La luna veleggiava altissima sopra le collinette gibbose che orlavano la valle del fiume, e lontano, in quella valle, un gufo chiurlava e ridacchiava fra sè. E il ridacchiare del gufo veniva trasportato dovunque, nitidamente, dalla fredda aria notturna che aveva già un sentore di gelo.
Blaine si fermò al limitare del boschetto di cedri nodosi che abbracciavano il suolo come vecchi curvi e nocchiuti, e rimase teso, ad ascoltare. Ma non si udiva nulla, eccetto il ridacchiare del gufo e il suono fievole delle foglie ostinate che se ne stavano ancora aggrappate ai rami di qualche albero, più in basso, sul fianco della collina, e c’era anche un altro suono, così debole che Blaine si chiese se lo udiva veramente… il lontano, magico mormorio che era la voce del fiume possente, il fiume che scorreva ai piedi delle colline illuminate dalla luna.
Blaine si chinò, si acquattò al suolo, rannicchiandosi al riparo delle ombre disordinate dei cedri, e si disse ancora una volta che nessuno lo inseguiva, nessuno gli dava la caccia. Non l’Amo, perché con l’incendio della Stazione di Scambio l’Amo era temporaneamente bloccato. E neppure Lambert Finn. In quel preciso momento, Finn era l’ultima persona al mondo che avrebbe potuto pensare di dargli la caccia.
Blaine rimase li acquattato, e ricordò, senza la minima sfumatura di pietà, l’espressione che era apparsa negli occhi di Finn quando lui aveva scambiato le menti… lo sguardo vitreo e fisso del terrore di fronte a quella spudorata contaminazione, a quell’inquinamento deliberato del possente predicatore e del grande profeta che aveva avvolto il proprio odio in un manto che non era una religione vera e propria, ma qualcosa di molto simile, almeno nella misura in cui aveva osato spingersi.
«Che cosa ha fatto!» aveva gridato, in preda ad un orrore gelido, impietrito. «Che cosa mi ha fatto!»
Perché Finn aveva sentito il gelo mordente dell’alienità e l’immensa inumanità, e aveva sentito il sapore dell’odio che irradiava da Blaine.
«Una cosa!» gli aveva gridato Blaine. «Lei non è altro che una cosa! Lei non è più Finn. È umano soltanto in parte. È parte di me, e parte di qualcosa che ho trovato a cinquemila anni-luce di distanza. E spero che lei ci soffochi dentro.»
Finn aveva spalancato la bocca, e poi l’aveva richiusa seccamente come una trappola.
«Adesso debbo andarmene,» gli aveva detto Blaine. «E perché non ci siano malintesi, lei dovrà venire con me. Con un braccio sulla mia spalla, come se fossimo due fratelli che si sono ritrovati dopo molto tempo. Mi parlerà come se io fossi un vecchio e caro amico: perché, se non farà così, io riuscirò a fare sapere a tutti che cosa è lei.»
Finn aveva esitato.
«Precisamente: quello che è,» aveva insistito Blaine. «E tutti quei giornalisti saranno lì ad ascoltare.»
E questo era stato sufficiente, per Finn… era stato più che sufficiente.
Perché era un uomo, pensò Blaine, che non poteva permettersi di venire toccato da un incantesimo, anche se era efficace. Era il riformatore rigoroso, deciso, spietato che si considerava il guardiano dei valori morali dell’intera razza umana, e perciò non doveva esserci, attorno a lui, il minimo accenno di scandalo, il minimo mormorio di sospetto.
Così, loro due avevano percorso il corridoio ed avevano sceso le scale e avevano attraversato l’atrio, tenendosi a braccetto, chiacchierando, e i giornalisti li avevano seguiti con lo sguardo mentre passavano.
Erano usciti sulla strada, e la Stazione di Scambio ardeva ancora, rossa contro il cielo, e si erano avviati sul marciapiedi, come se volessero isolarsi per scambiarsi le ultime parole prima di accommiatarsi.
Poi Blaine s’era infilato in un vicolo, ed era corso via, verso oriente, verso le colline che costeggiavano il fiume.
E adesso era lì, pensò: era di nuovo in fuga, e senza il minimo piano. Un fuggitivo, nient’altro. Ma, fra una fuga e l’altra, aveva sferrato qualche colpo… aveva fermato Finn. Gli aveva sottratto l’orribile prova della perfidia dei para e del pericolo che rappresentavano: aveva diluito una mente che mai più, per quanto Finn si sforzasse, sarebbe ridiventata meschina ed egocentrica come era stata fino a quel momento.
Rimase in ascolto, e la notte era vuota, eccettuati il fiume e il gufo e le foglie che frusciavano.
Si rialzò, lentamente, e mentre si rialzava udì un altro suono, un ululato che aveva in sè anche il rumore di denti, e per un istante rimase paralizzato, agghiacciato. Attraverso i secoli, quel suono fece vibrare una corda di paura involontaria… dalle caverne, e da un tempo ancora più remoto delle caverne, dal tempo in cui l’uomo viveva con il terrore della notte addosso.
Era un cane, si disse, o forse un lupo della prateria. Perché i lupi mannari non esistevano. E lui sapeva benissimo che i lupi mannari non esistevano.
Eppure c’era un istinto che riusciva a reprimere soltanto a fatica… l’istinto di correre via, pazzamente, senza ragione, alla ricerca di un rifugio, un rifugio qualunque, per difendersi dal pericolo tremendo che avanzava nel chiaro di luna.
Rimase teso ad attendere che l’ululato si ripetesse, ma non si ripeté. Il suo corpo si rilassò, i muscoli annodati ed i nervi aggrovigliati si allentarono, e lui fu di nuovo se stesso… o quasi.
Sarebbe fuggito via, pensò, se avesse creduto, se avesse creduto anche soltanto per metà. Era molto facile… prima credere, e poi fuggire. Ed era quello che rendeva tanto pericolosi gli uomini come Finn: lavoravano su di un istinto umano che stava annidato sotto la pelle… l’istinto della paura e, dopo la paura, dell’odio.
Lasciò il boschetto di cedri e proseguì, cautamente, sulla collina.
Aveva imparato per esperienza che era difficoltoso camminare nel chiaro di luna. C’erano sassi seminascosti che rotolavano sotto i piedi, c’erano buche e rialzi mascherati dall’ombra, trappole in cui si poteva storcere una caviglia.
Pensò ancora all’unica cosa che lo turbava… che l’aveva turbato fin dall’istante in cui Finn gliene aveva parlato.
Harriet Quimby, gli aveva detto Finn, era una spia dell’Amo.
E questo non era vero, naturalmente, perché era stata proprio Harriet che lo aveva aiutato a fuggire dall’Amo.
Eppure… Harriet era con lui in quel paese dove per poco non lo avevano impiccato. Era con lui mentre Stone veniva assassinato. Era con lui quando era andato al deposito dell’autostrada ed era stato preso in trappola da Rand.
Ricacciò indietro, nella propria mente, quell’elenco di fatti, ma non volevano saperne di rimanere nell’ombra: continuavano a strisciarne fuori per perseguitarlo.
Era ridicolo. Harriet non era una spia. Era una giornalista famosa, ed una buona amica, ed era abile, fredda e dura. Sarebbe stata veramente una buona spia, ammise Blaine, se avesse voluto… ma era una cosa estranea alla sua natura. Non era capace di sotterfugi, lei.
La collinetta si aprì in un profondo crepaccio che scendeva precipitosamente verso il fiume, e sull’orlo del crepaccio c’era un gruppo d’alberi contorti.
Blaine girò attorno agli alberi, e si sedette per terra.
Sotto di lui il fiume passava, e le sue acque nere erano infiocchettate di spuma, e il gelo della valle era più nero del fiume, e le colline marciavano lungo le due rive come gibbosi fantasmi d’argento.
Il gufo taceva, adesso, ma il mormorio del fiume s’era fatto più forte. Ascoltando attentamente, si poteva sentire il gorgogliare dell’acqua che ribolliva attorno alle barene di sabbia e si apriva la strada, con la forza, oltre all’albero che era caduto dalla sponda e se ne stava là appeso, con le radici ancora inchiodate nella terra, e il capo chiomato nell’acqua.
Non sarebbe stato poi un brutto posto, disse Blaine, per fermarsi durante la notte. Non aveva né una trapunta né una coperta, ma gli alberi lo avrebbero riparato e nascosto. E sarebbe stato più al sicuro che in qualsiasi altro posto.
Strisciò in mezzo agli arbusti che crescevano sotto agli alberi, e si preparò una specie di nido. C’era qualche sasso da spostare, un ramo spezzato da togliere di mezzo. Muovendosi a tentoni nell’oscurità, radunò un mucchio di foglie, e soltanto quando ebbe finito di raccoglierle pensò ai serpenti a sonagli. Comunque, si disse, la stagione era già un pò troppo avanzata perché ci fossero in giro molti serpenti a sonagli.
Si raggomitolò sul mucchio di foglie, ma non stava comodo come aveva sperato. Ma era una sistemazione passabile, e poi non sarebbe rimasto lì per molte ore. Fra non molto sarebbe sorto il sole.
Giacque tranquillo nell’oscurità, e gli avvenimenti di quella giornata incominciarono a marciare spietatamente sullo schermo della sua coscienza… un riassunto mentale che lui tentava di fermare, ma senza riuscirvi.
Incessantemente, le interminabili bobine giravano: squarci e impressioni d’una giornata che era stata molto piena, carichi dell’irrealtà di tutte le analisi a posteriori.
Se almeno fosse riuscito a interrompere quel flusso di ricordi, se fosse riuscito a pensare a qualche cosa d’altro…
E c’era qualche cosa d’altro… la mente di Lambert Finn.
Vi frugò, impacciato, e quella mente lo colpì in piena faccia: un freddo, indomabile groviglio di odio e di paura e di complotti che fremeva e si agitava e brulicava come un barattolo pieno di vermi. E al centro di quella massa c’era l’orrore puro… l’orrore dell’altro pianeta, quel pianeta che aveva trasformato il suo osservatore umano in un pazzo furioso, uscito dalla macchina delle stelle con la bava alla bocca e gli occhi sbarrati, e le dita piegate ad uncino, come artigli.
Era osceno, ripugnante. Era spoglio e crudo. Era tutto ciò che rappresentava l’opposto dell’umanità. Balbettava e squittiva e ululava. Sogghignava come un teschio alieno. Non v’era nulla di chiaro o di pulito: non vi erano particolari che si potevano distinguere, ma la sensazione travolgente di un male abissale.
Blaine si ritrasse con un grido che gli esplodeva nel cervello, e quel grido spazzò via il nucleo centrale di orrore.
Ma c’era un altro pensiero… un pensiero fuggevole e stranamente incongruo.
Il pensiero di Halloween.
Blaine l’afferrò con forza, lottando per impedire che il nucleo dell’orrore alieno si insinuasse in quella specie di film interminabile.
Halloween… la dolce notte di fine ottobre, con le sottili spirali di fumo delle foglie bruciate che aleggiavano per le strade, illuminate dai lampioni o dalla grande luna piena librata proprio al di sopra dei rami più alti degli alberi spogli, più grande di quanto sembrava possibile ricordare, come se si fosse avvicinata un poco di più alla Terra per spiare. Le voci alte e stridule dei bambini risuonavano per le strade, e c’era il ticchettare continuo dei piedi minuscoli, mentre le bande di ragazzini camuffati da folletti facevano il girotondo, gridando di gioia e lanciandosi richiami. Sopra le porte, le lampade erano accese in un bonario invito, e le figurette incappucciate o avvolte nei lenzuoli andavano e venivano, stringendo sacchi che diventavano sempre più pesanti e più colmi per le offerte fatte dai grandi, via via che il tempo passava.
Blaine ricordava tutti i particolari… come se fosse soltanto ieri, come se lui fosse ancora un bambino che correva felice attraverso la città. Ma in realtà, pensò, era stato molto, molto tempo prima.
Era stato prima che il terrore si facesse più denso e più fetido, quando la magia era ancora una moda e nient’altro, e tutti la trovavano ancora divertente, e Halloween era una festa gaia e spensierata. E i genitori non avevano paura che i bambini se ne andassero in giro di notte.
Ma oggi un Halloween sarebbe stato qualcosa di impensabile. Adesso Halloween era un giorno in cui bisognava mettere doppie spranghe alle porte, e chiudere bene il camino, e inchiodare sulla cappa segni cabalistici potentissimi.
Peccato, pensò Blaine. Era stato così divertente. Come quella notte che lui e Charline Jones avevano incominciato a bussare alla finestra del vecchio Chandler, e il vecchio era uscito fuori, ruggendo di indignazione simulata, con un fucile in mano, e loro erano scappati via di corsa, così in fretta che erano caduti nel fosso, dietro alla casa dei Lewis.
E poi quell’altra volta… e quell’altra volta… e si aggrappò a quei ricordi, per non pensare a nient’altro.