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Laj Drai trovò accanto a una delle sonde il suo insegnante di recente assunzione; con un tentacolo curvo ad anello era occupato a esaminare il contenuto del vano di carico. Elencava a uno a uno gli oggetti, e il meccanico lo ascoltava.

«Cellula di magnesio; cellula di titanio; cellula di sodio… oh, salve, Drai. Qualche novità?»

«Difficile dirlo» rispose l’altro. «Avete intenzione di iniziare una ricerca, vedo.»

«Controllo alcune ipotesi, nient’altro. Ho fatto una lista degli elementi chimici che sono gassosi alle condizioni di temperatura e pressione che regnano sulla superficie del Pianeta Tre, e dei composti che ho trovato nelle tabelle del manuale. Alcuni di questi composti sono un po dubbi, perché non ho dati esatti sulla pressione; potrebbero essere allo stato liquido. Però, se sono presenti come liquidi, dovrebbero esserci i loro vapori.

«Poi ne ho eliminato quanti più possibile, in base a considerazioni teoriche, poiché non posso compiere in una volta sola tutti gli esperimenti.»

«Considerazioni teoriche?» chiese Drai.

«Sì. Per esempio il fluoro: mentre è ancora gassoso a quelle condizioni, è troppo attivo per pensare di poterlo trovare allo stato libero. Lo stesso discorso vale per il cloro… che però forse è liquido… e per l’ossigeno. Viceversa, sembra molto probabile la presenza dell’idrogeno, dell’acido solfidrico e dei composti volatili di questi elementi. Dovrebbe esserci anche l’azoto, e certo ci saranno dei gas inerti… anche se non so come determinare la loro presenza, ovviamente.

«Ho fabbricato dei piccoli contenitori in cui ho messo le varie sostanze chimiche, e li ho muniti di un sistema di riscaldamento; intendo far scendere sul pianeta questa sonda, aprire il portello in modo che l’atmosfera locale penetri nel suo vano di carico, e riscaldare i contenitori, uno alla volta. Poi la riporterò qui da noi e controllerò l’effetto di quell’atmosfera sui miei campioni. Ho messo del magnesio e del titanio, che hanno lo scopo di fissare l’azoto; del sodio e un paio di solfuri che verranno ridotti se l’atmosfera contiene troppo idrogeno, e così via. Non verrò a sapere tutto su quell’atmosfera, ma qualcosa lo verrò a sapere.»

«Lo penso anch’io» disse Drai «da quel poco che so. Avete intenzione di far partire subito la vostra sonda?»

«Sì; mi pare che tutto sia pronto, a meno che non ci siano delle obiezioni da parte vostra.»

«Niente d’importante» disse Drai. «Stiamo per inviarne una anche noi; il nostro indigeno ci ha trasmesso il segnale convenuto. Lo abbiamo ricevuto poco tempo fa.»

«Ed è possibile guidare due sonde allo stesso tempo?» domandò Ken.

«Sì, è facilissimo. Mi viene però in mente un particolare: forse sarebbe meglio che faceste posare la vostra sonda a due o tre chilometri di distanza dal nostro consueto radiofaro, e che faceste il vostro esperimento quando quella parte del pianeta è in oscurità. Gli indigeni hanno abitudini diurne, ne siamo certi; meglio non correre il rischio di spaventarli, nel caso che una delle vostre reazioni chimiche sia troppo luminosa, o rumorosa, o puzzolente…»

«O rilevabile da qualche loro organo di senso che non possiamo immaginare» concluse Ken al posto suo. «Giusto, avete ragione. Preferite che aspetti finché non avrete concluso i vostri scambi, o posso partire prima di voi, se faccio in tempo?»

«Non credo che la cosa abbia importanza. Non ricordo se la sonda arriverà laggiù di giorno o di notte; in ufficio abbiamo una tabella per calcolarlo, e contavo di controllarla poco prima dell’arrivo. Direi di fare così: se sarà giorno, noi scenderemo e voi aspetterete, mentre, se sarà notte, toccherà a voi il primo turno.»

«D’accordo.»

«Dovrete pilotare la sonda da qui: nell’osservatorio abbiamo soltanto un’unità trasmittente. Ma la cosa ha poca importanza, perché in qualsiasi caso dovrete dirigerla alla cieca. Vado ad avvertire che tra poco ci sarà anche la vostra sonda. Abbiamo messo in orbita attorno al pianeta un’unità relè provvista di un apparato rilevatore, e se non li avverto prima, gli osservatori rischiano di credere che gli indigeni si siano avventurati nello spazio.»

«Avete rilevato attività da parte degli indigeni?»

«Non molta. Negli ultimi tre o quattro anni abbiamo rilevato delle radiazioni stranamente simili a quelle del radar, ma finora si è sempre trattato di emissioni a frequenza costante. Abbiamo messo sulle sonde una copertura di plastica da un quarto d’onda, con una pellicola di metallo che riflette in una sola direzione, e non abbiamo mai riscontrato inconvenienti. In tutto, usano soltanto una decina di frequenze diverse, e noi abbiamo già preso le nostre precauzioni per tutte: quando le cambiano, noi semplicemente usiamo un’altra sonda.

«Suppongo che prima o poi si metteranno a usare due o più frequenze nella stessa area, o addirittura la modulazione di frequenza, e a quel punto saremo costretti a procurarci delle coperture non riflettenti. Sarebbe già adesso la soluzione migliore, ma è anche la più costosa. L’ho scoperto quando ho fatto ricoprire la Karella. Mi chiedo come faremo, quando gli indigeni impareranno a rilevare gli infrarossi. Le sonde sono molto più calde del pianeta, e all’infrarosso brillano come una stella nova, al momento dalla loro partenza dall’astronave, poco al di fuori dell’atmosfera.»

«Lasciatele ferme nello spazio finché non si sono raffreddate» suggerirono in coro Ken e il meccanico. «Oppure» aggiunse quest’ultimo «fatele partire tutte da qui, come abbiamo sempre fatto.» Laj Drai si allontanò senza altri commenti.

«Quell’uomo avrebbe bisogno di un intero dipartimento universitario» commentò il meccanico, quando la porta si fu richiusa. «È così sospettoso che assume soltanto una persona alla volta, e di solito la licenzia subito.»

«Allora» commentò Ken «io non sono il primo?»

«Voi siete il primo che è arrivato fin qui. Ce ne sono stati altri due prima di voi, ma lui si è messo in testa che volevano curiosare sui suoi commerci, e io non sono mai riuscito a sapere se era vero. Io non sono uno scienziato, ma sono curioso… Su, diamoci da fare; cerchiamo di mettere nello spazio questo fuso di metallo, prima che lui cambi idea e ci rifiuti il permesso di partire.»

Ken fece un cenno d’assenso, ma si limitò a guardare mentre il meccanico sintonizzava la sonda laboratorio sul raggio del circuito generale esterno: sul raggio, due segnali multifase si potevano controllare con la stessa facilità di uno solo, e le due sonde potevano viaggiare a poca distanza tra loro, cosicché un solo raggio era sufficiente. Ken rifletté che le informazioni che gli aveva dato il meccanico erano interessanti; non aveva mai pensato che in quel lavoro poteva essere stato preceduto da qualcun altro. In un certo senso, la cosa era positiva: presumibilmente, gli altri non erano agenti della narcotici, perché, se lo fossero stati, Rade glielo avrebbe detto. Pertanto, lui era mimetizzato meglio di quanto non pensasse. C’era perfino la possibilità che Drai fosse abituato ad avere con sé degli estranei.

Ma fin dove arrivavano le conoscenze di quel meccanico? In fin dei conti, doveva essere lì da vario tempo, e Drai non aveva certo paura di parlare in sua presenza. Forse Ken poteva usarlo come utile fonte di informazioni; viceversa, forse era pericoloso fargli domande, perché era possibile che uno dei suoi compiti fosse appunto quello di tenere d’occhio la condotta di Sallman Ken. Pareva un individuo alquanto taciturno e, fino a quel momento, Ken non gli aveva prestato molta attenzione.

In quel momento, il meccanico era totalmente preso dai suoi compiti tecnici. Si era steso su una spalliera di fronte al quadro dei comandi: fece scattare con i tentacoli alcune levette e spinse avanti e indietro alcune resistenze variabili, e subito un ronzio che si faceva sempre più forte indicò che i tubi si stavano riscaldando. Dopo un attimo, girò piano una manopola, e la sonda preparata da Ken si sollevò delicatamente dalla sua slitta. Parlò senza voltare la testa: «Se mi fate il favore di spostarvi in fondo alla stanza, farò scendere la sonda laggiù e proveremo il microfono e l’altoparlante. So che non avete intenzione di utilizzarli, ma è meglio che funzionino.»

Ken seguì il suggerimento, e prima provò il microfono, poi gli altri strumenti contenuti nel vano di carico, che dovevano informarli di eventuali violente reazioni chimiche che avessero luogo al suo interno: fotocellule, pirometri, pompe aspiranti collegate a bottiglie di raccolta e a precipitatoli di particelle. Ogni cosa era in perfetto ordine ed era tenuta saldamente al suo posto da robusti morsetti.

Accertatosi che tutto fosse in ordine, il tecnico diresse la piccola nave interplanetaria verso un portello a tenuta d’aria, simile a una galleria, che si apriva in una delle pareti della stanza. La fece fermare, chiuse il boccaporto, fece il vuoto all’interno e poi fece uscire la sonda sulla superficie di Mercurio. Senza altri preamboli, la allontanò dal pianeta a tutta velocità: i controlli della sonda erano sintonizzati su un raggio portante a trasmissione istantanea che correva dalla stazione al satellite relè orbitante intorno alla Terra. La sonda non avrebbe richiesto ulteriori attenzioni finché non fosse giunta nei pressi del pianeta.

Il meccanico si staccò dal pannello e si voltò in direzione di Ken.

«Adesso vado a dormire per qualche ora» disse. «Sarò di nuovo qui prima che la sonda faccia ritorno. Se la cosa v’interessa, la vostra sonda sarà la prima a scendere. Occorrono tre rotazioni e mezza del Pianeta Tre, all’incirca, perché la sonda arrivi fino a esso quando i pianeti sono nelle loro attuali posizioni… nelle sonde non possiamo installare l’iperpropulsione… e il segnale dev’essere partito durante il periodo di luce del pianeta. Arrivederci. Fatemi chiamare dall’altoparlante se vi occorre qualcosa.»

Ken gli rivolse l’equivalente di un cenno affermativo.

«Benissimo… e grazie. Voi vi chiamate Allmer, vero?»

«Precisamente. Feth Allmer.» Senza più fare parola, il meccanico raggiunse la porta e scomparve, muovendosi con la rapidità di una persona ben assuefatta alla debole gravità di Mercurio. Ken, rimasto solo nella grande stanza, ricominciò a riflettere sulla propria situazione.

Quasi senza accorgersene, l’investigatore andò a stendersi sulla spalliera che aveva ospitato Allmer fino a pochi istanti prima e fissò con uno sguardo vacuo gli indicatori davanti a lui. Uno dei suoi guai, si disse, era la sua tendenza a occuparsi di due problemi alla volta. In un certo senso la cosa poteva essere positiva, naturalmente; un genuino interesse nei confronti dei problemi del Pianeta Tre era la migliore protezione possibile da eventuali sospetti riguardanti la sua seconda occupazione; ma non gli permetteva di concentrarsi su di essa. Da ore, ormai, non pensava praticamente ad altro che ai suoi esperimenti chimici, finché le ultime parole di Allmer non l’avevano bruscamente riportato al suo dovere.

Fin dall’inizio, Allmer gli era parso un tecnico competente; ma a causa di qualche sua prevenzione che non avrebbe saputo spiegare neppure lui, non s’era aspettato da parte sua tutto l’acume che aveva dimostrato nelle considerazioni di poco prima. Ken stesso non aveva afferrato le implicazioni delle parole di Drai, quando questi aveva parlato delle abitudini diurne degli abitanti del terzo pianeta; a quanto pareva, Drai non era stato neppure sfiorato dalla possibilità di arrivare alla risposta mediante un ragionamento.

Ma poteva davvero essere così stupido? Diversamente da Ken, Drai conosceva le distanze messe in gioco da un viaggio fino a quel pianeta, come pure la velocità delle sonde; per sua stessa ammissione, Drai commerciava con gli indigeni di quel pianeta da diversi anni. Che scopo poteva avere, cercando di sembrare più stupido di quello che era?

Una possibilità c’era certamente. Forse erano già sorti dei sospetti su di lui, e Ken era al centro di una cospirazione che voleva spingerlo a tradirsi per eccesso di sicurezza. Però, in questo caso, perché il meccanico aveva rivelato le informazioni di cui disponeva? Forse intendeva acquistarsi dei meriti presso di lui, per diventare un suo possibile confidente, nel caso che Ken decidesse di parlare. In tal caso, Feth costituiva per lui il più grave pericolo, poiché era la persona che passava più tempo con Ken, e quindi la più adatta al ruolo della spia. D’altra parte, forse il meccanico era del tutto innocente, anche se il gruppo nel suo complesso si dedicava allo spaccio, e le sue parole potevano essere dettate dal semplice desiderio di aiutarlo. Per ora, sembrava impossibile capire quale di queste ipotesi fosse la più plausibile; Ken accantonò per il momento il problema, etichettandolo come insolubile in base ai pochi dati disponibili.

E poi, l’altro problema chiedeva adesso tutta la sua attenzione. Sul quadro di comando posto davanti a lui, alcune lancette indicatrici si stavano muovendo. Negli ultimi due o tre giorni aveva imparato a leggere perfettamente i comandi, e adesso era in grado di interpretare il significato dei dati forniti dagli strumenti. Per quanto ne capiva, tanto la temperatura quanto la pressione all’interno del vano di carico della sonda, continuavano ad abbassarsi. Il fatto era comprensibile. Non c’era in funzione alcun sistema di riscaldamento, e la pressione ovviamente scendeva Con il progressivo raffreddarsi del gas. Poi gli venne in mente che la temperatura del Pianeta Tre era talmente bassa da congelare il solfo, e che i suoi contenitori di sostanze chimiche si sarebbero ricoperti di uno strato di solfo ghiacciato. Occorreva prendere qualche provvedimento.

In realtà, gran parte dell’abbassamento di temperatura era dovuta alle perdite; il portello del vano di carico, raffreddandosi, si era ristretto quel tanto che bastava a lasciar fuoriuscire lentamente un po d’aria dai bordi. A Ken, tuttavia, questo particolare non venne in mente; cercò l’interruttore opportuno e lo fece scattare, e sotto i suoi occhi la pressione calò bruscamente a zero, a causa dell’apertura del portello. La temperatura non si abbassò: anzi, forse prese a scendere più lentamente di prima, perché adesso i pirometri erano isolati a causa del vuoto, e l’espansione del solfo gassoso nello spazio interplanetario non aveva raffreddato percettibilmente il vano. Sfiorando gli interruttori che comandavano il riscaldamento delle provette, Ken controllò il funzionamento delle piccole fornaci; poi, dopo un attimo di riflessione, lasciò che i campioni di magnesio e di titanio giungessero a temperatura di fusione. Accertatosi in questo modo che fossero liberi, quanto più possibile, da contaminazioni gassose, controllò sui quadranti il loro raffreddamento. Per tutta la durata di questa procedura, la sonda continuò il suo rapidissimo viaggio nello spazio, senza subire rallentamenti a causa dell’imprevisto assorbimento di energia.

Per alcuni minuti Ken attese con un occhio puntato sui quadranti e con l’altro che si posava distratto sui vari oggetti contenuti in quell’immensa stanza. Alla fine si disse che Allmer aveva scelto il momento più opportuno per andare a riposarsi. Ken non era stanco, ma poco alla volta si convinse di dover fare qualcosa di più costruttivo. Pensava che se quella stazione serviva per lo spaccio della droga, la droga stessa non doveva essere ancora arrivata laggiù, e dunque non valeva la pena che lui si mettesse a cercarla; ma intanto che aspettava il suo arrivo, poteva predisporre qualche piano per controllare che cosa sarebbe arrivato con l’altra sonda.

Come primo passo, poteva recarsi all’osservatorio per vedere chi pilotava la navicella radiocomandata. Se la pilotava personalmente Drai, questo particolare avrebbe costituito un punto a favore di Rade; in caso contrario, Ken avrebbe avuto a disposizione un’altra persona a cui chiedere informazioni. Chiaramente, la persona che guidava la sonda utilizzata per il commercio doveva conoscere con esattezza la natura della merce che proveniva dal terzo pianeta: il Pianeta dei Ghiacci, come lo chiamava Ken, tra sé e sé. Con questo, non si vuol dire che pensasse al ghiaccio come a una sostanza ben precisa; non l’aveva mai vista, e se avesse pensato a essa, in qualsiasi caso, l’avrebbe pensata non come ghiaccio, ma come ossido di idrogeno. «Pianeta del Solfo Solido» può forse rendere meglio l’idea del modo in cui si sarebbe espresso.

Ken basava le sue supposizioni sul ricordo di come Drai avesse evitato di nominare la sostanza che otteneva dal pianeta; deciso a trovare almeno un piccolo mattone di dati concreti da aggiungere al suo edificio di informazioni, l’investigatore si avviò verso la rampa a spirale che portava all’osservatorio, al più alto livello della stazione. Nessuno tentò di fermarlo lungo il tragitto, anche se incontrò un paio di operai che lo salutarono sollevando i tentacoli. Si accertò con una spinta che la porta dell’osservatorio non fosse chiusa, ed entrò senza essere fermato da nessuno. Si aspettava che qualcuno, da un momento all’altro, gli chiedesse di allontanarsi, e rimase un po sorpreso nel vedere che nessuno glielo chiedeva. Un attimo più tardi, quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra che regnava nella grande sala, si accorse con delusione che non c’era nessuno.

«Nessun segreto commerciale da trafugare, finora» pensò.

Si accingeva a ritornare indietro per la strada da cui era venuto, quando gli venne in mente che forse avrebbe fatto meglio ad accertarsi che non ce ne fossero veramente. Con una rapida occhiata, scorse alcuni posti dove si potevano nascondere dei documenti; e quei pochi li esaminò in pochi istanti. Erano soprattutto armadietti collocati sotto pannelli di strumenti, e parevano contenere soltanto tabelle dei movimenti dei pianeti di quel sistema. Le giudicò inutili; il loro principale impiego doveva essere per la navigazione, ma Ken non riusciva a immaginare che navigazioni si potessero fare in quel sistema, a parte quelle dirette verso il Pianeta dei Ghiacci. Potevano essere utilizzate per inviare una sonda a esplorare i pianeti, ma la cosa sembrava altrettanto inutile.

Sotto i comandi per la regolazione del raggio c’era un piccolo cassetto che conteneva due elenchi di numeri: anche ora si trattava di coordinate spaziali; ma questa volta Ken le osservò con maggiore attenzione, perché notò che almeno una di quelle serie di numeri non si riferiva a un pianeta: per prima cosa, non conteneva termini ciclici. La serie era breve: sei numeri, costituiti ciascuno da sei a dieci cifre; ma Ken li riconobbe. Il primo corrispondeva allo spettro di una stella faro; i tre successivi erano coseni direttori che davano le tre direzioni del vettore che portava a un’altra stella; il quinto era una distanza. In genere, Ken non sarebbe stato in grado di ricordare e riconoscere le lunghe serie di numeri delle coordinate stellari; ma quelle erano le coordinate del luminoso sole di classe A che riscaldava Sarr, il suo pianeta natale. L’ultimo numero era un’altra distanza, e senza dubbio rappresentava quella tra l’attuale punto d’osservazione e la stella a cui si riferivano le coordinate. Ken conosceva a sufficienza le convenzioni astronomiche standard per esserne certo.

L’altra serie di numeri, dunque, doveva dare la direzione dello stesso sole rispetto a qualche insieme locale di coordinate; ma lui ignorava le coordinate, e i numeri erano troppo lunghi da ricordare. Copiarli era un rischio eccessivo, se dietro quel gruppo di persone c’era qualcosa di più di un semplice segreto commerciale. Per lunghi istanti Sallman Ken rimase immobile a riflettere; poi, all’improvviso, infilò di nuovo il foglio nel cassetto, lo richiuse e lasciò l’osservatorio con tutta la rapidità compatibile con la cautela. Dato che in quella stanza c’erano delle informazioni pericolose, nessuno doveva sospettare che lui era rimasto laggiù più del minimo necessario. Sarebbe stato preferibile non essere visto, ma i due meccanici lo avevano scorto mentre saliva sulla rampa. Si diresse verso la propria stanza con l’intenzione di fingere di riposarsi, ma il suo cervello lavorava furiosamente.

Era riuscito a conoscere la distanza della sua stella d’origine. Evidentemente, il viaggio verso quel sistema, che era durato ventidue giorni, non era stato effettuato seguendo la rotta più breve; la distanza vera ammontava a soli duecentododici parsec. Un punto a favore di Rade: per un semplice viaggio commerciale sarebbe stata una precauzione inutile e costosa, ma per un’attività illegale sarebbe stata la norma.

Non conosceva la direzione che andava da quel sistema alla sua stella d’origine. Ma questo aveva poca importanza; quel che gli era stato chiesto dall’Ufficio Narcotici era la direzione opposta, in coordinate galattiche, ma tra le due serie di numeri c’era solo un collegamento arbitrario, che era più complesso da ricordare della direzione stessa.

Naturalmente, il faro elencato nelle coordinate stellari doveva essere visibile da laggiù; ma lui non si sentiva in grado di individuarlo, senza strumenti. Gli strumenti erano disponibili, certo, ma non era consigliabile farsi sorprendere a usarli. No, la ricerca di quelle direzioni doveva essere l’ultimo lavoro da compiere nella stazione.

A ogni modo, un dato lo aveva trovato, e la teoria di Rade diventava sempre più probabile. Sallman Ken si disse che per quel giorno si era guadagnata la giornata, e in base a tale conclusione si concesse il giusto riposo.

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