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La stazione sul Pianeta Uno era un’installazione decisamente primitiva, anche se certamente era stato necessario un grosso impegno lavorativo per renderla abitabile. Era collocata in fondo a una profonda valle, posta approssimativamente nel centro dell’emisfero meridionale del pianeta, dove la temperatura si aggirava normalmente intorno ai quattrocento gradi centigradi. Una temperatura ancora talmente bassa da liquefare i vapori di solfo che erano il principale componente dell’atmosfera adatta alla razza d’appartenenza di Ken; ma i cento gradi che ancora mancavano per raggiungere la temperatura del suo pianeta d’origine erano stati ottenuti scavando una serie di terrazze sulle pareti di roccia, tagliando secondo la giusta inclinazione i fianchi delle terrazze e coprendoli poi di lastre di ferro. La scura cupola metallica della stazione si trovava, a tutti gli effetti, nel fuoco di un gigantesco specchio concavo; e grazie alla dimensione angolare del sole e alla dimensione lineare della cupola, la librazione solare non spostava mai il fuoco in misura sensibile.

La nave interstellare si posò su una distesa di roccia nuda e liscia, accanto alla cupola. Non c’erano attrezzature per lo sbarco dei passeggeri, e Ken dovette indossare la tuta spaziale per uscire. Varie altre sagome in tuta si radunarono nel portello stagno dietro di lui, e Ken pensò che quasi tutti, se non tutti, i membri dell’equipaggio «scendessero a terra» allo stesso tempo, anche se, naturalmente, forse non erano tutti membri dell’equipaggio; bastava un solo uomo per guidare una nave della classe della Karella. Si chiese se quell’abitudine non fosse pericolosa, su un pianeta sconosciuto; ma una breve occhiata, mentre percorreva il breve tragitto dalla nave alla cupola, non gli rivelò alcun armamento difensivo, come se coloro che risiedevano nella stazione non avessero alcun timore di essere attaccati. E se, come gli avevano detto, la base del Pianeta Uno era lì da vent’anni, quelle persone sapevano cosa facevano.

All’interno, la cupola era abbastanza accogliente, anche se l’accompagnatore di Ken continuava a scusarsi per la mancanza di attrezzature. Consumarono un pasto che non aveva bisogno di scuse, e Ken venne condotto nelle sue stanze personali, belle e confortevoli quanto quelle di un buon albergo sarriano. Laj Drai gli fece fare un breve giro della stazione, mostrandogli gli strumenti che avrebbe usato per il lavoro che gli era stato assegnato.

Ken, che non si lasciava scappare di mente il suo «vero» lavoro, continuò a guardarsi attorno, alla ricerca di possibili tracce che indicassero la presenza del narcotico da lui cercato. Dopo il breve giro turistico della base, fu ragionevolmente certo che non ci fosse nessun complicato impianto chimico di raffinazione nelle vicinanze della cupola; ma pensò che se la droga era un prodotto naturale, forse non c’era bisogno di impianti come quello. Lui stesso conosceva varie sostanze che erano efficacissime già nella forma in cui si trovavano in natura: ad esempio un prodotto vegetale che veniva ancora usato da certe tribù primitive del suo pianeta natale per avvelenare le frecce.

Le attrezzature per il «commercio», invece, parevano più promettenti: cosa del resto prevedibile, se si pensava alle condizioni fisiche del pianeta con cui si effettuava lo scambio. C’erano molte sonde telecomandate, ciascuna divisa in due sezioni principali: la prima, contenente l’apparato motore e quello di pilotaggio, era dotata di apparecchiature stabilizzatrici che mantenevano pressoché normale la temperatura; l’altra era prevalentemente costituita di un vano vuoto, per il magazzinaggio, e di dispositivi di refrigerazione. Nessuna delle parti pareva isolata in modo particolarmente efficiente, né rispetto all’altra parte né rispetto all’ambiente circostante. Ken esaminò con attenzione, per qualche tempo, una delle sonde, e poi cominciò a fare delle domande.

«Non vedo il trasmettitore video» disse. «Come vi orientate visivamente, per dirigere queste sonde sul pianeta?»

«Il trasmettitore non c’è» gli rispose il tecnico che aveva aiutato Drai a illustrargli i vari meccanismi. «All’inizio, naturalmente, tutte le sonde avevano l’impianto video, ma nessun teletrasmettitore è mai riuscito a sopravvivere al viaggio sul Pianeta Tre. Alla fine ci siamo decisi a toglierli… perché il tentativo cominciava a diventare troppo costoso. L’apparato ottico deve venire esposto alle condizioni del pianeta, almeno parzialmente, e questo ci obbliga a scegliere tra due alternative: o mantenere tutto l’apparato a quella temperatura, o sopportare un terribile sbalzo di temperatura tra la parte ottica e quella elettronica. Non siamo stati ancora capaci di trovare un sistema che resista a una delle due condizioni: a una temperatura così bassa, nei circuiti elettrici c’è sempre qualcosa che si mette a funzionare in modo assolutamente imprevedibile, oppure è la parte ottica a polverizzarsi per via degli sbalzi di temperatura.»

«Ma come effettuate le osservazioni visive che vi permettono di pilotare le sonde?» domandò Ken.

«Non le effettuiamo» rispose il tecnico. «Abbiamo montato sulle sonde un altimetro a riflessione, e sul pianeta c’è un radiofaro, che abbiamo installato molto tempo fa. Ci limitiamo a far scendere la sonda e a farla atterrare, e a lasciare che gli indigeni si avvicinino a essa.»

«E non possedete dei campioni prelevati dalla superficie del pianeta?»

«Non possiamo vedere il materiale che dobbiamo prelevare. La sonda, a quella temperatura, perde la tenuta ermetica, e non ci è possibile immagazzinare una sufficiente quantità dei gas atmosferici del pianeta; inoltre, non troviamo mai niente che aderisca a qualche pezzo esterno della sonda. Può darsi che atterri su una superficie metallica compatta o su una superficie rocciosa. Non sappiamo.»

«Ma certo potreste riuscire a trattenere all’interno della sonda i gas del pianeta, anche se sono al di sotto del punto di congelamento del solfo?»

«Sì, credo di sì. Non abbiamo mai pensato che ne valesse la pena. Se desiderate raccoglierne un campione, sarebbe più semplice inviare sul pianeta un piccolo contenitore: sarebbe il metodo più conveniente, se contate poi di analizzare i gas in un secondo tempo.»

All’improvviso, Ken fu colto da un’idea.

«E la merce che ricevete dagli indigeni? Non ci fornisce nessuna indicazione sulle condizioni del pianeta? Potrei lavorare con un po di quella.»

A questo punto intervenne Laj Drai. «Avete detto voi stesso di non essere uno specialista. In passato abbiamo cercato di far analizzare quella merce da persone che invece lo erano, ma senza risultato. Del resto, se fosse possibile produrla mediante una sintesi chimica, pensate che ci sobbarcheremmo tutta questa fatica per procurarcela attraverso degli scambi con gli indigeni? È proprio per questo che vi chiediamo di determinare le condizioni fisiche del pianeta: una volta che lo avrete fatto, troveremo il modo di farci dare i semi dagli indigeni e di coltivarli autonomamente.»

«Capisco» disse Ken. Erano asserzioni abbastanza ragionevoli, e non si faceva alcun accenno alla natura del materiale in oggetto.

Però, se era solo per questo, non si escludeva alcuna ipotesi sul genere di appartenenza di quella «merce».

Ken rifletté per qualche istante sull’argomento della droga, facendo correre lo sguardo sulle apparecchiature contenute nel laboratorio. Desiderava fare altre domande, ma voleva evitare quelle che avrebbero potuto dare l’impressione di una malsana curiosità da parte sua: a maggior ragione se le persone con cui si trovava erano davvero dei trafficanti di droga.

«Che cosa date agli indigeni, in cambio del loro prodotto?» chiese infine. «Qualche manufatto che non sono in grado di fabbricarsi da soli, o qualche sostanza che non possiedono? Se è una sostanza che non esiste laggiù, l’informazione mi può essere utile per capire le condizioni fisiche del pianeta.»

Drai agitò i tentacoli come se fossero percorsi da un’onda: un gesto che equivaleva a un’alzata di spalle da parte di un essere umano.

«Minerali» spiegò. «Metalli pesanti che non formano facilmente dei composti con il solfo. Di solito gli diamo delle pepite contenenti metalli del gruppo del platino: sono quelle che troviamo più facilmente su questo pianeta; ce n’è un affioramento poco lontano dalla cupola, e si fa presto a mandare qualcuno a staccarne un pezzo. Non so cosa se ne facciano, poi, gli indigeni… per quello che mi riguarda, potrebbero benissimo adorare la nostra sonda e usare le pepite come decorazione per i sacerdoti. E confesso che non me ne importa niente, a patto che rispettino i patti dello scambio.»

Ken fece un gesto per indicare che era d’accordo, e accennò a un particolare che aveva stuzzicato la sua curiosità negli ultimi istanti, mentre Drai parlava.

«Per la Galassia! Che cosa ci fanno, dentro quella sonda, un altoparlante e un microfono? Non credo che funzionino alla temperatura che mi avete descritto, e non credo neppure che siate in grado di parlare con quegli indigeni!»

Il tecnico rispose alla prima domanda.

«No, no, funzionano benissimo. È un’apparecchiatura con componenti a stato solido, senza tubi a vuoto, ed è in grado di funzionare perfino alla temperatura dell’idrogeno liquido.»

All’altra domanda rispose Drai. «Non si tratta di una comunicazione vera e propria, non parliamo realmente con loro, ma, a quanto ci risulta, quelle creature sono in grado di udire e di produrre suoni più o meno simili a quelli che usiamo nel nostro linguaggio.»

«Ma come avete trovato un modo di comunicare con loro, per rudimentale che possa essere, senza vedere gli indigeni? Forse, a meno che la cosa non mi riguardi e che in qualsiasi caso non mi possa essere d’aiuto, potreste raccontarmi la storia dall’inizio.»

«Probabilmente avete ragione» disse lentamente Laj Drai, avvinghiando attorno a una comoda spalliera il suo corpo flessibile. «Ho già accennato al fatto che siamo entrati in contatto con gli indigeni una ventina d’anni fa: una ventina dei nostri anni, ovviamente, perché per gli indigeni del Pianeta Tre si tratterebbe di circa trent’anni.

«La Karella era semplicemente in crociera, senza particolari progetti in vista, quando il suo precedente proprietario notò il colore del Pianeta Tre, che era assai singolare. Credo che voi stesso abbiate potuto notare la sua tinta azzurrina. Collocò la nave su un’orbita fissa, a una certa distanza dall’atmosfera, e inviò sulla superficie del pianeta le prime sonde. Ovviamente, non si sognava neppure di scendervi di persona: nessuno ha mai avuto dubbi sulle spaventose condizioni di temperatura che regnano laggiù.

«Comunque, perse cinque sonde, una dopo l’altra. In tutte, per prima cosa si guastarono i collegamenti video, dato che nessuno aveva pensato ai possibili effetti di quella temperatura sul vetro. E dato che era un tipo ostinato, continuò a spedirne delle altre, con un telecomando a onde lunghe, e prima o poi si guastarono tutte; non riuscì mai a determinare se fossero riuscite a toccare la superficie. Aveva dei buoni ingegneri, però, e le sonde non gli mancavano, cosicché continuò a modificare le sonde e a inviarle sul pianeta, e alla fine gli divenne chiara una cosa: gran parte delle sonde riusciva a toccare la superficie del pianeta… ma solo per cessare di funzionare nell’istante stesso in cui la toccava. Laggiù c’era qualcosa che le distruggeva meccanicamente, o che faceva impazzire i loro componenti elettrici.

«Fino a quel momento, i tentativi miravano a effettuare un atterraggio su una delle zone azzurre, relativamente più pianeggianti, perché toccar terra laggiù sembrava più semplice. Ma poi qualcuno cominciò a dirsi che la regolare perdita di tutte quelle sonde non potesse essere dovuta al caso; in qualche modo incomprensibile, doveva essere opera di qualche creatura intelligente. Per controllare questa ipotesi, fu inviata una sonda equipaggiata di ogni sorta di dispositivi di rilevamento e di ogni sistema di protezione che riuscimmo a infilarci dentro, compresa una rete di filo d’argento che copriva l’intera superficie, collegata ai generatori e capace di bloccare qualsiasi frequenza che fosse stata eventualmente usata per interferire con i comandi a distanza. Ci misero proprio tutto, vi dico. Niente di naturale, e ben poco di artificiale sarebbe stato in grado di guastare quella macchina; ma la sonda seguì la sorte di tutte le altre, non appena l’altimetro a riflessione riferì che aveva toccato la superficie.

«A quel punto il padrone dell’astronave si dichiarò vinto. Accettò come ipotesi di lavoro che nelle zone pianeggianti del pianeta abitasse una razza intelligente: una razza che non desiderava ricevere visite.

«La sonda successiva venne inviata su una delle zone più scure e più accidentate che si scorgevano esaminando il pianeta dallo spazio. Il motivo per inviarla laggiù era questo: si pensava che le creature che vivevano nelle zone pianeggianti evitassero le aree accidentate. E parve che il ragionamento fosse giusto, perché si riuscì a effettuare un atterraggio con la sonda. Sia come sia, gli strumenti dicevano che la sonda era appoggiata su una superficie, risultava impossibile farla scendere ulteriormente e rimaneva ferma al suo posto anche quando veniva spento il motore.

«La novità era incoraggiante, ma nessuno, a questo punto, sapeva cosa fare. Continuavamo a non poter vedere l’ambiente circostante, e per qualche tempo non fummo neppure sicuri che il microfono funzionasse. Decidemmo di non usare l’altoparlante, almeno per quei primi tempi. Il microfono captava un debole fischio, il cui volume variava senza alcuna sistematicità; alla fine giungemmo alla conclusione che si trattasse del vento, e non di un disturbo elettromagnetico. Inoltre, udimmo un paio di volte dei suoni rochi, secchi, assolutamente indescrivibili, che non riuscimmo mai a identificare, né allora, né poi: l’ipotesi che gode di maggiore credito è che siano i versi di qualche creatura vivente.

«Continuammo ad ascoltare quei suoni per quasi un’intera rotazione del pianeta, circa due dei nostri giorni, e non udimmo altro che un debole ronzio, suoni di sfregamento altrettanto deboli, e un tambureggiamento irregolare che forse poteva essere dato dai passi di una creatura dotata di zoccoli, i cui piedi battevano su una superficie dura. Se volete, potete ascoltare le registrazioni che abbiamo eseguito, ma vi consiglio di non essere solo, quando lo farete. Quei suoni che giungono dal nulla hanno in sé qualcosa di inquietante e di sovrannaturale.

«Dimenticavo di dire che il portello di carico della sonda si era aperto al momento dell’atterraggio, e che il vano conteneva microfoni e bilance sensibili, capaci di avvertirci nel caso che qualche creatura si spingesse; all’interno. Ma purtroppo non entrò niente: una piccola delusione, perché se laggiù c’era qualche piccola forma di vita selvatica, l’apertura le sarebbe parsa un rifugio naturale.

«Nel corso di quella prima rotazione, non udimmo niente che facesse pensare sia pure remotamente a una creatura dotata d’intelligenza, e alla fine decidemmo di mettere in azione l’altoparlante. Qualcuno studiò dei turni: si incominciava a basso volume, ripetendo un nastro continuo per un’intera rotazione del pianeta, poi lo si ripeteva per un’altra rotazione a un volume doppio, e così via, fino a raggiungere la potenza massima dell’impianto installato a bordo della sonda. Si seguì il programma a parte il fatto che il proprietario, ansioso di giungere a un risultato, ordinò di alzare il volume ogni quarto di rotazione, invece che alle scadenze previste. Uno spiritosone registrò sul nastro una poesia, e cominciammo a trasmettere.

«Come primo effetto delle nostre trasmissioni, ci fu la completa cessazione di tutti i suoni che avevamo provvisoriamente attribuito alle forme viventi. A quanto pareva, erano davvero dei piccoli animali, e nell’udire l’altoparlante erano scappati via per lo spavento. Il vento, se era veramente il vento come pensavamo, continuò senza sosta. Quando aumentammo il volume per la prima volta, udimmo una debole eco. Questo indicava che il suono dell’altoparlante, se non altro, non veniva attutito nelle vicinanze della sonda, e che se qualche essere intelligente fosse giunto a una ragionevole distanza, lo avrebbe potuto udire.

«Per farla breve, ottenemmo una risposta dopo il quarto aumento di volume. All’inizio pensammo che fosse un’eco distorta, ma divenne più forte anche quando non aumentammo più il volume, e alla fine notammo che anche i suoni erano diversi. Costituivano una serie di rumori molto complessa, e tutti noi che li ascoltammo fummo certi fin dall’inizio che fosse la voce di un essere intelligente.

«Alla fine cominciammo a udire anche un rumore di passi tra una serie e l’altra di parole di quel linguaggio alieno, cosicché pensammo bene di cessare le nostre trasmissioni. Era evidente che la creatura era ormai in grado di scoprire la presenza della sonda con altri mezzi, diversi dall’udito, perché i passi continuarono ad avvicinarsi anche dopo la cessazione delle trasmissioni. Dapprima i passi venivano interrotti ogni pochi secondi da un forte richiamo; ma alla fine la creatura raggiunse la sonda, poiché il rumore indicava che camminava attorno a essa a una distanza quasi costante. Invece dei richiami cominciò a pronunciare delle serie di parole a voce meno alta, ma più lunghe e complesse. Probabilmente quelle creature hanno una vista simile alla nostra, anche se su quel pianeta la luce è molto più debole di quella a cui noi siamo abituati.

«Dopo qualche tempo, la fotocellula posta all’interno del vano di carico indicò la presenza di un corpo che copriva gran parte della luce. Uno dei meccanici fece per chiudere il portello, ma il capo gli saltò addosso e lo cacciò fuori dalla cabina di pilotaggio. Si mise lui stesso ai comandi della sonda e cercò di imitare i suoni vocali fatti dalla creatura che non conoscevamo. E ottenne subito un risultato, non c’è che dire! A giudicare dal rumore da lui fatto, l’indigeno fu al colmo dell’eccitazione per un minuto o due; poi cominciò a emettere tutta la gamma di suoni che gli era permessa dal suo apparato vocale. Una cosa è certa: che noi non saremmo capaci di imitarli tutti.

«Questo durò per qualche tempo, e non uno di noi fece dei progressi. Naturalmente, nessuno era in grado di capire che cosa significassero i suoni fatti dall’altro. Cominciavamo a pensare che non saremmo riusciti ad avere altre informazioni sul pianeta, e che le notizie che eravamo venuti a sapere fossero prive di qualsiasi valore.

«Poi qualcuno si ricordò delle vecchie scatole da scambio. Non so se ne siate al corrente; mi pare che venissero usate prima che la nostra razza lasciasse il pianeta natale, allorché due persone che non erano in grado di parlare lo stesso linguaggio desideravano commerciare. Si tratta semplicemente di due piatti, collegati insieme, ciascuno dei quali è suddiviso in una serie di piccoli compartimenti. Uno dei piatti è vuoto, mentre i compartimenti dell’altro contengono i vari articoli posti in vendita. Ciascun compartimento pieno è chiuso da un coperchio trasparente, che però non si lascia sollevare finché non è stato messo qualcosa nel compartimento corrispondente dell’altro piatto. Bisogna che il selvaggio sia particolarmente stupido, per non capire immediatamente il meccanismo di un baratto come questo.

«Noi, naturalmente, non avevamo un dispositivo del genere, ma fu abbastanza semplice costruirne uno. L’unica difficoltà stava nel fatto che fino al ritorno della sonda non avremmo saputo che cosa era stato messo nel vassoio vuoto. Ma poiché ci interessava più la comunicazione che il baratto, al momento questo aspetto non aveva importanza. Inviammo sul pianeta la scatola da scambio servendoci di un’altra sonda: la orientammo sul segnale emesso dalla prima e ci augurammo che gli abitanti delle pianure azzurre non la scoprissero. Poi aprimmo il portello di carico della seconda sonda e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo.

«L’indigeno si affrettò ad avvicinarsi; a quanto pareva, era abbastanza intelligente da mettere prima la curiosità e poi la paura, anche se certamente doveva avere visto la seconda sonda mentre era ancora in volo. Quanto alla scatola, l’indigeno si comportò esattamente come ci si poteva aspettare, anche se naturalmente non potemmo osservare le sue mosse: infilò qualcosa in ciascun compartimento del piatto vuoto, e presumibilmente ritirò tutto quanto era contenuto nell’altro; ma poi rimise a posto quasi tutto ciò che aveva preso. Una delle cose che ci diede in quell’occasione risultò utilizzabile: la merce che continuiamo a scambiare tuttora. Perciò, quando gli rimandammo indietro la scatola, riempimmo solo il compartimento corrispondente a quello in cui lui aveva messo la merce che ci interessava. L’indigeno afferrò l’idea, e da allora siamo sempre stati in ottimi rapporti.»

«E del suo linguaggio, che cosa potete dirmi?»

«Be, sappiamo come dice «sì» e «no», il nome con cui indica alcuni metalli e quello della merce che ci vende. Nient’altro. Posso darvi un nastro con la sua pronuncia, oppure anche una registrazione scritta, se volete parlare con lui.»

«Grazie. L’intera situazione è molto più chiara. Mi pare di capire che non avete avuto più fastidi da parte degli abitanti delle pianure azzurre?»

«Più nessun fastidio. Abbiamo attentamente evitato di stabilire contatti in altre parti del pianeta. Come ho detto, adesso abbiamo interessi commerciali anziché scientifici. Però, se volete inviare delle sonde per fare delle vostre ricerche, penso che non avremo niente in contrario. Comunque, cercate di fare attenzione; non vorremmo che i contatti s’interrompessero prima che possiamo dare inizio alla coltivazione.»

Ken gli rivolse l’equivalente di un sorriso. «Vedo che evitate accuratamente di dirmi di che merce si tratta. Be, non starò a fare pressioni. La cosa non mi riguarda, e non vedo che utilità possa avere per il mio lavoro. Per il momento, mi pare che la cosa migliore sia quella di darmi tutti i dati sul pianeta di cui disponete. A questo punto potrò fare delle ipotesi sulla costituzione della sua atmosfera, e inviare una sonda per avere la conferma delle mie ipotesi. Immagino che sarà più facile che cercare di prelevare campioni da analizzare.»

Drai si staccò dalla spalliera su cui si era steso e gli rivolse l’equivalente di un cenno affermativo. «Non dico che non dobbiate sapere che cosa importiamo dal pianeta» disse. «Ma mi farò un’amaca con la pelle del primo appartenente a questa organizzazione che si lascerà scappare l’informazione!»

Il tecnico, che aveva continuato ad ascoltare ma si era tenuto un po in disparte, fissò ostentatamente il motore di una delle sonde, e, per la prima volta, parlò a Ken senza guardarlo in faccia.

«Non sarà difficile» disse. «Non c’è molto da dire. Il pianeta ha un diametro di circa tre decimi superiore al nostro, e quindi il suo volume è circa il doppio di quello di Sarr. Anche la sua massa è circa il doppio della nostra, ma la sua densità è leggermente inferiore. Alla superficie, la gravità è del venticinque per cento superiore a quella normale di Sarr. La temperatura media è poco al di sotto del punto di solidificazione del potassio. Pressione atmosferica ignota, composizione atmosferica non determinata. Periodo di rotazione, uno virgola ottantaquattro giorni di Sarr.»

«Capisco» disse Ken. «Su questo pianeta potreste riprodurre senza difficoltà la temperatura del Pianeta Tre, scegliendo un punto abbastanza lontano da qui, in direzione della zona oscura; e, se fosse necessario, non sarebbe difficile riprodurre anche la periodicità del giorno e della notte del Pianeta Tre. Il vostro problema è l’atmosfera. Perciò, cercherò per prima cosa il modo di riprodurre anche quella.» Così dicendo, Sallman Ken si allontanò lentamente in direzione dell’alloggio che gli era stato assegnato. Non era preoccupato soltanto dal problema di analizzare l’atmosfera; pensava piuttosto alla razza misteriosa che abitava nelle nude e spoglie pianure azzurre del Pianeta Tre e alla possibilità di interrompere una volta per tutte il commercio con il pianeta: naturalmente, nell’ipotesi che il prodotto misterioso fosse quello che lui temeva.

E inoltre si domandava se per caso non avesse esagerato, nel proclamare il suo disinteresse nei riguardi del principale prodotto esportato dal pianeta.

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