IV

Blaine attraversò l’ingresso massiccio ed ornatissimo che dava sulla piazza; e in circostanze normali si sarebbe fermato per un attimo, a godersi il momento migliore della sua giornata. I lampioni erano nuclei di luce morbida, e le fronde frusciavano nella brezza della sera. I passanti sembravano ombre disincarnate, e le macchine scivolavano via, in preda ad una fretta ansiosa, ma silenziosamente, del tutto silenziosamente. E sopra ogni cosa era librata la foschia magica di una notte d’autunno.

Quella sera non si fermò. Non aveva tempo di fermarsi.

Otto minuti, adesso. Soltanto otto piccoli, luridi minuti.

Cinque isolati per arrivare alla sua macchina sistemata nel parcheggio, e non aveva il tempo di farcela. Non poteva correre quel rischio. Non poteva prendere la macchina.

E poi c’era qualcosa d’altro… c’era Kirby Rand. Perché proprio quella sera, Rand s’era affacciato sulla porta e lo aveva invitato a bere?

Non vi era nulla che potesse identificare con precisione, ma provava un senso di vaga inquietudine, per la sua conversazione con Rand. Era come se quell’uomo avesse voluto rubargli il tempo, come se avesse sentito che c’era qualcosa che non andava.

Ma ormai era passata, si disse Blaine. Era stata una sfortuna, naturalmente: ma niente di disastroso. Anzi, poteva darsi che fosse addirittura un vantaggio per lui. Se avesse preso la sua macchina, l’Amo avrebbe saputo esattamente dove cercarlo. Ma, costretto a rimanere in città, avrebbe potuto scomparire nel giro di dieci minuti.

Si avviò a passi decisi lungo il marciapiede, e prese la direzione opposta a quella del parcheggio.

Dammi altri dieci minuti, disse fra sè, come se fosse una preghiera. Con un vantaggio di dieci minuti, aveva una dozzina di posti dove nascondersi… nascondersi per prendere un pò di respiro, per riflettere, per elaborare qualche piano. Perché adesso, senza la macchina, non aveva più nessun piano.

E avrebbe avuto quei dieci minuti di vantaggio, ne era sicuro, se avesse avuto la fortuna di non incontrare nessuno che lo riconoscesse.

Sentì il terrore crescere in lui mentre camminava, un terrore che saliva come una bava schiumante dentro al suo cranio. E quel terrore non era suo: non era un terrore umano. Era nero ed abissale, un terrore urlante e graffiante che aveva origine in una mente che non riusciva più a sottrarsi agli orrori di un pianeta alieno, che non poteva più rannicchiarsi dentro ad un cervello alieno, che trovava insopportabile affrontare una situazione spaventosa resa quasi intollerabile da una assenza totale di comprensione.

E Blaine lottò contro quel terrore, digrignando mentalmente i denti, e sapendo con una lama sottile e acuta di comprensione che non era lui stesso, ad essere incappato in quel terrore, ma l’altro, l’altro che stava nascosto nel suo cervello.

E, mentre vi pensava si rese conto che non riusciva quasi a separare le due entità… che erano legate insieme, inesorabilmente, che condividevano uno stesso destino.

Cominciò a correre, ma poi si costrinse a fermarsi, con l’ultima goccia, di decisione che rimaneva in lui. Perché non doveva correre: non doveva attirare l’attenzione, in nessun caso.

Lasciò il marciapiede e urtò contro il tronco di un grosso albero, e le sue mani si tesero per afferrarlo e per tenerlo stretto, come se il semplice contatto con qualcosa di terrestre potesse dargli un pò di forza.

Rimase lì, contro l’albero, aggrappandovisi come meglio poteva… E lentamente il terrore incominciò a defluire nei recessi più interni del suo cranio, strisciò di nuovo nella sua tana, nascondendosi di nuovo, pietosamente.

Va tutto bene, disse alla creatura. Resta dove sei. Non preoccuparti. Lascia fare a me. Ci penserò io a sistemare tutto.

L’essere aveva tentato di andarsene. Aveva fatto di tutto per liberarsi e, poiché non c’era riuscito, adesso si era ritirato nell’unico angoletto sicuro del recinto in cui si era trovato.

Basta, pensò Blaine. Non posso sopportare un’altra cosa come questa. Se fosse accaduto di nuovo, lo sapeva, lui non avrebbe potuto resistere. Non avrebbe potuto impedire a se stesso di fuggire via da quel terrore, balbettando e urlando. E per lui sarebbe stata la fine.

Lasciò l’albero e rimase ritto, irrigidito, costringendosi a rimanere così, per lottare contro la debolezza, contro le gambe che si piegavano. Sentiva l’umidità gelida del sudore che lo ricopriva: e ansimava come se avesse appena compiuto una gara di corsa.

Come poteva fuggire, come poteva nascondersi, si chiese: come poteva andarsene, con quell’ossessione addosso? Già da solo sarebbe stato terribile. Non poteva sperare di farcela, se doveva trascinarsi dietro un alieno terrorizzato e piangente.

Ma non aveva la possibiltà di liberarsi dell’alieno; non c’era modo, per il momento, di toglierselo di dosso. Era legato a lui, e doveva cercare di cavarsela tenendolo in sè, come poteva.

Si allontanò dall’albero e tornò ad avviarsi lungo il marciapiede, ma più lentamente e con minore sicurezza, cercando di frenare il tremito che lo dominava, cercando di convogliare un pò di forza nelle gambe vacillanti. E, all’improvviso, si accorse di avere una fame terribile. E la cosa più strana, si disse, era che non se ne fosse accorto prima, perché, a parte quel bicchiere di latte, non aveva preso cibo da più di trenta ore. Aveva riposato: un riposo che equivaleva ad un sonno profondo e ininterrotto… ma non aveva ingerito neppure un boccone.

Le macchine scivolavano via, accanto a lui, facendo bisbigliare i loro aerogetti, con il mormorio soffice e sommesso dei motori nucleari come sottofondo.

Una macchina si fermò accanto al marciapiedi, proprio davanti a lui. Qualcuno si affacciò dal finestrino.

«Shep,» disse il qualcuno. «Che fortuna! Speravo proprio di riuscire a trovarti!»

Per un attimo, Blaine rimase immobile, in preda al panico, e sentì il terrore alieno che ricominciava a invaderlo, ma lo ricacciò nell’angolo della sua mente, con tutta la forza che riuscì a raccogliere.

Cercò di dare un tono calmo alla propria voce, lottò per mantenerla normale.

«Freddy,» disse. «È da tanto tempo che non ci vediamo.»

Perché era Freddy Bates, un uomo che non aveva un’occupazione, in apparenza, anche se si sapeva, vagamente, che rappresentava qualcuno, in quel posto, dove quasi tutti erano politicanti o diplomatici, o agenti segreti.

Freddy aprì la portiera.

«Sali,» disse. «Andiamo a una festa.»

E questo poteva andar bene, pensò Blaine. Questa poteva essere un’occasione buona. Senza dubbio, era molto meglio di ciò che aveva in mente lui. L’Amo non sarebbe mai riuscito a ritrovarlo in una festa, neppure in un milione di anni. E poi c’era un altro fattore: era molto facile andarsene, da una festa. Ci sarebbe stata tanta gente che nessuno avrebbe notato quando uno se ne andava. Era quasi sicuro che avrebbe trovato almeno una macchina con la chiavetta dimenticata. E poi, ci sarebbe stato da mangiare… e lui aveva bisogno di mangiare.

«Andiamo,» disse Freddy. «È una delle feste di Charline.»

Blaine salì in macchina, si abbandonò sul sedile. La portiera si richiuse con un sibilo, e Freddy guidò verso una delle corsie del traffico.

«Ho detto a Charline,» disse Freddy, in tono discorsivo, «che una festa non può essere una vera festa, se non c’era anche qualcuno dell’Amo. Mi sono offerto come volontario per andare in giro a dare la caccia ad un personaggio dell’Amo.»

«Hai preso una bella cantonata,» gli rispose Blaine, bruscamente. «Io non sono un personaggio.»

«Però,» disse Freddy, «voi viaggiatori avete tante storie orrende da raccontare.»

«Ma sai benissimo,» rispose Blaine, «che noi non le raccontiamo mai.»

Freddy fece schioccare la lingua.

«La segretezza,» disse.

«Ti sbagli,» disse Blaine. «Ma ci sono dei regolamenti, delle disposizioni.»

«Ma certo. Ed è proprio per questa ragione che in città le voci si diffondono con la violenza di un incendio. Se nel pomeriggio succede qualcosa, quassù sulla collina, a sera nei quartieri bassi tutti lo raccontano con la massima dovizia di particolari.»

«Di solito inesatti.»

«Beh, forse non nella versione più esatta e più sensazionale, ma almeno in linea di principio…»

Blaine non rispose. Si sistemò meglio sul sedile e girò la testa verso il finestrino, per guardare le strade illuminate che sfrecciavano via; e, al di sopra delle strade, gli edifici massicci che formavano il complesso dell’Amo. E si stupì di quella vista sempre prodigiosa, che dopo tanti anni riusciva ancora a dargli un brivido. Sapeva che non era quella vista in se stessa, perché ce ne erano di più grandiose, al mondo: era il significato favoloso, che avvolgeva l’intera città come un alone.

Perché quella, pensò, di fatto, anche se non di nome, era la capitale della Terra. Qui stavano la speranza e la grandezza del futuro, il legame che univa l’umanità agli altri mondi perduti nelle profondità dello spazio.

E lui stava abbandonando tutto questo.

Per quanto sembrasse incredibile, con tutto il suo amore e tutta la sua devozione e tutta la sua fede, lui ne stava fuggendo, come un coniglio terrorizzato.

«E che cosa avete intenzione di farne?» gli domandò Freddy.

«Di che cosa?»

«Di tutte le conoscenze, di tutti i segreti, di tutti i concetti che continuate a rastrellare.»

«Non saprei,» disse Blaine.

«Ci sono reggimenti interi di scienziati che lavorano allegramente,» disse Freddy. «Corpi interi di tecnologi che scoprono prospettive nuove. Di quanto siete più avanti di noi… di un milione d’anni, più o meno?»

«Stai parlando con l’uomo meno adatto,» disse Blaine. «Io non so niente. Faccio il mio lavoro e basta. E se stai cercando di punzecchiarmi, dovresti sapere bene che è inutile.»

«Scusami,» disse Freddy. «Per me è una specie di ossessione.»

«Per te e per un milione d’altre persone. Curiosare e spettegolare su quello che fa l’Amo è uno dei passatempi preferiti in tutto il mondo.»

«Prova un pò a vedere le cose dal mio punto di vista,» disse Freddy, ansiosamente. «Io me ne sto al di fuori. Non posso dare neppure un’occhiatina all’interno. Vedo questa gigantesca mostruosità, questa immane pietra di paragone, questo progetto sovrumano, e provo una grande invidia per tutti quelli che ci sono dentro, la sensazione di essere un escluso, un individuo di second’ordine. E ti chiedi perché il mondo odia tanto l’Amo?»

«Davvero?»

«Shep,» disse Freddy, in tono molto solenne, «tu dovresti guardarti attorno, qualche volta.»

«Non ne provo un bisogno particolare. Ne sento già abbastanza senza bisogno di guardarmi attorno. Ma quello che volevo chiederti è: la gente odia davvero l’Amo?»

«Credo proprio di sì,» disse Freddy. «Forse non qui. Tutte le chiacchiere che corrono in questa città sono una questione di moda. Ma prova ad andare nelle province. Là l’odiano davvero.»

Adesso le strade non erano più tanto così piene di traffico, e i lampioni non erano più tanto risplendenti. C’erano meno palazzi e meno ville.

«Chi c’è, da Charline?» chiese Blaine.

«Oh, la solita gente,» disse Freddy. «Più il solito zoo. Lei è un pò matta, lo sai. Senza inibizioni, e quasi completamente priva di senso sociale. Ci si può trovare di tutto, a casa sua.»

«Sì, lo so,» disse Blaine.

L’alieno si agitò dentro alla sua mente: ed era come un agitarsi nel sonno.

Tutto bene, gli disse Blaine. Mettiti tranquillo e dormi. Ce l’abbiamo fatta. Ce ne stiamo andando.

Freddy fece voltare la macchina, lasciò la strada principale, e prese una via secondaria che saliva, tortuosamente, in un canyon. L’aria diventò più fredda e pungente. Nell’oscurità, all’esterno, si potevano sentire gli alberi che mormoravano tra loro, e c’era il profumo dei pini.

La macchina descrisse una curva improvvisa, e la casa splendeva lassù, su di un terrapieno… una casa moderna, aggrappata alla parete del canyon, come un nido di rondine.

«Bene,» disse Freddy, allegramente. «Siamo arrivati.»

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