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Alcuni dei piccoli contenitori erano pieni, e quasi tutti sembravano intatti. Altri, invece, non lo erano affatto. Il loro contenuto era facile da trovare, ma Ken capì che sarebbe stato difficile da analizzare.

Una polvere bianca era letteralmente dappertutto, come aveva già constatato Roger. I fiocchi gialli di perossido di sodio diventavano progressivamente più grigi perché si decomponevano a causa del calore. Il crogiolo dell’oro era uscito dalla sua basetta, ma per il resto era immutato; il ferro era diventato nero; sodio, magnesio e titanio erano scomparsi, anche se il residuo contenuto in ogni crogiolo faceva sperare di poter analizzare un po delle polveri. Nel contenitore del carbonio c’era ancora un poco di quella sostanza, ma molto meno di quanta ce n’era in partenza.

Tutto questo, comunque, per interessante e importante che fosse, richiamò soltanto per pochi istanti l’attenzione di Feth e di Ken; poiché all’interno del portello di carico, impressa chiaramente sullo strato di polvere, c’era un’impronta completamente diversa da tutte quelle che avevano visto fino a quel momento.

«Feth, cercate una macchina fotografica. Io vado ad avvertire Drai.» Le parole non erano ancora uscite dal suo diaframma, che Ken si era già precipitato verso la porta; e, una volta tanto, Feth non ebbe niente da dire. Non riusciva a staccare gli occhi dall’impronta.

Non c’era niente di strano o di inquietante nell’impronta; ma Feth non riusciva ad allontanare dalla mente l’affascinante interrogativo su chi l’avesse lasciata. Per un alieno che non ha mai visto niente di simile a un essere umano, l’impronta di una mano comporta ovviamente delle difficoltà di interpretazione. A quanto ne sapeva lui, la creatura poteva essere stata in piedi, o seduta, o piegata, o poteva essersi distesa sopra il portello nella maniera che per i sarriani era l’equivalente dello stare seduti. Non c’era modo di scoprirlo.

L’indigeno poteva essere grosso come il piede di un sarriano, e poteva avere lasciato l’impronta con il suo corpo; o poteva essere troppo grosso per infilare nel vano qualcosa di più che una semplice appendice. Feth scosse la testa per chiarirsi le idee. Si era accorto che continuava a rimasticare gli stessi concetti. Andò a cercare la macchina fotografica.

Sallman Ken entrò nell’osservatorio senza avvertire, ma non diede a Drai la possibilità di esplodere. Era eccitato dalla notizia della scoperta; un po troppo, anzi, perché continuò a parlare per l’intero tragitto fino al laboratorio. Quando giunsero laggiù, l’impronta stessa fu una sorta di delusione per Drai, che si mostrò interessato per pura cortesia, ma non di più. Ai suoi occhi, naturalmente, l’aspetto fisico dei terrestri non aveva alcuna importanza. La sua attenzione si rivolse a un altro particolare.

«Cos’è quella polvere bianca?»

«Non lo so ancora» confessò Ken. «La sonda è rientrata appena adesso. È l’effetto dell’atmosfera del Pianeta Tre sui campioni che ho spedito laggiù.»

«Allora, tra poco sapremo la composizione dell’atmosfera? Sarà utile. Ci sono delle caverne, nei pressi della zona buia, che conosciamo da diversi anni: potremmo facilmente sigillarle e riempirle dei gas che voi ci direte. Quando scoprirete qualcosa, fatecelo sapere subito.» Si allontanò dal laboratorio, con indifferenza, e Ken rimase leggermente deluso. L’aveva giudicata una scoperta assai affascinante.

Con un’alzata di spalle, cercò di cancellare la delusione, raccolse i suoi campioni senza toccare l’impronta, e li portò all’altra estremità della stanza, sul banco dove aveva allestito un semplice laboratorio chimico. Come aveva detto lui stesso, non era un esperto di analisi chimiche; ma i composti che si formavano nel corso delle combustioni non erano molto complessi, e Ken era certo di potersene fare una buona idea.

In fin dei conti, lui conosceva i metalli contenuti nei campioni: l’unico metallo gassoso che si poteva trovare nell’atmosfera del Pianeta Tre era l’idrogeno. Il mercurio era liquido, a quella temperatura, e nessun altro metallo aveva una pressione di vapore abbastanza alta, neppure alla temperatura di Sarr. Tenendo ben fissa in mente questa idea e usandola come riferimento, Ken si mise al lavoro.

Per un chimico, la descrizione delle operazioni effettuate da Ken risulterebbe interessante. Per tutti gli altri sarebbe solo una routine noiosa e ripetitiva di riscaldamenti e raffreddamenti, misure di punti di ebollizione e di congelamento, filtraggi e frazionamenti. Se fosse partito con la mente sgombra da preconcetti, Ken avrebbe fatto più in fretta; ma alla fine anche lui si convinse. E una volta convinto, si chiese perché non ci avesse pensato prima.

Feth Allmer era ritornato già da tempo, e aveva fotografato l’impronta da una decina di angoli diversi. Ora, vedendo che Ken aveva cessato di lavorare, lasciò la spalliera su cui si era disteso a riposare e raggiunse il banco di lavoro.

«Avete trovato qualcosa, o siete rimasto bloccato?» domandò.

«Credo di aver trovato quello che cercavo» rispose Ken. «Avrei dovuto pensarci fin dall’inizio, tanto era ovvio. È ossigeno.»

«Perché è tanto ovvio?» domandò Feth. «E, anzi, perché non ci avete pensato?»

«A questa domanda non saprei rispondere. Semplicemente, ho scartato l’ipotesi, e basta, perché è un elemento troppo attivo. Non mi sono soffermato a pensare che a quella temperatura non può essere molto più attivo di quanto lo è il solfo alla nostra. È perfettamente plausibile che si trovi libero nell’atmosfera… a condizione che ci sia un processo che sostituisce costantemente quello che si combina con gli altri elementi. È lo stesso discorso che vale per il solfo. Maledizione, i due elementi sono così simili tra loro! Me ne sarei dovuto accorgere fin dal primo istante.»

«Che cosa intendete dire… un processo che sostituisce?»

«Come sapete» disse Ken «noi respiriamo solfo e con i nostri processi metabolici produciamo solfuri. Viceversa, le forme viventi che si nutrono di minerali, come gran parte della vegetazione, scompongono i solfuri e liberano solfo allo stato molecolare, utilizzando l’energia solare. Probabilmente, anche sul Pianeta Tre c’è un’analoga suddivisione tra le forme viventi: alcune formano ossidi, e le altre li scompongono. Adesso che ci penso, anche su Sarr ci sono dei microrganismi che usano l’ossigeno al posto del solfo.»

«L’atmosfera del pianeta» domandò Feth «è costituita di ossigeno puro?»

«No. L’ossigeno è soltanto un quinto o poco più. Ricorderete come sono bruciati in fretta il sodio e il magnesio, e di quanto è calata ogni volta la pressione.»

«No, non ricordo, e non vedo il legame tra le due cose, ma penso che dovrò prendere a scatola chiusa le vostre affermazioni. Che cos’altro c’è, in quell’atmosfera? Il titanio l’ha consumata quasi tutta, se ricordo bene.»

«Proprio così. Si tratta di azoto, o di uno dei suoi ossidi; non saprei dire quale, senza fare altri esperimenti con campioni meglio controllabili dal punto di vista quantitativo. Gli unici composti del titanio che ho trovato in mezzo a quella confusione sono ossidi e nitruri. Il carbonio si è ossidato, credo, e il motivo per il quale non ci sono stati cambiamenti di pressione, esclusi quelli dovuti al raffreddamento, è che il principale composto di carbonio e ossigeno contiene due atomi d’ossigeno, e pertanto non ci sono cambiamenti di volume. Avrei dovuto pensarci.»

«Credo di dover accettare anche queste considerazioni a scatola chiusa» commentò Feth. «Quindi, non ci resta da fare altro che preparare una miscela di azoto e ossigeno in proporzione di quattro a uno, e di riempire fino a due terzi della pressione normale le caverne di cui ha parlato il capo?»

«Forse è una descrizione un po troppo semplicistica, ma dovrebbe essere abbastanza simile all’ambiente naturale da permettere la crescita di questo vostro tafacco… ammesso che si riesca a portare qui, vivi, i campioni per dare inizio alla coltivazione. Inoltre, sarebbe bene procurarsi un po del terreno del Pianeta Tre: non credo che sarà sufficiente ridurre in polvere la roccia di qui. Detto per inciso, non ho nessuna intenzione di analizzare quel terreno: non intendo neppure tentare di farlo. Dovrete trovare voi il modo di portarne qui la quantità necessaria.»

Feth lo fissò con gli occhi sbarrati. «Ma è assurdo!» esclamò. «Ne occorreranno tonnellate, per una piantagione decente.»

Sallman Ken si limitò ad alzare le spalle. «Lo so» disse. «Ma vi dico che raccogliere quelle tonnellate di terreno sarà più facile che compierne un’analisi esauriente. Io non conosco a sufficienza la chimica per farlo, ma credo che neppure i migliori chimici di Sarr si azzarderebbero a fare delle ipotesi sulle sostanze chimiche che si possono trovare allo stato solido su quel pianeta. A quella temperatura, scommetto che potrebbero esistere composti organici privi di fluoro e di silicio!»

«Sarà meglio chiamare Drai, e dirglielo» replicò Feth. «Sono certo che pensava di poter fabbricare per sintesi l’atmosfera e il terreno, in modo da allestire la coltivazione con le nostre sole forze.»

«Sarà meglio chiamarlo» convenne Ken. «Fin dall’inizio gli ho detto ben chiaramente i miei limiti; se s’aspetta un risultato simile, vorrà dire che non si rende conto della natura del problema.» Feth si allontanò, con l’aria preoccupata, e Ken non capì che importanza avesse, la cosa, per il meccanico. Più tardi, lo venne a sapere.

L’aria preoccupata era ancor più evidente quando Feth fece ritorno.

«Adesso» comunicò il meccanico «dice che ha da fare. Ne parlerà con voi dopo il rientro della tuta, in modo che si possano valutare anche le possibili alternative. Vuole che vi conduca a vedere le caverne, per farvi capire che cosa ha in mente quando parla di usarle.»

«Come si arriva laggiù?» domandò Ken. «Penso che siano abbastanza lontane.»

«Ci porterà Ordon Lee, con la nave. Distano tremila chilometri. Mettiamoci lo scafandro.»

Ken, eroicamente, soffocò il desiderio di chiedere perché l’intera questione fosse saltata fuori all’improvviso, nel bel mezzo di quello che sembrava un problema del tutto diverso, e si recò all’armadio dove erano custodite le tute spaziali. Comunque, aveva dei sospetti sul vero motivo, ed era sicuro che la loro spedizione sarebbe durata fino al ritorno della sonda contenente la merce di Laj Drai. Ma tutte queste cose gli passarono di mente quando pose piede sulla superficie di Mercurio, per la prima volta dal suo arrivo alla stazione.

L’aspetto butterato, bruciato, assolutamente asciutto della valle non costituiva ai suoi occhi uno spettacolo particolarmente strano, in quanto Sarr era altrettanto asciutto e ancor più caldo; ma il colore cupo del cielo nelle vicinanze del sole e l’assenza di vegetazione sul terreno gli davano l’impressione di trovarsi su qualcosa di morto, ed era una sensazione alquanto sgradevole.

Su Sarr, invece, c’era vita vegetale dappertutto, anche se il pianeta era arido; le piante che Ken conosceva erano più cristalline che organiche, e la loro esistenza richiedeva soltanto minime tracce di sostanze liquide.

Inoltre, Sarr aveva variazioni climatiche, e Mercurio non ne aveva. Non appena la nave lasciò la valle, Ken fu in grado di vedere la differenza. La superficie di Mercurio era accidentata, con picchi alti e rocce affilate. I monti, i crepacci e i crateri scavati dalle meteore non erano mai stati addolciti dalla mano dell’erosione. Le poche ombre che vi si incontravano erano complete, e l’unica luce che vi penetrava era quella riflessa dagli oggetti circostanti.

I laghi e i fiumi di un pianeta come Mercurio dovevano essere di metalli come il piombo e lo stagno, o di composti semplici come l’«acqua» del pianeta Sarr: cloruro di rame, bromuro di piombo, solfuri del fosforo e del potassio. Ma gli uni erano troppo pesanti, e dovevano già essersi infiltrati tra le rocce di Mercurio, se mai erano esistiti; gli altri non potevano essere presenti perché mancavano gli organismi viventi che potevano averli prodotti. Osservando dalla sua cabina dell’astronave la superficie di Mercurio, Sallman Ken cominciò a rivalutare in cuor suo perfino la Terra.

Una nave capace di superare di migliaia di volte la velocità della luce non impiega molto tempo per percorrere tremila chilometri, anche quando la velocità è talmente bassa da consentire il pilotaggio manuale. Nel punto in cui atterrarono, la superficie era un poco più buia: il sole era sopra l’orizzonte invece di trovarsi allo zenit, e le ombre erano proporzionalmente più lunghe. La zona pareva più fredda della valle dove sorgeva la stazione, e lo era davvero, ma il vuoto e la scarsa capacità della roccia di condurre il calore permettevano di uscire dall’astronave con le normali tute spaziali, ed entro pochi minuti dall’atterraggio, Ken, Feth e il pilota saltellavano rapidamente verso un costone roccioso, poco lontano, che era alto una quindicina di metri.

La superficie della roccia era rugosa e coperta di minuscole fessure, come l’intera topografia del pianeta. Lee si avviò senza esitazioni verso uno dei crepacci più larghi, che correva in direzione obliqua rispetto ai raggi del sole, cosicché i tre sarriani si trovarono presto immersi nell’oscurità. Accesero le lampade portatili e proseguirono il cammino.

All’inizio, il passaggio era alquanto stretto, e accidentato quanto bastava per costituire una minaccia per l’integrità delle tute spaziali. Questa prima parte del crepaccio era lunga qualche centinaio di metri e sboccava all’improvviso in una caverna molto vasta, di forma quasi sferica. A quanto pareva, il pianeta Mercurio non era sempre stato privo di gas: la caverna sembrava prodotta da una bolla gassosa venutasi a formare all’interno di una massa di roccia vulcanica fusa.

La spaccatura di cui si erano serviti gli esploratori per entrare si stendeva in alto fino alla cima, e in basso fino quasi al fondo. Si era riempita parzialmente di frammenti caduti dalla parte alta, e questo era il motivo che aveva reso così disagevole il cammino. Anche la parte inferiore della bolla conteneva una certa quantità di frammenti rocciosi, e si potevano utilizzare questi frammenti per scendere fino al centro, ma Ken non aveva alcun desiderio di compiere una così faticosa discesa.

«C’è soltanto questa grossa bolla?» domandò.

Gli rispose Ordon Lee: «No, ne abbiamo trovato molte, simili a questa, lungo tutto il costone, e probabilmente ce ne sono altre che non hanno sbocchi verso l’esterno. Suppongo che potremmo cercarle con gli ultrasuoni, se avessimo davvero bisogno di trovarle.»

«Potrebbe essere una buona idea» fece notare Ken. «In una caverna con una sola apertura scavata da noi stessi, si potrebbe mantenere meglio la pressione atmosferica.»

Feth e il pilota fecero un mormorio d’assenso. Il pilota aggiunse una sua considerazione: «Ed è consigliabile scegliere una bolla un po profonda, perché questo rende più agevole la perforazione. C’è meno rischio di produrre delle crepe che arrivino fino alla superficie.»

«C’è un solo problema» disse Feth. «Abbiamo uno scandaglio a ultrasuoni? Come diceva Ken a proposito delle analisi chimiche del terreno, ho dei dubbi sulla mia capacità di farne uno.»

Per alcuni istanti, nessuno rispose a questa obiezione. Alla fine, Lee disse: «Comunque, è meglio che vi faccia vedere anche le altre caverne che abbiamo già trovato.» Nessuno si oppose, e i tre sarriani rifecero il cammino in senso inverso e tornarono alla luce del sole.

Nelle quattro ore successive, visitarono altre sette caverne, di forme diverse: da un foro emisferico sulla parete stessa del costone, a una bolla buia e profonda, a cui si accedeva da un crepaccio attraverso il quale si passava a malapena, con la tuta. Quest’ultima caverna, nonostante la difficoltà d’accesso e la dimensione ridotta, era quella che meglio si prestava ai loro scopi: Lee lo ribadì mentre si toglievano la tuta, una volta risaliti sulla Karella.

«Avete ragione» ammise Ken «ma vorrei cercarne una più profonda. Maledizione, Feth, siete sicuro di non potere preparare un ecoscandaglio? Non avete avuto problemi con gli strumenti che abbiamo messo sulle sonde.»

«Adesso, mi pare che siate voi quello che non capisce il problema» rispose il meccanico. «Nelle sonde abbiamo messo riscaldatori, termometri, manometri e fotocellule. Sono strumenti che si acquistano già pronti per l’uso. Io mi sono limitato a collegarli a un normale trasmettitore istantaneo: non potevo usare la radio perché le sue onde impiegano più di dieci minuti per compiere l’intero tragitto di andata e ritorno fino al Pianeta Tre. Io non ho costruito niente: mi sono limitato a collegare tra loro dei fili.»

«Già» ammise Ken. «Avete ragione, e visto che stanno così le cose, tanto vale che ritorniamo alla stazione per studiare ii problema.» Non staccò lo sguardo dai suoi compagni, mentre faceva questa proposta, e colse l’occhiata che Feth gettò all’orologio prima di rispondere. Ne provò quasi piacere.

Ma il pilota fu più rapido del meccanico. «Prima, però, sarebbe consigliabile scattare qualche fotografia della caverna, e misurarne le dimensioni» disse Lee. «Abbiamo bisogno di dati per calcolare la quantità di terreno e di gas che ci occorrerà, indipendentemente dal modo in cui ce la procureremo.»

Ken non fece obiezioni; non voleva destare sospetti, e inoltre aveva avuto la prova che cercava. Lo tenevano intenzionalmente lontano dalla stazione.

Aiutò i compagni a scattare le fotografie e a misurare le dimensioni della caverna. Più volte dovette fare uno sforzo per non scoppiare a ridere a causa dei trasparenti sotterfugi dei suoi due accompagnatori: ogni volta si faceva ritorno alla nave, ci si toglieva la tuta, e solo allora qualcuno suggeriva la nuova attività da svolgere. Ma dal punto di vista della perdita di tempo, la tecnica era perfetta.

Tanto per prestarsi al gioco, fu lo stesso Ken a proporre un periodo di riposo prima di ritornare alla base, e l’idea, non c’è bisogno di dirlo, venne accolta con entusiasmo dai compagni. Poi disse di voler calcolare il volume della caverna sulla base delle loro misurazioni, e riuscì a perdere molto tempo nei necessari calcoli… del tutto legittimamente, perché la geometria della caverna non era certo quella di una sfera perfetta.

Quando però suggerì di prelevare dei campioni di roccia per valutare le difficoltà di un’eventuale perforazione, dovette faticare per non sorridere, perché Feth, con una certa impazienza, obiettò che la cosa poteva essere rimandata a un altro momento. A quanto pareva, Ken aveva battuto i suoi due accompagnatori al loro stesso gioco, anche se non riusciva a capire che importanza avesse, per Feth, il fatto di essere rimasti laggiù più a lungo del necessario.

«Occorrerà un mucchio di gas» disse ai compagni, mentre la Karella si innalzava nel cielo nero. «Là dentro ci stanno cinquantamila metri cubi di gas, e anche se sarà sufficiente una pressione più bassa della nostra, la cosa non ci aiuterà molto. Vorrei sapere se possiamo ricavare ossigeno da quelle rocce; avremmo fatto meglio a prelevarne qualche campione, come suggerivo io. E poi occorrerà controllare attentamente il soffitto per trovare eventuali fessurazioni: non abbiamo idea di come sia la sua tenuta d’aria. Vorrei poter… sentite, Feth, mi pare che abbiamo a disposizione un buon numero di unità radar, vero?»

«Sì, certo. A cosa vi servono? I loro raggi non sono in grado di attraversare la roccia.»

«Lo so» rispose Ken. «E tra quelle che abbiamo, ce n’è qualcuna in cui si può cambiare la frequenza degli impulsi?»

«Sì. Altrimenti occorrerebbe cambiare apparecchio ogni volta che si cambia la portata. E allora?»

«Non possiamo… cioè, non potete… fare in modo che gli impulsi radar azionino un risonatore di qualche tipo, da mettere a contatto con la roccia? Potremmo poi raccogliere l’eco di questo suono, mediante un microfono a contatto, e misurare l’intervallo tra l’eco e il suono. La frequenza degli impulsi dovrebbe essere molto bassa, ma possiamo calibrarla abbastanza facilmente.»

«Il guaio è che le unità radar non sono molto portatili. Soprattutto quelle montate sulla nave.»

«Smontiamo quelle di una sonda, allora. Le sonde hanno un altimetro radar, e ne abbiamo una scorta abbastanza grande: quanto basta per poterne smontare una. Si poteva chiamare la base per farcene mandare una; non credo che la cosa avrebbe richiesto più di qualche ora. Facciamo ancora in tempo, diciamo di mandarla… si fa più in fretta a ritornare alle caverne che ad arrivare alla base.»

«È più comodo lavorare nell’officina» disse il pilota. «Inoltre… sempre che la cosa funzioni… se c’è da scendere sottoterra come volete voi, è meglio fare le prove nelle vicinanze della base, dove tutto risulta semplificato.» Parlò senza togliere gli occhi dai comandi.

«Credete di poterlo fare?» domandò Ken, rivolto al meccanico.

«Non sembra una cosa difficile» rispose questi «ma non voglio pronunciarmi troppo presto.»

«Abbiamo ancora un po di tempo, prima che la tuta corazzata rientri. Si potrebbe fare tutto prima del rientro, e allora sì che potremmo dare a Drai delle notizie su cui riflettere! Chiamiamolo subito… può darsi che ci dia qualche suggerimento per quanto riguarda il terreno.»

Gli altri due si scambiarono un’occhiata che durò una frazione di secondo, poi Lee indicò l’apparecchio radio.

«Fate pure» disse «ma tenete presente che arriveremo alla base prima che possiate dirgli molto.»

«Aveva detto che dovevate fabbricare il terreno» gli ricordò Feth.

«Lo so. È per questo che voglio parlargli… siamo partiti troppo in fretta, quando abbiamo lasciato la base.» Ken accese la radio mentre gli altri cercavano di capire se la loro partenza, così affrettata, aveva destato in lui qualche sospetto. Nessuno osava parlare in presenza di Ken, ma ancora una volta i loro occhi si incontrarono, e l’occhiata che si scambiarono fu carica di significato.

Alla fine, all’altra parte della comunicazione giunse Drai, e Ken cominciò subito a parlare, senza preamboli.

«Abbiamo misurato le dimensioni della caverna più piccola che abbiamo trovato fino a questo momento, e ho calcolato approssimativamente la quantità d’aria che occorre per riempirla. Posso anche dirvi quanto terreno occorre per coprire il fondo, se volete usare tutta la superficie della caverna. Il guaio è che… anche ammesso che io riesca ad analizzare il terreno, sia pure in modo approssimativo come ho fatto per l’atmosfera del Pianeta Tre… la quantità che occorre è nell’ordine delle tonnellate. Io non posso fabbricarne in laboratorio una simile quantità; almeno, non in tempi accettabili. Occorre prenderla già pronta.»

«E come? Non siamo neppure in grado di far scendere una persona sul Pianeta Tre. Non parliamo poi di un’astronave.»

«Questo è da vedere. Il suggerimento che intendo dare è un altro… Ma vedo che siamo quasi arrivati, e quindi possiamo parlarne di persona. Pensateci un attimo, mentre noi atterriamo. Qualsiasi atmosfera abbiano i pianeti, il loro terreno non può essere molto diverso… almeno in quelli che sono i principali costituenti. Perché non vi procurate un carico di terreno di Sarr?»

Per un attimo, Drai non seppe cosa rispondere per la sorpresa. Poi mormorò: «Ma… i batteri…»

«Non dite assurdità; nessuna creatura vivente sarriana potrebbe vivere a quella temperatura. Ammetto che sarebbe meglio usare terreno del Pianeta Tre, e può darsi che si possa farlo. Ma nel caso non fosse possibile, vi do un consiglio, visto che vi interessa la rapidità. Anche se conoscessi la composizione, per fare cento tonnellate di terriccio mi occorrerebbe ben più di una settimana!» E chiuse la comunicazione mentre la Karella toccava terra.

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