.»

«Quando sarete quasi a terra, datemi la direzione rispetto all’orientamento della sonda. Vi farò fermare prima di toccare il suolo.»

Gradualmente, i particolari divennero più chiari. Le parti di colore verde parevano essere costituite da una massa intricata di materiale che assomigliava a certe crescite cristalline che in passato Ken aveva preparato a partire da varie soluzioni; come ipotesi di lavoro, le etichettò come forme di vita vegetale, e cominciò a farsi una certa idea sull’origine dei crepitii da lui uditi quando era scesa a terra la sonda con i test chimici.

Dalle zone verdi emergevano aree che erano certamente costituite di roccia nuda. Sembravano quasi tutte collocate in corrispondenza della cima delle montagne; e con infinita attenzione Ken diresse il suo invisibile pilota in modo da avvicinarsi a una di queste. Quando infine si trovò sospeso a un’altezza di sei o sette metri al di sopra di una superficie che anche in quella luce relativamente pallida sembrava costituita di roccia, diede l’ordine di farlo scendere.

A due metri da terra fece fermare la sonda una seconda volta, e con attenzione sciolse le catene che gli legavano le gambe allo scafo: subito l’armatura, non più trattenuta, penzolò fin quasi a toccare il terreno con le gambe; con poche parole al microfono fece scendere la sonda ancora di quel tanto che gli mancava per appoggiare a terra i piedi. Staccò una delle catene superiori, e questo lo fece ruotare su se stesso finché non si fermò con l’altro gomito contro lo scafo. Con una sorta di contorsione riuscì ad appoggiarsi sul treppiede costituito dalle due gambe e dall’appoggio posteriore, e infine staccò anche l’ultima catena. Era sul Pianeta dei Ghiacci, e si reggeva sulla sua superficie con le proprie gambe!

Si sentiva pesante, ma non in modo insopportabile. Tutte le cautele da lui adottate per non atterrare in posizione sdraiata erano certo giustificate: in quella gravità era poco probabile che riuscisse con la sola forza dei muscoli a sollevare se stesso e la tuta fino a rimettersi in piedi. Anche camminare sarebbe stato difficile… forse addirittura pericoloso; quella roccia era tutt’altro che piana.

La cosa, comunque, non aveva importanza. Per parecchi minuti, dopo essersi staccato dalla sonda, Ken non cercò neppure di muoversi: si limitò a starsene fermo dov’era, ascoltando il ronzio quasi impercettibile delle pompe e chiedendosi quanto mancava prima che cominciasse a sentire freddo ai piedi. Però, non gli parve che succedesse niente, e dopo un poco cominciò a muovere con cautela qualche passo. Le articolazioni della corazza si muovevano ancora; evidentemente lo zinco non si era congelato.

La sonda si era spostata dalla verticale; a quanto pareva, soffiava un debole vento. Dietro suggerimento di Ken, Feth fece posare a terra la macchina. Anche se la curiosità l’aveva ormai avuta vinta sulla paura, Ken non aveva intenzione di allontanarsi troppo dal suo mezzo di trasporto. Assicuratosi che rimanesse fermo al suo posto, si mise al lavoro.

Con una breve ricerca trovò vari frammenti di roccia. Li raccolse e li infilò nel vano di carico della sonda, poiché ogni cosa poteva essere interessante per le sue ricerche; ma la cosa che gli interessava maggiormente era il terriccio… terriccio in cui crescessero delle forme viventi. Esaminò diversi campioni di roccia, con tutta l’attenzione possibile, sperando di trovare qualcosa che assomigliasse alle minuscole piante del Pianeta Quattro; pure, non riconobbe come forme viventi i licheni grigi e neri, simili a croste, che effettivamente crescevano su alcuni sassi.

Ma quel paesaggio era tutt’altro che spoglio. A cominciare da poche centinaia di metri dal suo punto d’atterraggio, c’erano degli arbusti e delle macchie di muschio che spuntavano con sempre maggiore frequenza man mano che si scendeva lungo il fianco della montagna, e che gradualmente lasciavano il posto ad alberi nani e, dove la roccia finalmente spariva sotto il terriccio, ad abeti adulti.

Ken vide questa vegetazione e si diresse subito verso la più vicina macchia di arbusti. Un attimo dopo, avvertì Feth di ciò che stava facendo, in modo che la sonda potesse seguirlo. Era inutile, si disse, risalire in cima alla montagna con tutti i suoi campioni.

L’avanzata fu piuttosto difficile, poiché una fessura di trenta centimetri fra due rocce rappresentava un grave ostacolo per l’armatura. Dopo alcuni minuti di cammino interrotti da frequenti pause di riposo, osservò: «La prossima volta, sarà meglio allungare le catene delle spalle. Così potrò restare appeso alla sonda, evitando tutto questo cammino.»

«Giusto» rispose Feth. «Non sarà difficile. Volete tornare subito sulla nave per cambiarvi o intendete raccogliere ancora dei campioni?»

«Oh, intendo fermarmi ancora un po, adesso che sono qui. Non devo fare molta strada per arrivare a quelle piante, sempre che siano piante. Quelle maledette cose sono verdi, almeno in parte. Suppongo però che non ci sia niente di strano in questo, obiettivamente parlando. Bene, adesso riparto.»

Sollevò da terra l’appoggio posteriore e ripartì ancora una volta. Un paio di minuti fu sufficiente a portarlo nei pressi di quella strana vegetazione. Era alta soltanto qualche decina di centimetri e lui incontrava difficoltà a piegarsi, ancor più che sul Pianeta Quattro; perciò allungò un manipolatore per afferrare un ramo. L’effetto fu stupefacente.

Il ramo si staccò senza difficoltà. Tutto come previsto. Però, prima che avesse il tempo di sollevarlo all’altezza degli occhi, una nuvoletta di fumo si allargò intorno al punto in cui lo toccava con il manipolatore, e il tessuto nelle immediate vicinanze del metallo divenne nero. I ricordi destati da questo fenomeno indussero Ken ad abbandonare immediatamente il ramo: avrebbe senza dubbio fatto un passo indietro se l’armatura fosse stata meno ingombrante. Ma subito si ricordò che nessun gas poteva oltrepassare le sue difese metalliche, e raccolse un altro ramo.

Il fumo ricomparve e divenne più spesso quando si portò il ramo davanti agli occhi. Ken ebbe qualche secondo a disposizione per esaminare la sua struttura prima che il rametto fumante prendesse fuoco. Le fiamme lo sorpresero quasi quanto il precedente fenomeno, ma trattenne il ramo col manipolatore. Osservò con interesse il legno che si arricciava, diventava prima nero e poi ardente, e infine prendeva fuoco; vide che le foglie più secche prendevano fuoco a loro volta, mentre quelle verdi diventavano leggermente più scure. Cercò di raccogliere le tracce di cenere rimaste alla fine del processo, ma riuscì soltanto a salvare qualche pezzo delle parti che non erano completamente bruciate. Mise tutto nella sonda, che intanto era stata portata fino a lui da Feth, in base alle sue istruzioni.

Un frammento di terriccio, raccolto sotto la pianta, si mise a fumare ma non bruciò. Ken prelevò dal vano di carico della sonda una serie di contenitori a tenuta d’aria e li riempì di campioni di terra. Inoltre riempì un cilindro di aria sotto pressione, comprimendola con una piccola pompa a pistone da cui Feth aveva attentamente tolto ogni traccia di lubrificante. Non teneva molto la pressione, ma le sue parti mobili si muovevano, e la cosa costituiva una lieta sorpresa.

«Ecco» disse Ken, quando ebbe terminato questi lavori. «Se in questo terreno ci sono dei semi, saremo in grado di costruire un piccolo vivaio e di scoprire finalmente qualcosa su questa forma di vita e le sue caratteristiche.»

«Avete un equilibrio tra produttori e consumatori?» domandò Feth. «Supponiamo che queste piante siano tutte… come si può dire, ossidatrici?… e che non abbiate i necessari organismi… riducenti? Penso che ci debba essere sempre un equilibrio, qualunque sia la forma di vita. Altrimenti si avrebbe il moto perpetuo.»

«Non posso dire niente, ovviamente, finché non avremo provato. Però, potrei scendere un poco più in basso, lungo il fianco della montagna, e raccogliere una più ampia varietà di campioni, visto che ho ancora dei contenitori vuoti.»

«Un’altra cosa» disse Feth. «Non mi pare che abbiate preso qualche provvedimento per tenerli alla giusta temperatura. So che sono freddi quasi come lo spazio interplanetario, ma c’è differenza tra quasi e come.»

«Lasceremo le scatole nella sonda finché non saremo ritornati su Uno» disse Ken. «Prive di aria, la loro temperatura cambierà molto lentamente, e potremo lasciare la sonda in qualche punto della zona crepuscolare di Uno, dove rimarrà pressappoco alla giusta temperatura finché non avremo preparato una camera con termostati e refrigeratore. Non occorre che sia molto grande; io ho solo un paio di metri cubi d’aria.»

«Sì, penso che abbiate ragione. Se non funziona, non sarà una grave perdita. I vostri piedi, cominciate a sentire freddo?»

«Finora, no, non sento freddo e dovete credermi, faccio molta attenzione!»

«Non so se posso credervi» disse Feth. «Ho l’impressione di sapere dove sta la vostra attenzione. Avete visto qualche forma di vita animale? Ho di nuovo sentito quel ronzio, almeno un paio di volte.»

«L’avete sentito? Io non me ne sono accorto. I suoni che ricevo sono quelli che vengono raccolti dal microfono della sonda, e quindi dovrei sentire tutto quello che sentite voi.»

«Ve l’ho detto, stavate attento ad altre cose. Benissimo, vi chiamerò io, se sentirò di nuovo quel suono.» Tacque, e Ken riprese il suo faticoso viaggio verso la base della montagna. Con frequenti pause di riposo, riuscì finalmente a riempire tutti i suoi contenitori e a chiuderli, e li depose nel vano di carico della sonda.

Una volta, venne interrotto da Feth, che riferì di udire nuovamente il ronzio; ma anche se poté sentirlo lui stesso, Ken non riuscì a scoprirne l’origine. Le mosche non sono creature molto grandi, e inoltre la luce era un po bassa, secondo i criteri sarriani. Poiché non c’era molto di interessante neppure per una mosca nel vano di carico al di sopra del quale era collocato il microfono, presto il ronzio cessò.

Ken diede un’ultima occhiata al paesaggio, descrivendo ogni cosa nel modo più completo possibile, in modo che la registrazione effettuata sulla nave potesse essere utile anche in seguito. Le cime, adesso, sembravano più alte, poiché alcune di esse erano più elevate della posizione in cui si trovava Ken.

Cercando di non guardare la vegetazione che copriva i fianchi di quei monti, e immaginando di trovarsi al tramonto, dopo una tempesta di polvere particolarmente robusta, fu addirittura capace di ritrovare nella scena qualcosa di domestico: c’erano dei momenti in cui perfino il sole biancoazzurro di Sarr poteva sembrare opaco come l’astro di quel mondo glaciale. In quei momenti, naturalmente, c’era sempre un vento che avrebbe destato l’invidia del più forte uragano terrestre, e il silenzio che circondava Ken sarebbe stato fuori luogo nel paesaggio di Sarr; ma al momento la sua immaginazione riuscì a fargli attraversare duecento parsec di vuoto interstellare fino a raggiungere un mondo di calore e di vita.

Ritornò in sé con una certa sorpresa. Quel posto non era affatto simile al paesaggio di casa: non era esattamente morto, ma si avvicinava a esserlo; morto come il vuoto dello spazio a cui assomigliava così tanto. Il suo gelo cominciava a penetrare in lui, mentalmente sotto forma di un ritorno dell’orrore che aveva provato la prima volta che aveva visto il pianeta, e fisicamente sotto forma di un leggero dolore ai piedi. Neppure il miracolo di ingegneria da lui indossato poteva tenere eternamente lontane da lui le dita del gelo. Fece per chiamare feth, perché sollevasse la sonda in modo da fargli raggiungere le catene e i morsetti; ma la richiesta non venne mai pronunciata.

All’improvviso, così come era successo alcuni giorni prima, una voce umana interruppe seccamente il silenzio del Pianeta dei Ghiacci.

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