Blaine rimase disteso a lungo, immergendosi nella sensazione del proprio corpo, perché adesso aveva un corpo. Poteva sentire la pressione su quel corpo, il movimento dell’aria che sfiorava la pelle, l’umidità calda del sudore che gli solleticava le braccia e il viso e il petto.
Non era più nella stanza azzurra, perché là non aveva corpo; e non c’era più il suono lontano del vento del deserto. C’era, invece, un suono regolare e raschiante. E c’era un odore, un odore astringente, un odore aggressivo e antisettico che riempiva non soltanto le sue narici, ma tutto il suo corpo.
Sollevò lentamente le palpebre, per mettersi al sicuro da una possibile sorpresa, pronto a richiuderle di colpo se fosse stato necessario. Ma c’era soltanto un biancore, attorno a lui, piatto e senza rilievi. Non era altro che il biancore di un soffitto.
La sua testa era posata su di un cuscino, e c’era un lenzuolo, sotto di lui, e lui indossava una specie di indumento che faceva un pò prurito.
Mosse il capo, e vide l’altro letto, e su quel letto giaceva una mummia.
Il tempo, aveva detto l’essere su quell’altro mondo, il tempo è la cosa più semplice che esista. E aveva annunciato che glielo avrebbe detto, ma non aveva potuto dirglielo, perché lui non era rimasto lì ad ascoltare.
Era come un sogno, pensò; adesso che ci ripensava aveva la qualità irreale e distorta di un sogno. Ma non era stato un sogno. Era tornato ancora una volta nella stanza azzurra e aveva parlato con l’essere che vi abitava. L’aveva ascoltato narrare le sue storie e conservava ancora nella mente i particolari di quelle storie. I particolari non si dileguavano, come sarebbero dileguati, invece, se fosse stato un sogno.
La mummia giaceva sul letto accanto, avvolta nelle bende. In quelle bende c’erano buchi per le narici e per la bocca, ma non per gli occhi. Respirava, e nel respirare emetteva quel suono raschiante e lamentoso.
Le pareti erano bianche come il soffitto, e il pavimento era di piastrelle di ceramica, quel luogo aveva un’aria così sterilizzata che quasi urlava la sua identità.
Era in una stanza d’ospedale, con una mummia che si lamentava.
La paura lo invase, un’ondata improvvisa di paura: ma rimase disteso, immobile, fino a quando l’ondata non fu passata. Perché, nonostante la paura, sapeva di essere al sicuro. Per qualche ragione, era al sicuro: e se ci avesse pensato, avrebbe scoperto quale era quella ragione.
Dove era stato, si chiese: dove era andato, oltre che in quella stanza azzurra? La sua mente risalì, risalì, e lui ricordò dove era stato: nel boschetto di salici, sulla riva del torrente, oltre la periferia della città.
Nel corridoio risuonò un passo, e poi un uomo in camice bianco entrò.
L’uomo si fermò sulla porta e restò lì, a guardarlo.
«Dunque è rinvenuto, finalmente,» disse il dottore. «Come si sente?»
«Non troppo male,» disse Blaine; e in realtà si sentiva benissimo. A quanto pareva, non aveva niente che non andasse. «Dove mi avete raccolto?»
Il medico non rispose. Fece un’altra domanda.
«Le era già capitato altre volte?»
«Mi era già capitato cosa?»
«Di svenire,» disse il dottore. «Di cadere in coma.»
Blaine scosse la testa sul cuscino.
«No, che io ricordi.»
«Come se fosse caduto vittima di un incantesimo,» disse il dottore.
Blaine rise.
«Stregoneria, dottore?»
Il dottore fece una smorfia.
«No, non credo. Ma non si sa mai. Qualche volta i pazienti ci credono.»
Attraversò la stanza e sedette sull’orlo del letto.
«Sono il dottor Wetmore,» disse a Blaine. «Lei è qui da due giorni. Alcuni ragazzi che erano andati a caccia di conigli, a est della città, l’hanno trovata per caso. Era rannicchiato sotto i salici. Hanno creduto che fosse morto.»
«E così mi avete portato qui.»
«È stata la Polizia.»
«E che cos’ho?»
Wetmore scosse il capo.
«Non lo so.»
«Non ho denaro. Non posso pagarla dottore.»
«Questo,» disse il dottore, «non ha la minima importanza.»
Rimase seduto a guardarlo.
«Comunque c’è una cosa strana. Lei non aveva documenti addosso. Ricorda chi è?»
«Sicuro. Sono Shepherd Blaine.»
«E dove abita?»
«In nessun posto,» disse Blaine. «Vado in giro.»
«Come è arrivato in questa città?»
«Non riesco a ricordarlo.»
Si sollevò a sedere.
«Senta, dottore, potrei andarmene? Tutto quello che faccio, qui, è occupare un letto.»
Il dottore scosse di nuovo il capo.
«Preferirei che rimanesse. Ci sono molte analisi da fare e…»
«Sarà un grosso disturbo, per lei.»
«Non ho mai avuto a che fare con un caso come il suo,» disse il dottore. «Mi farebbe un favore. Non c’era niente fuori posto, organicamente, voglio dire. Il battito del cuore era un pò ritardato, la respirazione rallentata, la temperatura alterata di qualche decimo di grado. Ma per il resto, tutto a posto, a parte il fatto che era svenuto. Non c’era modo di svegliarla.»
Blaine girò il capo verso la mummia.
«Quello è conciato male, no?»
«Un incidente sull’autostrada,» disse il dottore.
«È molto insolito. Non succedono più ormai.»
«Sì,» fece il dottore. «Molto insolito. Guidava un vecchio camion. Andava forte, e gli è scoppiata una gomma. Ad una delle curve, sopra al fiume.»
Blaine fissò intento l’uomo disteso sull’altro letto: ma non c’era modo di saperlo. Non si vedeva niente, di lui. Il suo respiro lamentoso e raschiante continuava: ma non era possibile capire chi fosse.
«Potrei farla trasferire in un’altra stanza,» si offrì il dottore.
«Non ce n’è bisogno. Non resterò per molto.»
«Preferirei che rimanesse per un pò. Magari potrebbe svenire ancora, e questa volta, magari, potrebbe darsi che nessuno la trovasse.»
«Ci penserò,» promise Blaine.
Tornò a sdraiarsi.
Il dottore si alzò e si accostò all’altro letto, si chinò ed ascoltò il respiro. Poi prese un batuffolo di ovatta, lo passò sulle labbra dell’uomo, mormorò qualcosa, poi si raddrizzò.
«Ha bisogno di qualcosa?» chiese a Blaine. «Dovrebbe avere fame.»
Blaine annuì. Adesso che ci pensava, aveva davvero fame.
«Ma non c’è fretta,» disse.
«Avviserò in cucina,» disse il dottore. «Le prepareranno qualcosa.»
Girò sui tacchi e uscì ad andatura svelta dalla stanza, e Blaine ascoltò il suono di quei passi rapidi e decisi che si allontanavano.
E all’improvviso seppe, o ricordò, perché adesso era al sicuro. La luce lampeggiante che segnalava la sua presenza adesso era scomparsa, perché l’essere della stella lontano l’aveva tolta. Adesso non aveva più bisogno di nascondersi.
Rimase disteso a pensare, e si sentì un poco più umano… anche se, per dire la verità non si era mai sentito altro che umano. Ma adesso, per la prima volta, al di sotto della sua umanità, sentiva la svelta tensione di una conoscenza nuova, di uno strato profondo di conoscenze nuove al quale poteva attingere.
Nell’altro letto, la mummia si lagnava e continuava a respirare con quel suono raschiante.
«Riley!» mormorò Blaine.
Non vi fu alcuna interruzione nel respiro, non il minimo segno che quello l’avesse udito.
Blaine gettò le gambe giù dal letto, rimase lì seduto, e posò i piedi sul pavimento, e il pavimento a piastrelle era gelido. Si alzò, e la ruvida camicia da notte da ospedale gli pendeva addosso, ridicolmente.
Si accostò all’altro letto, e si chinò, accostandosi alla cosa fasciata di bianco che vi giaceva.
«Riley? Sei tu? Riley, mi senti?»
La mummia si mosse.
La testa tentò di girarsi verso di lui, ma senza riuscirvi. Le labbra si mossero, con uno sforzo. La lingua lottò per formare un suono.
«Dì…» fece, strascicando quella parola per lo sforzo di pronunciarla.
Poi ritentò.
«Dì a Finn…» fece.
Non disse altro. Blaine sentì che aveva altro da dire. Attese. Le labbra tornarono a muoversi, laboriosamente. La lingua si agitò pesantemente nella caverna della bocca. Ma non riuscì a dire altro.
«Riley!»
Non vi fu risposta.
Blaine indietreggiò, fino a quando urtò con l’incavo delle ginocchia contro il proprio letto, e vi si lasciò cadere seduto.
E restò lì, a guardare la figura fasciata, immobile come una mummia.
E la paura, pensò, la paura aveva raggiunto quell’uomo, alla fine, la paura che lui aveva cercato di lasciarsi indietro correndo per mezzo continente. E non era fuggito dalla paura che aveva indotto lui alla fuga: ma da un’altra paura e da un altro pericolo.
Riley ansimava.
E aveva un’informazione da trasmettere ad un uomo che si chiamava Finn, pensò Blaine. Chi era Finn, e dov’era? Che cosa aveva a che fare con Riley?
Finn?
C’era stato un Finn.
Una volta, molto tempo prima, aveva conosciuto il nome di Finn.
Blaine rimase seduto, rigido, sul letto, cercando di ricordare ciò che sapeva di Finn.
Però poteva trattarsi di un altro Finn.
Perché Lambert Finn era stato un viaggiatore dell’Amo, anche se era scomparso proprio come era scomparso Godfrey Stone, da molti anni prima che Stone scomparisse, molto tempo prima che lo stesso Blaine entrasse a far parte dell’Amo.
E adesso era un nome che veniva bisbigliato, una leggenda, un personaggio agghiacciante di una vicenda agghiacciante, una delle poche storie dell’orrore dell’Amo.
Perché, così si diceva, Lambert Finn un giorno era ritornato dalle stelle pazzo furioso.