Rand aveva detto «Ci vediamo», quando gli aveva stretto la mano ed era entrato nel transo. L’aveva detto in tono allegro e molto sicuro. E aveva avuto proprio tutti i motivi, pensò tristemente Blaine, perché aveva già provveduto a ogni cosa. Sapeva esattamente quello che stava per succedere, perché aveva preparato un piano perfetto… l’unico sistema per catturare un uomo di cui si aveva un po’ paura, perché non si sapeva esattamente che cosa ci si potesse aspettare, da lui.
Blaine giaceva sul pavimento, lungo, disteso, tenuto disteso e immobile dalla vestaglia che lo avvolgeva… Però, naturalmente, non era una vestaglia. Era, c’era da giurarlo, una di quelle bizzarre scoperte che l’Amo, per propria comodità, preferiva tenere accuratamente nascoste: perché prevedeva, senza dubbio, di utilizzarle in casi molto speciali.
Blaine frugò la propria memoria e non vi trovò nulla… nulla che alludesse neppure lontanamente ad una cosa di quel genere, forse una specie di parassita, capace di starsene immobile, tranquilla e silenziosa per un tempo indeterminabile, magari, ma che ritornava viva e pericolosissima se veniva posta in contatto con qualche cosa di caldo e di vivo.
Adesso l’aveva catturato, e forse fra un po’ avrebbe cominciato a nutrirsi di lui. o a mettere in pratica ciò che intendeva fare di lui. Era inutile dibattersi e lottare, lo sapeva, perché da ogni movimento del suo corpo, quella cosa lo avrebbe avvinto più strettamente.
Frugò di nuovo nella propria mente, cercando qualcosa che si riferisse alla mostruosità che lo avvolgeva. E all’improvviso trovò un luogo (poteva vederlo, quel luogo), un pianeta cupo e sconvolto, con foreste aggrovigliate e abitanti bizzarri che svolazzavano e strisciavano e si trascinavano. Era un luogo di orrore, quello che lui scorgeva soltanto vagamente attraverso le nebbie del ricordo: era assolutamente certo che quel ricordo non era suo.
Non era mai stato là, e non aveva mai parlato con qualcuno che c’era stato, anche se forse, poteva trattarsi di qualcosa che ricordava di avere visto nel dimensino… in qualche ora oziosa di molti anni prima: ed il ricordo era rimasto sepolto profondamente nella sua memoria insospettato fino a quel momento.
L’immagine diventò più vivida e più chiara, come se da qualche parte, dentro al suo cervello, qualcuno stesse regolando una lente per offrirgli una visione più limpida: e adesso poteva vedere tutti i particolari che agghiacciavano la mente, le forme di vita che popolavano quella giungla caotica. Erano orrende e oscene e strisciavano e serpeggiavano e avevano una ferocia fredda e studiata, la crudeltà dell’indifferenza e dell’ignoranza, spinte soltanto da una fame e da un odio egualmente primordiali.
Blaine fu agghiacciato dall’orrore abissale di quel luogo, perché gli sembrava quasi di essere veramente lì, come se una parte di lui continuasse a giacere sul pavimento, davanti al camino, mentre l’altra metà si trovava, nella realtà più autentica, dentro a quella giungla orribile.
Gli parve di udire un rumore: o meglio, quell’altra metà di lui ebbe l’impressione di udire un rumore, e alzò lo sguardo verso qualcosa che avrebbe potuto essere un albero, anche se era troppo nodoso, troppo irto di spine e troppo maligno per essere un albero vero e proprio; e nell’alzare lo sguardo vide la vestaglia, che pendeva da un ramo, con la polvere di diamanti triturati che scintillava sulla pelliccia, e si accingeva a lasciarsi cadere su di lui.
Urlò, o almeno gli sembrò di urlare, e il pianeta ed i suoi abitanti sbiadirono e scomparvero, come se la mano che stava dentro al suo cervello avesse mosso la lente in modo da mettere fuori fuoco la visuale.
Blaine era ritornato, intero, nel mondo del camino e del magazzino, con il transo che stava là, in un angolo. La porta che dava sul negozio si aprì, ed entrò Grant.
Grant chiuse la porta dietro di sè, lentamente e con cura. Poi si voltò di scatto e rimase lì, in silenzio, immenso e massiccio, a guardare l’uomo sdraiato sul pavimento.
«Signor Blaine», disse, sottovoce. «Signor Blaine, è ancora sveglio?»
Blaine non rispose.
«Ha gli occhi aperti, signor Blaine. Le è successo qualcosa, a volte?»
«Niente», rispose Blaine. «Me ne stavo semplicemente qui sdraiato a pensare».
«Pensieri piacevoli, signor Blaine?»
«Sì, molto piacevoli».
Grant venne avanti lentamente, silenziosamente come un gatto, come se inseguisse qualcosa. Arrivò alla tavola e prese la bottiglia, se la portò alla bocca e bevve, gorgogliando.
Poi depositò la bottiglia.
«Signor Blaine, perché non si alza? Potremmo starcene seduti a parlare per un po’, e a bere un paio di bicchierini. Non mi capita spesso di fare quattro chiacchiere con la gente. Vengono qui a comprare, naturalmente, ma non parlano con me più di quanto sia strettamente indispensabile».
«No, grazie», disse Blaine. «Sto molto comodo, così».
Grant si scostò dalla tavola, e andò a sedersi su una delle poltrone accanto al cammino.
«È stato un vero peccato», disse, «che lei non sia ritornato all’Amo con il signor Rand. L’Amo è un posto molto interssante».
«Ha proprio ragione», rispose Blaine: rispondeva automaticamente, senza prestargli molta attenzione.
Perché adesso sapeva… Sapeva dove aveva trovato quel ricordo, dove aveva raccolto l’immagine mentale di quell’altro pianeta. L’aveva tratto dalle cataste disordinate di informazioni che aveva ricevuto dal Rosa. Lui in persona, naturalmente, non aveva mai visitato quel pianeta. Ma il Rosa l’aveva visitato.
E quel ricordo non era semplicemente l’immagine del luogo, proiettata come per mezzo d’una lanterna magica. C’era anche tutto uno schedario di dati relativi al pianeta e alle forme di vita che lo abitavano. Ma era ancora in disordine, non erano ancora stati suddivisi, ed era molto difficile orientarsi.
Grant si appoggiò alla spalliera della poltrona con un sorrisetto appena appena maligno.
Poi allungò una mano e picchiettò le dita sulla vestaglia, che emise un suono simile a quello d’un tamburo smorzato.
«Bene», domandò, «le piace, signor Blaine?»
«Glielo farò sapere», gli rispose Blaine, «quando riuscirò a metterle le mani addosso».
Grant si alzò dalla poltrona e ritornò alla tavola, girando attorno a Blaine. Beffardamente. Prese la bottiglia, se la portò alla bocca e bevve un altro lungo sorso.
«Non ci riuscirà, a mettermi le mani addosso», disse, «perché fra un momento la spingerò dentro quel transo laggiù, e la rispedirò diritto all’Amo».
Un altro sorso poi depose la bottiglia.
«Non so che cosa abbia fatto», disse. «Non so perché la vogliano. Ma eseguo gli ordini».
Tornò a sollevare a mezzo la bottiglia, poi cambiò idea. La spinse al centro della tavola, si avvicinò a Blaine e restò lì, a torreggiare sopra di lui.
C’era un’altra immagine di un altro pianeta, e c’era un essere che camminava lungo qualcosa che avrebbe potuto essere una strada. L’essere era completamente diverso da tutti quelli che Blaine aveva avuto occasione di vedere. Sembrava un cactus ambulante, ma non era affatto un cactus, e con ogni verosimiglianza non era neppure un vegetale. Ma né quell’essere né la strada erano molto importanti. Quello che contava era il fatto che alle calcagna del cactus, trotterellando goffamente su quella che poteva essere una strada, c’erano una dozzina di vestaglie.
Cani da caccia, pensò Blaine. Il cactus era un cacciatore, e quelli erano i suoi cani. Oppure era un trapper, e quelle erano le sue trappole. Erano vestaglie, importate da quel pianeta tutte giungle, e addomesticate, forse catturate da qualche viaggiatore spaziale abbastanza resistente per sopportare le radiazioni stellari, e portare su quel pianeta, per venire scambiate con qualche altra merce di valore.
Forse pensò disperatamente Blaine, era proprio da quel secondo pianeta che la vestaglia avvolta strettamente attorno a lui era stata portata all’Amo.
E c’era anche qualche cosa d’altro che martellava il suo cervello. Una specie di frase, una frase molto aliena, forse nel linguaggio del cactus. Era barbara e per pronunciarla bisognava torcere la lingua, e non aveva senso, ma mentre Grant si chinava con le mani protese per afferrarlo e sollevarlo, Blaine urlò quella frase con tutte le sue forze.
E mentre urlava, la vestaglia si staccò. Non lo teneva più bloccato. Blaine rotolò via, con una poderosa torsione del corpo, verso le gambe dell’uomo che si stava chinando verso di lui.
Grant finì lungo disteso, con la faccia contro il pavimento, lanciando un ruggito di rabbia. Blaine, strisciando freneticamente sulle mani e sulle ginocchia, si liberò e balzò in piedi, sfrecciò al di là della tavola.
Grant si rialzò dal pavimento. Il sangue gli sgocciolava lentamente dal naso, che aveva battuto sull’impiantito. Una mano era spellata, e perdeva sangue dalle nocche.
Mosse un rapido passo in avanti, e il suo volto era alterato da una duplice paura… la paura di un uomo che era riuscito a liberarsi della stretta della vestaglia, e la paura di avere fallito il proprio colpo.
Poi balzò, a testa bassa, a braccia protese, con le dita aperte, per afferrare Blaine. Era grande e grosso e poderoso, ed era spinto da una disperazione estrema che lo rendeva doppiamente pericoloso, perché non pensava neppure ai rischi che lo potevano minacciare.
Blaine girò su se stesso, spostandosi… ma non riuscì a spostarsi abbastanza. Una delle mani protese di Grant gli afferrò la spalla, non riuscì a tenere la presa: le dita tirarono, artigliando furiosamente, ma si chiusero sulla camicia di Blaine, che si lacerò con una specie di stridio sommesso.
Grant si girò di scatto, e si scagliò di nuovo in avanti, e un ringhio gli saliva dalla gola. Blaine, con i tacchi piantati saldamente sul pavimento, sferrò un pugno fulmineo, lo sentì centrare la carne e le ossa, sentì un brivido che scorreva nel corpo di Grant, mentre l’uomo indietreggiava, vacillando.
Blaine colpì ancora ed ancora, seguendo Grant: erano colpi il cui urto saliva dalle sue ginocchia, e arrivavano a segno con un impatto che gli intorpidiva tutto il braccio, dal gomito in giù… colpi che scuotevano Grant e lo facevano barcollare e lo ricacciavano indietro, spietatamente, inesorabilmente.
Non era la collera che animava Blaine, anche se in lui c’era collera: e non era paura e non la sicurezza di sè: era la semplice, fredda logica. Quella era la sua unica possibilità; doveva finire l’uomo che gli era davanti, altrimenti sarebbe stata finita per lui.
Era riuscito a disorientarlo con quel primo colpo fortunato, e non poteva fermarsi. Poiché non era altrettanto massiccio, avrebbe perduto tutto il suo vantaggio, se avesse lasciato che Grant riacquistasse l’equilibrio, se gli avesse lasciato la possibilità di ripiombargli addosso o di sferrargli un pugno.
Grant vacillava pazzamente, con le mani che artigliavano frenetiche l’aria: era ormai stordito dai colpi. Deliberatamente, senza pietà, Blaine mirò il mento.
Il colpo arrivò a segno, con un tonfo sommesso, e la testa di Grant si rovesciò all’indietro, ripiegandosi da un lato. Il suo corpo diventò una cosa inerte, quasi priva di muscoli e di ossa, che si piegava su se stessa. Grant si afflosciò e cadde sul pavimento, vi giacque come un pupazzo di stoffa privato della forza interiore della segatura.
Blaine lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Sentiva il dolore pungente dei tagli nelle nocche delle dita, l’intorpidimento sordo e tormentoso che gli invadeva i muscoli esausti.
E poi lo colse un vago senso di sbalordimento… gli sembrava strano che gli fosse riuscito di fare una cosa simile: lui, con i suoi pugni, era riuscito a ridurre in un fantoccio sanguinante quell’uomo grande e grosso.
Aveva centrato il primo colpo, e quella era stata la sua fortuna, pura e semplice fortuna. E aveva trovato la chiave che faceva disserrare la vestaglia, e anche quella era stata una semplice fortuna?
Rifletté, e comprese che non era stata fortuna: era stata una buona, solida informazione ripescata dallo schedario di fatti scaricato nel suo cervello quando l’essere di quel pianeta lontano cinquemila anni-luce aveva scambiato la propria mente con la sua. Quella frase era un ordine, che imponeva alla vestaglia di togliere le grinfie dalla preda che aveva intrappolato. Durante uno dei suoi vagabondaggi mentali in mondi inimmaginabili, il Rosa aveva assorbito un quantitativo enorme di informazioni relative al popolo dei cactus. Dotato di una tremenda facoltà di discernimento, era riuscito a selezionare l’unico fatto, in apparenza privo di importanza, che in un dato momento aveva acquistato un enorme valore come fattore di sopravvivenza.
Blaine continuò a guardare Grant: e l’uomo non dava segno di rinvenire.
E adesso cosa doveva fare? si chiese Blaine.
Doveva andarsene di lì, naturalmente, e il più presto possibile. Perché fra poco, indubbiamente, qualcuno dell’Amo sarebbe uscito dal transo, a chiedere come mai lui non era stato ancora recapitato a destinazione.
Sarebbe fuggito di nuovo, si chiese Blaine, amaramente. Fuggire era la sola cosa che sapeva fare bene. Ormai erano settimane che continuava a fuggire, e a quanto sembrava, la sua fuga era destinata a non avere mai fine.
Un giorno o l’altro, lo sapeva, avrebbe dovuto smettere di fuggire. Avrebbe dovuto fermarsi da qualche parte, per resistere, se non per nessun altra ragione, per salvare la propria dignità, il rispetto verso se stesso.
Quel momento, però, non era ancora venuto. Quella notte lui sarebbe fuggito di nuovo: ma questa volta la sua fuga avrebbe avuto uno scopo preciso. Questa volta avrebbe guadagnato qualcosa, finalmente, dalla sua fuga.
Si girò per prendere la bottiglia di liquore posata sulla tavola: e incespicò nella vestaglia, che stava muovendosi a lenti sobbalzi sul pavimento. Le sferrò un calcio con rabbia, e la vestaglia scivolò via, debolmente, cadde e si ammucchiò su una specie di grumo lucente nell’angolo, accanto al cammino.
Blaine afferrò la bottiglia nel pugno, e attraversò lo stanzone, si diresse verso le merci accatastate nella sezione destinata a magazzino.
Adocchiò una balla di merce, e la tastò: era morbida e secca. Vi versò sopra il contenuto della bottiglia, e poi scaraventò la bottiglia vuota in un angolo della stanza.
Ritornò al camino, sollevò il parafuoco e lo gettò via, prese la paletta e raccolse un mucchietto di braci fiammeggianti. Andò a scaricare quelle braci sulla balla di merce intrisa di liquore, poi gettò via la paletta, e indietreggiò.
Piccole fiamme azzurrine avvolsero la balla, lingueggiando. Si diffusero e ingrandirono, crepitando.
Tutto bene, pensò Blaine.
Entro cinque minuti, l’edificio sarebbe stato avvolto dalle fiamme. Il magazzino si sarebbe trasformato in un inferno, e niente avrebbe potuto impedirlo. Il transo si sarebbe sfasciato e fuso, e la strada che portava fino all’Amo sarebbe stata chiusa.
Si chinò afferrò Grant per il collo della camicia e lo trascinò verso la porta. Aprì l’uscio e tirò fuori l’uomo, lo portò in cortile, ad una decina di metri dall’edificio.
Grant gemette pesantemente e cercò di sollevarsi sulle mani e sulle ginocchia, poi tornò a ricadere, esausto, al suolo. Blaine si chinò, lo trascinò via, per altri tre o quattro metri: poi lo lasciò andare. Grant mugolò e gemette e si agitò, ma era troppo sfinito e dolorante per potersi rialzare.
Blaine si diresse verso il vicoletto e rimase lì, per un minuto, a osservare. Le finestre della Stazione di Scambio incominciavano a riempirsi del bagliore rosso delle fiamme, ed era una vista molto soddisfacente.
Blaine si voltò e si avviò a passi leggeri, per uscire dal vicoletto.
E adesso, si disse, era proprio il momento più adatto per fare visita a Finn. Fra pochi istanti la città sarebbe stata sconvolta per l’incendio della Stazione di Scambio, ed i poliziotti avrebbero avuto troppo da fare per perdere tempo con un uomo che se ne andava in giro nonostante il coprifuoco.