Il deposito era più grande di quanto gli era sembrato quando l’aveva studiato dall’autostrada. Era circondato da una fitta coltre di erba alta, morta e secca, che frusciava con un suono furtivo al minimo movimento dell’aria. Era stato costruito con i grandi pezzi di lamiera ondulata che venivano usati per quel genere di edifici prima che, una quarantina d’anni fa, venisse introdotta la stuccoplastica di Aldebaran VII. La superficie regolare del metallo era interrotta da poche finestre, cariche di sporcizia e di vecchie ragnatele. Due grandi porte che si alzavano a bilanciere occupavano quasi completamente l’ampiezza della facciata.
Ad est si stendeva la sagoma buia della città, profilata contro un debole arrossamento del cielo che annunciava l’imminenza del sorgere della luna.
Cautamente, Blaine girò attorno alla costruzione, cercando di scoprire da che parte poteva penetrarvi. Non trovò niente. Le due grandi porte erano chiuse a chiave. Verso il basso, un paio di lastre metalliche si erano allentate, ma erano troppo pesanti perché fosse possibile storcerle e rialzarle, in modo da creare un passaggio.
C’era un unico modo, per entrare.
Si diresse verso l’angolo della costruzione più vicino all’autostrada e si fermò, in ascolto. A parte il fruscio aspro dell’erbaccia, non si sentiva nulla. L’autostrada era completamente deserta, e molto probabilmente sarebbe rimasta deserta. Non si scorgevano luci di alcun genere: né lampade, né raggi che filtrassero da qualche finestra lontana. Era come se lui e il deposito si trovassero in un mondo completamente privo di vita.
Fissò lo sguardo, per un po’ di tempo, sul boschetto di salici sul ciglio della strada: ma non vi erano scintillii o bagliori che indicassero la presenza di una macchina nascosta.
Si incamminò, rapidamente, e costeggiò la parete di metallo, fino a quando arrivò ad una finestra. Si tolse la giacca sbrindellata, se l’avvolse attorno al pugno e all’avambraccio.
Poi sferrò un colpo, ed i vetri della finestra si spezzarono. Sferrò altri colpi, per rimuovere i pezzi di vetro che erano rimasti infissi all’intelaiatura. Poi tolse ad una ad una le ultime scheggie che avrebbero potuto ferirlo.
Ritornò all’angolo e si fermò di nuovo ad ascoltare, per qualche istante. La notte era ancora immobile e silenziosa.
Raggiunse di nuovo la finestra, ed entrò nel deposito. Si calò con prudenza, e sentì il pavimento sotto i piedi. Si tolse dalla tasca la torcia elettrica, l’accese. Fece scorrere il cono di luce nella caverna vuota che era l’interno del deposito.
E lì, accanto alla porta, c’era il camion fracassato che aveva trovato finalmente riposo, e la lucente macchina delle stelle che aveva trasportato.
Cercando di non fare rumore, Blaine attraversò il deposito e si fermò accanto alla macchina, illuminandola con il raggio di luce. Era qualcosa che lui conosceva bene, era qualcosa che aveva conosciuto intimamente, all’Amo. Aveva una strana bellezza, si disse mentre la guardava, come se fosse possibile scorgere, riflesse nella sua superficie, le distese lontanissime dell’universo che l’uomo poteva raggiungere con il suo aiuto.
Ma era vecchia… un modello molto vecchio, che l’Amo aveva sostituito circa una decina di anni prima, e non c’era il minimo dubbio; in un modo o nell’altro, proveniva dall’Amo. Dovevano esserci parecchi vecchi modelli come quello, accatastati da qualche parte, in qualche magazzino semidimenticato: immagazzinati, probabilmente, perché era più facile immagazzinarli che distruggerli. Perché cose di quel genere bisognava o metterle sottochiave, al sicuro, o distruggerle: non era possibile buttarle via e basta. Quella macchina era la chiave del monopolio dell’Amo, ed era inammissibile che cadesse in mani altrui.
Eppure, una di quelle macchine era caduta in mano altrui, e adesso era lì, muta testimonianza d’uno degli intrighi più abili e più complicati di cui l’Amo era stato parte involontaria.
Blaine cercò di immaginare in quale modo Stone c’era riuscito: e, mentre ci pensava, sentì di ammirare ancora di più quell’uomo. C’èra voluto parecchio denaro, indubbiamente, e c’erano voluti agenti fidatissimi. e un piano d’operazioni che non ammetteva sviste né errori.
Si chiese vagamente fino a che punto c’entrava Harriet, in quella storia. Senza dubbio, si disse, non aveva mostrato timori o esitazioni, quando lo aveva aiutato a sfuggire alle grinfie dell’Amo. Era proprio la donna più adatta a congegnare uno scherzo del genere: calma, sicura di sè, con una notevole conoscenza di tutti i meccanismi dell’Amo. E aveva un cervello che funzionava con la spendida precisione di un cronometro svizzero.
Stone aveva riposto grandi speranze in quella macchina, e adesso quelle speranze erano svanite. Adesso Stone era morto, e la macchina delle stelle se ne stava lì, in quel deposito abbandonato, e sarebbe servita come prova ad un uomo così pieno di odio da essere capace di distruggere completamente la cinetica paranormale: radici, rami e foglie.
E Finn poteva servirsi di quella macchina; anche se veniva chiamata "macchina", in realtà era molto diversa dalle macchine cui la mente umana si era andata abituando ormai da secoli. Non aveva parti mobili, e non aveva una funzione distinguibile. Era stata creata per funzionare solo sulla mente e sui sensi umani. Funzionava per mezzo del simbolismo, non per mezzo dell’energia… eppure funzionava. Come per secoli aveva funzionato un rosario fra le mani di un devoto, prima che incominciasse a formarsi il concetto dell’esistenza di umani paranormali.
Se le speranze erano svanite, pensò Blaine, allora quella macchina non doveva assolutamente restare lì. Forse non doveva altro, a Stone: ma quello glielo doveva. Doveva ripagarlo in qualche modo, si disse, per la telefonata di avvertimento di quella notte ormai tanto lontana.
E c’era un modo per farlo… c’era un modo, e lui lo sapeva: purché fosse riuscito ad estrado dal mare schiumante di conoscenza aliena che si gonfiava dentro di lui.
Lo cercò e lo trovò, e nel trovarlo sfiorò un’altra conoscenza, e tutto quanto era bene etichettato e disposto in bell’ordine, come se un commesso solerte avesse lavorato per fare l’inventario della sua mente sovraffollata.
Si fermò, fragile e tremante di fronte alla scoperta di quegli scaffali e di quell’ordine, perché non aveva neppure immaginato che quella strana sistemazione venisse compiuta dentro di lui. Ma quello era tipico di un essere umano, si disse: era una dimostrazione dell’istintiva rivolta umana contro il disordine casuale dell’ammasso di dati che erano stati scaricati nella sua mente dall’essere rosa, su quel pianeta lontano.
L’essere era ancora con lui, o almeno l’essenza di quell’essere: e la cercò con accanimento, fra le scaffalature della sua mente. Ma non c’era. Non c’era la minima traccia della sua presenza in quanto tale, però c’era qualcosa d’altro: c’era qualcosa che non andava affatto.
Sbalordito, si mise freneticamente sulle tracce di quello che non andava e finalmente lo scoprì e l’afferrò, lo fiutò inorridito. Perché si trattava di questo, semplicemente: la sua mente non era più una mente interamente umana. E all’orlo di quel terrore c’era il mistero tremendo, la sua capacità di conservare una sufficiente misura di umanità da rendersi conto di quanto era avvenuto.
Tese la mano, brancolando alla cieca, e urtò contro uno spigolo della macchina delle stelle e vi si aggrappò, con tutte le energie di cui era capace.
E tutto derivava, a quanto poteva sospettare, dal semplice fatto che lui rimaneva umano, e soprattutto umano, in superficie: ma sotto quella superficie era la fusione di due individui, della conoscenza e forse dell’etica e delle motivazioni di due forme di vita diverse. Ed era del tutto logico, a pensarci bene, perché il Rosa non era cambiato, era rimasto tranquillo e soddisfatto: non c’era sicuramente la minima traccia di umanità in lui, anche se dentro di lui c’era una certa porzione di umanità, e Dio solo sapeva che altro poteva esserci.
Allentò le dita che stringevano la macchina delle stelle, passò la mano, lentamente, su quella struttura metallica, liscia come il cristallo.
C’era un modo… se lui fosse riuscito a farlo. Adesso possedeva la conoscenza, ma possedeva anche la tecnica?
Il tempo, gli aveva detto il Rosa, il tempo è la cosa più semplice che esista. E tuttavia, pensò Blaine, non era certamente facile da manipolare come aveva sostenuto quell’essere.
Rimase immobile a riflettere, e ciò che doveva fare diventò perfettamente chiaro.
Non valeva la pena di percorrere la strada del passato, perché quella macchina era già nel passato: aveva lasciato attraverso il passato una scia lunghissima e nebulosa.
Ma il futuro era tutta un’altra faccenda. Poteva venire trasportata nel futuro: e allora, quel preciso momento e tutti i momenti successivi sarebbero diventati il suo passato, e tutto ciò che ne sarebbe rimasto sarebbe stata una traccia spettrale… e una risata e una beffa e una magia che non avrebbe costituito certamente un argomento positivo per il sermone incendiario di un uomo che si chiamava Lambert Finn.
E soprattutto, pensò Blaine, con ogni probabilità lo avrebbe spaventato a morte.
Si tese con tutta la sua mente per circondare la macchina, e non vi riuscì. La sua mente si apriva e si protendeva, ma non era abbastanza ampia, e lui non era in grado di abbracciare la macchina completamente. Si riposò, per qualche istante, e poi tornò a tentare.
Nel deposito c’era una stranezza ed una alienità che lui non aveva notato, prima, e c’era una minaccia inespressa nel fruscio arido delle erbacce al di là della finestra spezzata, e l’aria era così pungente e carica d’un odore acuto che gli faceva rizzare i capelli sulla nuca. Era qualcosa di sconvolgente, perché all’improvviso gli sembrava di avere perduto completamente ogni contatto con il mondo in cui si trovava, e nulla, né il pavimento su cui si reggeva, né l’aria che respirava, e neppure il corpo che lo rivestiva gli era familiare e in quell’assenza di familiarità c’era un orrore incredibile, in quello spostamento, da ciò che era noto e che non riusciva più a ricordare, a questo ignoto nel quale non riusciva a trovare il minimo punto di riferimento. Ma sarebbe andato tutto bene, se fosse riuscito a spostare quello stranissimo manufatto che teneva stretto nella sua mente, perché era proprio quello lo scopo per cui era stato tratto dall’oscurità e dal tepore e dalla comoda sicurezza: e se avesse compiuto quel lavoro, avrebbe potuto ritornarvi, avrebbe potuto tornare ai ricordi di altri tempi, alla lenta assimilazione di nuovi dati, alla soddisfazione di contare i fatti nuovi, uno ad uno, come un avaro che conta il suo denaro, mentre li ammucchiava in lunghe pole ben ordinate.
Il manufatto, nonostante la sua stranezza, era piuttosto facile da maneggiare. Le sue radici non si estendevano a grande profondità, nel passato, e le coordinate corrispondevano in modo soddisfacente: ormai ce l’aveva quasi fatta. Ma non doveva affrettarsi, nonostante l’urlante necessità di affrettarsi: doveva riuscire in qualche modo ad avere pazienza. Attese che le coordinate ricadessero al posto giusto, misurò scrupolosamente, senza fretta, la tensione temporale, e poi applicò una leggera torsione alla cosa, una torsione precisa, e la sistemò esattamente dove voleva sistemarla.
Poi si precipitò di nuovo al suo posto, di nuovo nell’oscurità e nel tepore, e Blaine si ritrovò spoglio di tutto, tranne che della sua personalità umana, in un luogo che era un nulla nebbioso.
Non c’era nulla, là… nulla, tranne lui e la macchina delle stelle. Tese la mano e toccò la macchina delle stelle, ed era molto concreta, molto solida. E, a quanto poteva vedere lui, era anche l’unica cosa concreta che ci fosse, in quel posto.
Perché anche la nebbia, se pure era davvero nebbia, aveva una qualità irreale, come se cercasse di mascherare il fatto stesso che esistesse.
Blaine rimase in silenzio, impietrito, senza osare muoversi… temendo che un movimento qualsiasi lo precipitasse in un abisso di nera eternità.
Perché quello, si disse, era il futuro. Era un luogo privo di tutte le caratteristiche della matrice spazio-temporale che lui conosceva. Era un luogo in cui non era ancora accaduto nulla… un vuoto assoluto. Non vi erano né la luce né le tenebre: non vi era altro che quel vuoto. Non vi era altro che quel vuoto. Non vi era mai stato nulla, in quel luogo, e non c’era neppure nulla destinato ad occuparlo… fino al momento in cui lui e la sua macchina vi si erano inseriti, intrusi che erano usciti dal loro tempo.
Espirò, lentamente, e tornò a espirare… e non v’era nulla da espirare.
Le tenebre si precipitarono su di lui, e il battito del suo sangue nelle vene risuonava echeggiando dentro alla sua testa, e tese le mani, disperatamente, per afferrarsi a qualcosa, a qualunque cosa… in quel luogo in cui non vi era nulla cui afferrarsi.
b in quello stesso istante ritornò l’alienità, una alienità sbalordita e spaventata, e un guazzabuglio di strane figure simboliche, che persino nella sua atroce sofferenza mentale riuscì a identificare per bizzarri simboli matematici, fluì fulmineamente nel suo cervello. C’era di nuovo l’aria da respirare, e c’era un pavimento solido sotto i suoi piedi, e poteva fiutare l’odore di muffa che aleggiava dentro al deposito accanto all’autostrada.
Era ritornato indietro, ed era ritornata anche la presenza aliena, perché non l’avvertiva più dentro di sè. Era ritornata all’oscurità ed al tepore dentro alla sua mente.
Rimase ritto, senza muoversi, e provò a controllare: era tutto a posto, nel suo corpo. Aprì lentamente gli occhi, perché, in qualche modo, si erano chiusi, e attorno a lui c’era soltanto l’oscurità: finalmente si ricordò della torcia elettrica che stringeva ancora in mano. Eppure l’oscurità era meno intensa di prima: adesso, dalla finestra spezzata filtrava la luce della luna appena sorta.
Alzò la torcia elettrica e spinse il pulsante, e la luce si irradiò, e la macchina era lì, davanti a lui, ma strana, priva di sostanza… lo spettro della macchina, la traccia che aveva lasciato dietro di sè quando si era spostata nel futuro.
Alzò il braccio libero e si asciugò la fronte sudata con la manica della giacca. Adesso era finita. Aveva fatto quello che doveva fare. Aveva sferrato il colpo in nome di Stone: aveva trovato il modo di fermare Finn.
Non c’era più l’oggetto da mostrare al popolo: non c’era più il testo sul quale Finn poteva predicare. C’era, invece, una risata di scherno, la risata della stessa magia che Finn stava combattendo da anni.
Avvertì un movimento, dietro di sè, e si voltò di scatto, sì fulmineamente che la stretta delle sue dita sulla lampada tascabile si allentò, e la lampada tascabile cadde sul pavimento e rotolò via.
Una voce parlò nell’oscurità.
«Shep,» disse quella voce, con trasporto, «è stata un’azione magnifica.»
Blaine si sentì invadere dal gelo della disperazione.
Perché quella era la fine, e lui lo sapeva. Era arrivato fin dove poteva arrivare. Più oltre non poteva andare.
Conosceva bene quella voce. Non avrebbe mai potuto dimenticarla.
L’uomo che stava nell’oscurità del deposito era il suo vecchio amico Kirby Rand.