XIII

Si diressero verso nord-est, continuando a viaggiare di giorno e di notte. Ma non era che continuassero ad andare: metà del tempo, in effetti, andava sprecato nelle soste forzate. Il camion era un autentico rottame. Lottarono con il motore capriccioso, lottarono con i pneumatici vecchi e logori, dovettero sistemare più volte lo chassis tremolante… e percorsero anche una certa distanza, ma non gran che.

Le strade erano pessime, come ormai erano tutte le strade del mondo. Da molti anni, ormai, era svanito il concetto antico delle autostrade liscie, a superficie dura e quasi lucidata, perché non erano più necessarie. A quei tempi il traffico era costituito quasi esclusivamente di automobili e di camion che erano per metà aeroplani; non occorrevano buone strade, per veicoli che quando viaggiavano non toccavano mai il suolo.

La superficie delle vecchie autostrade era spezzata e piena di buche. Era un grosso guaio per i pneumatici, ed i pneumatici non erano in buone condizioni: e, anche se Riley avesse potuto permettersi di comprarli, trovare pneumatici nuovi era tutt’altro che facile. La richiesta per le gomme del tipo adatto a quel vecchio camion scassato era scesa fino a ridursi praticamente a zero, e bisognava essere molto fortunati per riuscire a trovarle.

E c’era anche un’altra preoccupazione continua: bisognava trovare la benzina per fare il pieno. Non c’erano più distributori e stazioni di servizio: non ce n’erano più da circa cinquant’anni. Non c’era bisogno di distributori e di stazioni di servizio, quando i veicoli viaggiavano grazie all’energia atomica. Perciò, in ogni paese, andavano in cerca di consorzi agrari e dei depositi di carburante della cooperativa, perché in generale le macchine agricole funzionavano ancora a benzina.

Dormivano quando potevano, sonnecchiando quando capitava l’occasione. Mangiavano spesso mentre viaggiavano, di solito sandwiches e ciambelle comprate durante una sosta, e bevevano il caffè che portavano con loro in una vecchia borraccia di latta. Avanzarono così sulle antiche autostrade, che adesso venivano usate dai veicoli moderni soltanto perché quelle autostrade erano state realizzate con criteri validi, e rappresentavano ancora la via più breve e più comoda per andare da una località all’altra.

«Non avrei mai dovuto accettare di fare questo trasporto», disse Riley. «Ma c’era da guadagnare bene, e non mi vergogno di dirti che ho bisogno di quattrini».

«Probabilmente ce la farai benissimo», lo rassicurò Blaine. «Magari arriverai con un paio di giorni di ritardo, ma vedrai che ce la faremo».

«Se il camion non si sfascia lungo la strada».

«È già abbastanza sfasciato così com’è», gli fece osservare Blaine.

Riley si asciugò la faccia con un fazzoletto sbiadito, che un tempo era stato rosso vivo.

«Non è solo per il camion», disse. «C’è anche il logorio del materiale umano».

Riley era un uomo spaventato… e quella paura, Blaine lo aveva notato, gli arrivava fin dentro al midollo delle ossa.

E, mentre osservava quell’uomo, Blaine si disse che non si trattava semplicemente del meccanismo emotivo di un individuo spaventato dall’orribile patrimonio di malignità e di malvagità, dal quale, poiché vi aveva sempre creduto per tutta la vita, era in grado di evocare senza il minimo sforzo le fantasie terrificanti di un’epoca passata. Si trattava di qualcosa di più: di qualcosa di più immediato della paura degli incubi notturni.

Per Blaine, quell’uomo era una stranezza, un esemplare umano uscito chissà come da un museo medioevale: un uomo che aveva paura del buio e delle forme immaginarie che lo popolavano: un uomo che riponeva tutta la sua fiducia in un segno cabalistico e in un fucile caricato a pallettoni d’argento. Aveva sentito parlare spesso di individui del genere, ma non ne aveva mai incontrato uno. Se anche ce n’erano alcuni come lui, fra la gente che frequentava l’Amo, avevano sempre nascosto gelosamente le loro paure dietro una maschera disinvolta e sofisticata.

Ma, se Riley era una curiosità per Blaine, anche Blaine era una curiosità per lui.

«Non hai paura?» gli chiedeva.

Blaine scrollava il capo.

«Non ci credi, a queste cose?»

«A me», rispondeva allora Blaine, «sono sempre sembrate delle sciocchezze».

Riley protestava.

«Non sono sciocchezze, amico. Posso assicurartelo. Ho conosciuto troppa gente: ho sentito troppe storie, e so che sono vere. C’era un vecchio, lassù nell’Indiana, quand’ero bambino. Lo hanno trovato impigliato in una staccionata, con la gola squarciata. E attorno al cadavere c’erano tracce e puzzo di zolfo».

E se non era quella la storia che raccontava, era un’altra, altrettanto sanguinosa, altrettanto mistica, altrettanto tenebrosa.

E che cosa si poteva dire? si chiedeva Blaine. Come si poteva trovare una spiegazione? Perché credere, o più esattamente voler credere, faceva parte della natura umana. Non aveva origine in assoluto nella matrice della situazione attuale, ma nel sangue e nelle ossa dell’Uomo, fin dall’epoca in cui viveva nelle caverne. C’era, nell’anima dell’Uomo, un certo fascino mortale, un’attrazione per tutto ciò che era macabro. E la situazione, così com’era era stata afferrata volutamente, quasi avidamente, da uomini per i quali il mondo era diventato un posto troppo addomesticato e tranquillo, senza altri terrori, oltre al terrore della forza bruta delle armi atomiche e dell’agghiacciante incertezza di un potere retto da uomini instabili.

Era cominciato tutto in un modo molto innocente, quando la gente aveva afferrato i nuovi principi della PK per ricavarne un divertimento ed una soddisfazione. Da un giorno all’altro, in pratica, la realtà dei poteri mentali aveva sopraffatto il mondo. I night-club avevano cambiato nome, erano sopravvenute mode stupefacenti, nuove canzoni apprezzate dagli adolescenti, la televisione si era buttata nei film dell’orrore, e gli editori avevano sfornato miliardi di volumi dedicati al soprannaturale. C’erano stati nuovi culti, e culti antichissimi erano tornati a fiorire. I tavolini a tre gambe erano ritornati in auge, dopo due secoli di oblio, dalle nebbie di un’epoca antecedente in cui la gente aveva giocato con gli spettri per divertirsi, e poi aveva rinunciato, quando si era accorta che non si poteva giocare con il mondo degli spettri. O si credeva o non si credeva: non esistevano vie di mezzo.

C’erano stati i ciarlatani, e c’erano stati uomini sinceri, notevolmente illusi, che da quelle cose avevano guadagnato celebrità e ricchezze. Le fabbriche avevano sfornato carrettate di novità e di congegni adatti a seguire la nuova moda, o il nuovo hobby, o il nuovo studio o la nuova religione… il termine esatto da applicare andava scelto in un rapporto direttamente proporzionale alla sincerità e alla serenità con cui vi si impegnavano i singoli individui.

Ed era stato un errore, naturalmente: perché la cinetica paranormale non era affatto soprannaturale. E non era neppure macabra, non aveva nulla a che fare con gli spettri o con i diavoli, o comunque con le orde di mostri dimenticati che erano tornati allegramente alla carica delle tenebre del Medioevo. .Era, invece, una nuova dimensione delle facoltà dell’Uomo… ma la gente entusiasta, affascinata da quel nuovo giocattolo, l’aveva adottato senza riserve, in tutte le sue interpretazioni errate.

E come avevano sempre fatto, gli umani avevano esagerato. Avevano insistito tanto nelle loro interpretazioni errate che avevano finito per dimenticare, nonostante tutti gli avvertimenti, che erano per l’appunto errati. E alla fine, avevano preso a credere come verità rivelata. E dove c’era stato un divertimento innocente, adesso c’erano in agguato fauni libidinosi; dove c’era stato uno scherzo divertente, adesso c’erano folletti maligni e fantasmi.

E così era sopravvenuta la reazione, la reazione inevitabile dei riformatori fanatici, accompagnata dalla cupa crudeltà e dalla cecità che accompagnavano inevitabilmente ogni forma fanatica. Adesso orde di individui feroci e spaventati davano la caccia ai loro simili paranormali, come se si trattasse d’una sacra missione.

I paranormali erano molto numerosi, ma ormai si nascondevano o cercavano di mimetizzarsi. Erano sempre stati molto numerosi, in tutte le epoche dell’umanità, ma per lo più non avevano mai sospettato di nulla, non avevano mai pensato di possedere i poteri capaci di portarli alle stelle. Erano individui un po’ strani, un po’ scombinati, ed erano stati considerati innocui, e tollerati dai loro simili. Ve ne erano stati alcuni, naturalmente, che avevano messo in pratica i loro poteri, ma non avevano creduto veramente nella loro efficienza, e avevano usato le loro facoltà abbastanza malamente, perché non riuscivano a comprenderle. E più tardi, quando finalmente erano stati in grado di comprenderle, non avevano più osato farlo, perché il dio tribale della scienza affermava che si trattava di stupidaggini.

Ma quando gli uomini ostinati, rifugiandosi nel Messico, avevano dimostrato che non si trattava affatto di stupidaggini, la gente aveva finalmente osato. Coloro che possedevano i poteri s’erano sentiti liberi di adoperarli, e adoperandoli li avevano sviluppati. Altri, che non avevano mai sospettato di possederli, avevano scoperto di averli e li avevano usati a loro volta. In alcuni casi, quelle facoltà erano state usate per scopi positivi e concreti, ma in altri casi erano state usate malamente, o usate per scopi poco seri. E c’erano anche coloro che praticavano la loro arte nuovissima per fini assolutamente malvagi.

E adesso tutti i moralisti grigi ed opachi, e tutti i riformatori dalla fronte aggrottata e dagli abiti neri, abituati a pestare i pugni sui pulpiti, erano impegnati a schiacciare la cinetica paranormale per tutto il male che aveva fatto. Usavano la psicologia della paura, giocando sulle superstizioni naturali; adoperavano la corda e il marchio a fuoco e i rapidi agguati nella notte e diffondevano dovunque una paura che si poteva sentire nell’aria, come un fetore denso e disgustoso che intasava le narici e faceva lacrimare gli occhi.

«Tu sei fortunato», disse Riley a Blaine. «Siccome non hai paura di loro, può darsi che tu sia al sicuro. Un cane morde chi ha paura di lui, ma va a leccare la mano di chi non lo teme».

«E allora la soluzione è facilissima», gli rispose Blaine. «Non aver paura».

Ma era un consiglio sprecato, per un uomo come Riley.

Tutte le notti se ne stava seduto sulla destra, mentre Blaine guidava il camion nell’oscurità. Rabbrividiva per il terrore, e stringeva convulsamente il fucile caricato a pallettoni d’argento.

C’erano molti motivi di allarme e di spavento, per lui… il volo improvviso di un gufo, una volpe che attraversava correndo la strada: tutto diventava malvagio, tutto usciva da una notte ancora più fonda e tenebrosa, mentre l’ululare dei coyote diventava il gemito di una banshee, che andava alla ricerca di una nuova vittima.

Ma non si trattava soltanto dei terrori immaginari. C’era l’ombra che aveva la forma di un uomo, ma che non era più un uomo, che penzolava dondolando in una pigra danza dal ramo più alto, sopra gli arbusti; c’erano le rovine annerite dal fuoco d’una fattoria sul ciglio della strada, con il comignolo striato dal fumo che stava ancora eretto, e puntava verso il cielo come un dito accusatore; e c’era il fumo del piccolo fuoco da campo, che Blaine trovò per caso mentre costeggiava un rigagnolo, alla ricerca di una fonte, mentre Riley si azzuffava con le candele sporche. Blaine si era mosso senza far rumore, e quelli lo avevano sentito troppo tardi per dileguarsi prima che lui li vedesse: e fuggivano come ombre su per i pendii boscosi dello sperone montuoso. S’era trovato nel piccolo cerchio calpestato dell’accampamento, con il piccolo fuoco acceso, e la padella rovesciata accanto, con quattro trote semicotte, che erano cadute, e le coperte ammucchiate che servivano come letto, il riparo di fronde, costruito rozzamente, che doveva servire come rifugio contro la pioggia.

Blaine si inginocchiò accanto al fuoco e rimise a posto tutto. Raccolse le trote che erano cadute sull’erba e le ripulì con cura, le rimise in padella.

Poi pensò di chiamare coloro che erano fuggiti a nascondersi, di cercare di tranquillizzarli: ma sapeva che era inutile, perché non potevano fidarsi di nessuno.

Erano animali braccati. Animali braccati, nei grandi Stati Uniti che per tanto tempo avevano amato la libertà, che si erano levati come difensori dei diritti dell’uomo in faccia a tutto il mondo.

Rimase inginocchiato lì, diviso fra lo sdegno e la pietà, e si sentì inumidire gli occhi. Strinse i pugni e si massaggiò le palpebre e le nocche umide lasciarono macchie di terriccio sopra il suo volto.

Rimase lì per un po’: alla fine si rialzò, dimenticando che era venuto in cerca di una fonte, anche se senza dubbio la fonte doveva essere vicina all’accampamento. Attraversarono deserti e superarono faticosamente le montagne e finalmente arrivarono ai grandi altipiani, dove il vento scendeva, tagliente come un coltello, senza che vi fosse neppure una collina a fermarlo, senza che vi fosse un albero a spezzarlo: era una distesa nuda di terra, e giungeva, piatta e dura, fino ad un orizzonte che sembrava immensamente lontano.

Blaine stava sul sedile, a fianco di Riley, rilassandosi per resistere meglio agli scossoni. Il sole picchiava forte, e il vento era secco, e più avanti, verso il nord, vortici di polvere si sollevavano e frullavano sul letto di un fiume in secca.

Riley guidava, aggobbito e aggrappato al volante, con le braccia tese per resistere ai contraccolpi delle buche e delle crepe. Il suo viso era contratto, e di tanto in tanto un tic nervoso gli torceva i muscoli di una guancia.

Persino in pieno giorno, pensò Blaine, quest’uomo ha paura, e conduce la sua interminabile corsa a inseguimento con l’oscurità.

Forse c’entra per qualcosa, si chiese, il carico che portava a bordo. Riley non aveva mai detto, neppure una volta, che cosa trasportava, e non era mai andato a ispezionarlo. Gli sportelli posteriori del camion erano chiusi con un grosso lucchetto, e il lucchetto tintinnava rumorosamente, mentre il camion andava sobbalzando sulla strada.

Una volta o due, Blaine era stato sul punto di chiedere che cosa trasportavano, ma una certa reticenza glielo aveva impedito. Non si trattava di qualcosa che Riley avesse detto o fatto, o del suo modo di comportarsi: ma piuttosto, della studiata noncuranza che ostentava a questo proposito.

E in fin dei conti, si disse Blaine, non erano affari suoi. Quello che poteva esserci, sul camion, non gli interessava. Ciò che gli interessava era il camion, e non il suo contenuto. Ogni volta che le ruote giravano lo portavano un po’ più vicino alla sua destinazione.

«Se questa notte va tutto bene», disse Riley, «domattina arriveremo al fiume».

«Il Missouri?»

«Se il camion non torna a rompersi. Se riusciamo a tenere una buona media». Ma quella notte incontrarono le streghe.

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