Pajaro Sands era un complesso alberghiero in riva al mare. È un posto dimenticato da Dio di Monterey Bay, nei pressi di una città dimenticata da Dio, Watsonville. Watsonville è uno dei grandi porti da cui parte petrolio per il mondo intero, e ha tutto il fascino di una torta vecchia e fredda, senza crema. I luoghi di divertimento più vicini sono i casinò e i bordelli di Carmel, a cinquanta chilometri di distanza. Però io non gioco e non mi interessa il sesso a pagamento, nemmeno le prestazioni esotiche che si possono trovare in California. Fra il personale di Boss, poca gente frequentava Carmel: era troppo lontano da raggiungere a cavallo (a meno di non avere un weekend libero), non c’era nessuna capsula diretta, e anche se la California è liberale nell’autorizzare i veicoli a motore, Boss concedeva i suoi Vma solo per motivi di servizio.
Per noi, i divertimenti maggiori di Pajaro Sands erano le attrattive naturali che avevano portato alla costruzione del complesso: marosi e sabbia e sole.
Il surfing mi divertì finché non diventai brava. Poi cominciò ad annoiarmi. Di solito, prendevo un po’ di sole ogni giorno e nuotavo un po’ e guardavo le grandi cisterne che si riempivano di petrolio; e notavo, divertita, che l’uomo di guardia sulla nave spesso se ne stava a guardare me, armato di binocolo.
Nessuno di noi aveva ragione d’annoiarsi; godevamo tutti di un servizio terminali completo. Oggi la gente si è talmente abituata alla rete computer che dimentica con facilità quale meravigliosa finestra sul mondo costituisca; e mi metto nel numero. Ci si può sclerotizzare nell’uso di un terminale solo per certe cose (pagare conti, fare telefonate, ascoltare notiziari) e arrivare a dimenticarne gli usi più ricchi. Se l’abbonato è pronto a pagare il servizio, con un terminale si può fare quasi tutto ciò che è possibile fare al di fuori di un letto.
Musica dal vivo? Potevo chiedere un concerto che si stesse svolgendo quella sera stessa a Berkeley; ma un concerto dato dieci anni prima a Londra, col direttore d’orchestra morto da chissà quanto tempo, era altrettanto "dal vivo", altrettanto immediato. Come i programmi in onda quel giorno. I componenti elettronici se ne fregano. Quando dati di qualunque tipo sono stati immessi nella rete, il tempo si ferma. L’unica cosa necessaria è ricordare che tutte le immense ricchezze del passato sono disponibili, ogni volta che le richiedete.
Boss mi mandò a scuola a un terminale di computer, e io ebbi possibilità molto più ricche di quelle mai godute in anni trascorsi da chi avesse studiato a Oxford o alla Sorbona o a Heidelberg.
Dapprima non mi sembrò di essere a scuola. Il primo giorno, a colazione, mi dissero di presentarmi al bibliotecario capo. Era un vecchietto caro e rugoso, il professor Perry, che avevo già conosciuto all’addestramento di base. Pareva sulle spine; comprensibile, visto che la biblioteca di Boss era probabilmente la cosa più voluminosa e complessa che avesse traslocato dall’Impero a Pajaro Sands. Indubbiamente, il professo Perry aveva davanti a sé settimane di lavoro prima che tutto fosse in ordine; e nel frattempo, Boss si sarebbe aspettato solo la perfezione più completa. Il lavoro non era facilitato dall’eccentrica mania di Boss di insistere, per la maggior parte della biblioteca, su libri di carta anziché cassette o microfilm o dischi.
Quando andai da lui, il professor Perry si dimostrò preoccupato, poi mi indicò una consolle in un angolo. — Signorina Friday, perché non vi mettete lì?
— Cosa devo fare?
— Eh? Difficile a dirsi. Senz’altro ce lo spiegheranno. Sentite, al momento sono terribilmente occupato e mi manca il personale. Perché non prendete confidenza con le macchine studiando quello che volete?
Le macchine non avevano nulla di speciale, a parte il fatto che codici speciali davano accesso diretto a diverse grandi biblioteche, come quella di Harvard e la biblioteca di Washington dell’Unione Atlantica e quella del Museo Britannico, senza dover passare per operatori umani o reti elettroniche; oltre all’incomparabile risorsa dell’accesso diretto alla biblioteca di Boss, che avevo lì vicino. Se ne avevo voglia, potevo persino leggermi i suoi volumi rilegati sul mio terminale, girando le pagine con la tastiera, senza mai togliere i libri dalla loro atmosfera all’azoto.
Quel mattino stavo percorrendo ad alta velocità l’indice della biblioteca dell’università di Tulane (una delle migliori nella repubblica della Stella Solitaria), in cerca della storia di Vicksburg vecchia, quando inciampai in un rimando ai diversi tipi di spettri delle stelle e restai agganciata. Non ricordo perché ci fosse quel particolare rimando, ma se ne trovano in continuazione per i motivi più improbabili.
Stavo ancora leggendo dell’evoluzione delle stelle quando il professor Perry propose di andare a pranzo.
Ci andammo, ma prima io presi qualche appunto sui rami della matematica che volevo studiare. L’astrofisica è affascinante, ma bisogna saper parlare la sua lingua.
Quel pomeriggio tornai a Vicksburg vecchia e una nota a piè di pagina mi rimandò a Show Boat, un musical imperniato su quell’epoca; dopo di che, passai il resto della giornata a guardare e ascoltare musical di Broadway, tutti dei giorni felici prima che la Federazione nordamericana andasse in pezzi. Perché al giorno d’oggi non sanno più scrivere musica come quella? Chissà come si divertivano a quei tempi! Io di certo mi divertii. Sentii Show Boat, The Student Prince e My Fair Lady uno dopo l’altro, e ne annotai ancora una dozzina da ascoltare più avanti. (È questo andare a scuola?)
Il giorno dopo decisi di attenermi allo studio di argomenti professionali in cui ero debole, perché ero certa che una volta che i miei precettori (chiunque fossero) mi avessero assegnato un piano educativo preciso, non avrei più avuto tempo per le mie scelte personali: l’addestramento iniziale nell’agenzia di Boss mi aveva insegnato che i giorni dovrebbero essere di ventisei ore. Ma a colazione la mia amica Anna mi chiese: — Friday, cosa puoi dirmi dell’influenza di Luigi Undicesimo sulla poesia francese?
Strizzai le palpebre. — C’è un premio in palio? Luigi Undicesimo mi pare il nome di un formaggio. E l’unico verso francese che ricordi è "Mademoiselle d’Armentières". Ammesso che sia un verso.
— Il professor Perry ha detto che bisogna rivolgersi a te.
— Ti ha presa in giro. — Quando tornai in biblioteca, papà Perry alzò la testa dalla sua consolle. Gli dissi: — Buongiorno. Anna mi ha raccontato che le avete detto di chiedere a me degli effetti di Luigi Undicesimo sulla lirica francese.
— Sì, sì, ovvio. Adesso ti spiacerebbe lasciarmi in pace? Ho per le mani un programma piuttosto complesso. — Riabbassò gli occhi e mi escluse dal suo mondo.
Frustrata e irritata, battei sulla tastiera Luigi XI. Due ore più tardi riemersi a prendere fiato. Non avevo imparato niente di poesia; per quanto ne sapevo, il Re Ragno non era mai arrivato nemmeno a rimare ton con c’est bon, e non era mai stato un mecenate. Però avevo imparato un sacco di cose sulla politica nel quindicesimo secolo. Violenta. Al suo confronto, le scaramucce in cui mi ero trovata coinvolta sembravano liti da asilo infantile.
Passai il resto della giornata a informarmi sulla poesia francese dal 1450 in poi. Bella a tratti. Il francese è adatto alla poesia, più dell’inglese; ci vuole un Edgar Allan Poe per trarre dalle dissonanze dell’inglese un insieme armonico. Il tedesco è inadatto alla lirica, al punto che le traduzioni hanno un suono più dolce degli originali tedeschi. Non certo per colpa di Goethe o di Heine; è un difetto di una brutta lingua. Lo spagnolo è così musicale che uno slogan pubblicitario per un detersivo spagnolo è più gradevole del miglior verso libero in inglese; lo spagnolo è talmente bello che molta della sua poesia risulta più gradevole se chi la sente non capisce il significato.
Non scoprii mai che effetti avesse avuto Luigi XI sulla poesia, posto che ne abbia avuto qualcuno.
Una mattina trovai occupata la "mia" consolle. Lanciai uno sguardo interrogativo al bibliotecario capo. Lui parve di nuovo sulle spine. — Sì, sì, oggi è molto affollato. Friday, perché non usi il terminale nella tua stanza? Ha gli stessi comandi addizionali, e se tu avessi bisogno di consultarmi puoi farlo ancora più in fretta che qui. Batti l’interno sette e il tuo codice personale. Ordinerò al computer di darti la precedenza. Soddisfatta?
— Perfetto — accettai. Mi piaceva il caldo cameratismo della biblioteca, ma nella mia stanza potevo mettermi nuda senza temere di irritare papà Perry. — Oggi cosa devo studiare?
— Dèi del cielo. Non c’è qualche argomento che ti interessi e meriti ulteriori approfondimenti? Disturbare il Numero Uno non mi va.
Andai nella mia stanza e tornai alla storia francese da Luigi XI in poi e questo mi portò alle nuove colonie sull’altro lato dell’Atlantico e questo mi portò all’economia e questo mi portò ad Adam Smith, e da lì alle scienze politiche. Conclusi che Aristotele aveva avuto i suoi giorni buoni, mentre Piatone era solo un pallone gonfiato, e così successe che mi chiamarono tre volte dalla sala da pranzo, e l’ultima chiamata diceva che per i ritardatari ci sarebbero state solo razioni fredde, e ci fu anche un messaggio in diretta di Blondie che minacciò di venire a prendermi per i capelli.
Così corsi giù, a piedi nudi, ancora chiudendo le cerniere della tuta. Anna chiese cosa diavolo stessi facendo di tanto urgente da dimenticarmi di mangiare. — Non è da Friday. — Di solito lei e Blondie e io mangiavamo assieme, con o senza compagnia maschile. Gli ospiti del quartier generale erano un club, una confraternita, una famiglia rumorosa, e più di una ventina di loro erano miei "amici di bacio".
— Miglioravo il mio cervello — risposi. — Hai davanti a te la Massima Autorità Mondiale.
— Autorità su cosa? — chiese Blondie.
— Su tutto. Provate a chiedere. Alle cose facili rispondo subito. Alle difficili risponderò domani.
— Dimostramelo — disse Anna. — Quanti angeli possono stare seduti sulla punta di un ago?
— Questa è facile. Misura il sedere degli angeli. Misura la punta dell’ago. Dividi A per B. La risposta numerica viene lasciata come esercizio per lo studente.
— Furbona. Che suono fa il battito di una sola mano?
— Ancora più facile. Accendi un registratore, servendoti del terminale più vicino. Batti con una sola mano. Ascolta il risultato.
— Provaci tu, Blondie. Questa ha mangiato troppo pesce.
— Quanti abitanti ha San José?
— Ah, domanda difficile! Ti farò sapere domani.
Questi giochetti continuarono per oltre un mese, finché non mi baluginò nel cranio che qualcuno (Boss, ovviamente) stava davvero cercando di costringermi a diventare la Massima Autorità Mondiale.
Un tempo è davvero esistito un uomo noto come "Massima Autorità Mondiale". Lo incocciai mentre cercavo la risposta a una delle tante stupide domande che continuavano ad arrivarmi dalle fonti più strane. Così: mettete il terminale su "ricerca". Battete in successione i parametri "Cultura nordamericana", "Lingua inglese", "Metà del ventesimo secolo", "Commediografi", "Massima Autorità Mondiale". La risposta che potete aspettarvi è "Professor Irwin Corey". Scoprirete che i suoi sono aforismi di umorismo eterno.
Nel frattempo io venivo nutrita a forza, come un’oca di Strasburgo.
Comunque fu un periodo molto felice. Spesso, più spesso sì che no, uno dei miei veri amici mi invitava a dividere il letto. Non ricordo di aver mai rifiutato. Di solito l’appuntamento veniva definito durante l’abbronzatura del pomeriggio, e la prospettiva aggiungeva un brivido al piacere sensuale di stare sdraiata sotto il sole. E siccome lì tutti erano civili, di una dolcezza enorme, era possibile rispondere: "Mi spiace, me lo ha già chiesto Terence. Magari domani? No? Okay, allora uno di questi giorni" senza scatenare risentimenti. Uno dei difetti del gruppo-S cui appartenevo era che questi accordi venivano negoziati dai maschi in base a un protocollo che non mi è mai stato spiegato ma che non era esente da tensioni.
Il ritmo delle domande stupide accelerò. Cominciavo appena ad addentrarmi nei particolari delle ceramiche Ming quando sul mio terminale apparve un messaggio: qualcuno dello staff voleva conoscere i rapporti tra barbe maschili, gonne femminili, e il prezzo dell’oro. Avevo smesso di meravigliarmi per le domande idiote; attorno a Boss può succedere di tutto. Ma questa mi sembrava superidiota. Perché mai doveva esistere qualche rapporto? Le barbe maschili non mi interessano; pungono e sono spesso sporche. In quanto alle gonne, ne sapevo ancora meno. Non le ho quasi mai portate. I vestiti a gonna possono essere carini, però non sono pratici per viaggiare e mi avrebbero fatta uccidere tre o quattro volte; e quando sei a casa, che c’è di male nello starsene nudi? Almeno fino a dove lo permettono i costumi locali.
Ma avevo imparato a non ignorare le domande solo in base alla loro ovvia idiozia. Mi tuffai in quella richiamando tutti i dati possibili, e arrivai a battere sulla tastiera le associazioni più improbabili. Dopo di che dissi alla macchina di tabulare per categorie i dati che aveva trovato.
Mi venga un colpo se non scoprii dei rapporti!
Con l’accumularsi dei dati, conclusi che l’unico modo per avere una visuale generale era ordinare al computer di preparare e mostrarmi un grafico tridimensionale; e il grafico era così promettente che gli dissi di trasformarlo in un ologramma a colori. Splendido! Non sapevo perché quelle tre variabili combaciassero fra loro, ma combaciavano. Trascorsi il resto della giornata a variare i rapporti, X rispetto a Y rispetto a Z in diverse combinazioni; ingrandendo, restringendo, ruotando, cercando relazioni cicloidi meno grandi e meno ovvie di quelle più appariscenti… E notai una piccola gobba sinusoidale che tornava di continuo con le rotazioni dell’olo; e all’improvviso, senza un motivo comprensibile, decisi di togliere la curva dell’attività delle macchie solari.
Eureka! Preciso e necessario come un vaso Ming! Prima di cena avevo l’equazione, un’unica riga che comprendeva tutti i dati cretini che avevo impiegato cinque giorni a estrarre dal terminale. Battei il numero del capo dello staff e trasmisi l’equazione, più le definizioni delle variabili. Non aggiunsi commenti, discussioni; volevo costringere il burlone senza nome a chiedere le mie opinioni.
Ottenni la stessa risposta di sempre, cioè nessuna.
Giocherellai quasi per un giorno intero, aspettando, dimostrando a me stessa che potevo richiamare una foto di gruppo di qualunque anno e indovinare con buona approssimazione, solo guardando i visi maschili e le gambe femminili, il prezzo dell’oro (cali e rialzi), il periodo della foto in relazione al doppio ciclo delle macchie solari; e (dopo un po’, il che mi sorprese più di tutto il resto) riuscii anche a indovinare se la struttura politica era in fase di consolidamento o disgregazione.
Il mio terminale squillò. Nessun viso. Niente pacche sulle spalle. Solo un messaggio: — Si richiede al più presto un’analisi approfondita sulla possibilità che le epidemie di peste dei secoli sesto, quattordicesimo e diciassettesimo siano risultate da una cospirazione politica.
Wow! Ero finita in un manicomio e adesso ero chiusa a chiave con i suoi ospiti.
Al diavolo. Il problema era così complesso che per permettermi di studiarlo avrebbero dovuto lasciarmi in pace per un bel po’. La cosa mi stava bene. Ormai mi ero assuefatta alle possibilità del terminale di un computer coi fiocchi collegato a una rete di ricerca dati su scala mondiale; mi sentivo come Little Jack Horner.
Cominciai con l’elencare, per libera associazione, tutti gli argomenti possibili: peste, epidemiologia, pulci, topi, Daniel Defoe, Isaac Newton, cospirazioni, Guy Fawkes, massoneria, iniziati, Cabala, Rosacroce, Kennedy, Oswald, John Wilkes Booth, Pearl Harbor, Berretti Verdi, influenza spagnola, contenimento territoriale della peste, eccetera.
Tre giorni dopo, il mio elenco di possibili argomenti correlati alla domanda era dieci volte più lungo.
Nel giro di una settimana sapevo che una vita non sarebbe bastata a studiare in profondità tutto il mio elenco. Però mi avevano detto di mettermi all’opera, così cominciai, dando comunque una mia definizione a "al più presto": studiavo coscienziosamente per almeno cinquanta ore la settimana, ma come e quando volevo, senza farmi fretta o sentirmi assillata… A meno che non fosse arrivato qualcuno a spiegarmi perché avrei dovuto lavorare più sodo o in maniera diversa.
La cosa continuò per settimane.
Venni svegliata nel cuore della notte dal mio terminale. Chiamata d’emergenza; andando a letto (sola, non ricordo perché) lo avevo spento come al solito. Risposi insonnolita: — Va bene, va bene! Parla, e sarà meglio per te che il discorsetto sia robusto.
Nessuna immagine. La voce di Boss disse: — Friday, quando si verificherà la prossima grande epidemia di Morte Nera?
Risposi: — Fra tre anni. In aprile. Partirà da Bombay e si diffonderà immediatamente nel mondo. Uscirà dal pianeta con la prima nave.
— Grazie. Buonanotte.
Lasciai ricadere la testa sul cuscino e mi rimisi diritta a sognare.
Mi svegliai alle sette in punto come sempre, restai immobile per diversi istanti e pensai, avvertendo un freddo sempre più forte; decisi che Boss mi aveva davvero chiamata nel mezzo della notte e che gli avevo dato quella risposta assurda.
Quindi ingoia il rospo, Friday, e sali i Tredici Scalini. Premetti l’interno uno. — Friday, Boss. Invoco l’infermità mentale temporanea per quello che ti ho detto stanotte.
— Idiozie. Ci vediamo alle dieci e quindici.
Ero tentata di passare le tre ore seguenti nella posizione del loto, a intonare mantra. Ma nutro la profonda convinzione che non ci si debba presentare nemmeno alla Fine del Mondo senza una buona colazione… Una decisione più che giustificata, visto che i piatti speciali per quel mattino erano fichi freschi con panna, stufato di manzo sotto sale con uova in camicia, e tartine all’inglese con marmellata d’arancia Knott’s Berry Farm. Latte fresco. Caffè colombiano di montagna. Tutto questo migliorò talmente la situazione che passai un’ora a cercare un rapporto matematico fra la storia passata della peste e la data che si era affacciata nella mia mente obnubilata dal sonno. Non ne trovai nessuno, però cominciavo a vedere che la curva prendeva forma quando il terminale, che avevo programmato in precedenza, mi avvertì che mancavano tre minuti.
Non mi ero fatta tagliare i capelli e rasare il collo, ma per il resto ero pronta. Mi presentai allo scoccare dell’ora. — Friday a rapporto, signore.
— Siediti. Perché Bombay? Credevo che Calcutta fosse un epicentro più adatto.
— Forse c’entrano le previsioni del tempo a lungo raggio e i monsoni. Le pulci non sopportano il caldo secco. L’ottanta per cento della massa corporea di una pulce è acqua, e se la percentuale scende al di sotto del sessanta, la pulce muore. Quindi i climi caldi e secchi fermeranno o impediranno un’epidemia. Però, Boss, questa faccenda non ha senso. Mi hai svegliata nel cuore della notte e mi hai fatto una domanda stupida e io ti ho dato una risposta stupida senza nemmeno svegliarmi. Probabilmente è uscita da un mio sogno. Ho avuto incubi sulla Morte Nera, e c’è stata davvero una brutta epidemia che è iniziata a Bombay. Milleottocentonovantasei e anni successivi.
— Non brutta quanto la fase di Hong Kong, tre anni dopo. Friday, la sezione analisi delle Operazioni dice che la prossima epidemia di Morte Nera inizierà solo un anno dopo la tua previsione. E non a Bombay. A Giacarta e Ho Chi Minh City.
— Assurdo! — Mi fermai subito. — Chiedo scusa, signore. Devo essere tornata a quell’incubo. Boss, non posso studiare qualcosa di più piacevole che pulci e topi e Morte Nera? Mi sto rovinando il sonno.
— Concesso. Hai finito di studiare la peste…
— Urrà!
— …Almeno fin dove la tua curiosità intellettuale non ti spingerà a voler risolvere gli interrogativi in sospeso. Adesso la faccenda passa alle Operazioni per l’azione. Ma l’azione si baserà sulle tue previsioni, non su quelle degli analisti matematici.
— Devo ripeterlo, la mia predizione è stupida.
— Friday, il tuo più grande punto debole è non essere consapevole della tua vera forza. Non faremmo la figura dei cretini se ci affidassimo agli analisti professionisti e poi l’epidemia scoppiasse un anno prima, come hai predetto tu? Catastrofe. Invece partire con le misure profilattiche con un anno d’anticipo non farà alcun male.
— Cercheremo di fermarla? — (Gli uomini hanno combattuto contro topi e pulci per tutta la loro storia. Per il momento, topi e pulci sono in vantaggio.)
— Cielo, no! In secondo luogo, l’impresa sarebbe troppo grossa per questa organizzazione. Ma in primo luogo io non accetto incarichi che non posso portare a termine, come sarebbe questo. In terzo luogo, dal punto di vista strettamente umanitario, ogni tentativo di fermare i processi che permettono alle città sovraffollate di spurgarsi non è giusto. La peste è una brutta morte, però è veloce. Anche la morte per fame è brutta… ma è molto lenta.
Boss fece una smorfia, poi continuò: — Questa organizzazione si limiterà al problema di impedire alla Pasteurella pestis di lasciare il pianeta. Come dobbiamo fare? Rispondi immediatamente.
(Ridicolo! Il ministero della Sanità di qualunque governo, posto di fronte a un interrogativo del genere, organizzerebbe un gruppo di studio ben paludato, esigerebbe ampi fondi per la ricerca, e prevederebbe un tempo ragionevole, cinque anni o più, per l’accurata indagine scientifica.) Io risposi immediatamente: — Facciamole esplodere.
— Le colonie spaziali? Mi sembra una soluzione drastica.
— No, le pulci. All’epoca delle guerre globali del ventesimo secolo qualcuno scoprì che le pulci e i pidocchi si possono uccidere trasferendoli ad alta quota. Esplodono. Basta un’altitudine di cinque chilometri circa, se ricordo bene, ma si può controllare e verificare sperimentalmente. Mi è venuto in mente perché ho notato che la Piantadifagiolo di Monte Kenia si trova al di sopra della quota critica, e quasi tutto il traffico spaziale si serve delle Piantadifagiolo. Poi c’è il metodo più semplice del caldo secco. Funziona, ma è più lento. Comunque la chiave essenziale, Boss, è non fare assolutamente eccezioni. Un solo caso di immunità diplomatica, un Vip esonerato dalle misure standard, e siamo fritti. Un solo cagnolino. Un topolino. Una fornitura di animali per laboratorio. Se l’epidemia assumesse la forma polmonare, Elle-Cinque sarebbe una città fantasma in una settimana. O Luna City.
— Se non avessi altro lavoro per te, ti metterei a capo dell’operazione. E per i topi?
— Non voglio questo incarico. Ho la nausea. Boss, uccidere un topo non è un problema. Infilalo in un sacco. Picchia sul sacco con un’accetta. Poi sparagli. Poi affogalo. Brucia il sacco col topo morto dentro. Intanto sua moglie avrà svezzato un’altra cucciolata, e avrai una dozzina di topi al posto di quello che hai ucciso. Boss, coi topi al massimo siamo riusciti a frenarli un po’. Non abbiamo mai vinto. Se tirassimo il fiato un attimo, passerebbero in vantaggio loro. — Aggiunsi, cupa: — Penso siano la squadra di riserva. — Lo studio della peste mi aveva depressa.
— Delucida.
— Se l’Homo sapiens non ce la fa, e sta cercando in tutti i modi di eliminarsi da solo, i topi sono pronti a prendere il timone.
— Balle. Sciocchezze nevrotiche. Friday, tu enfatizzi troppo il desiderio umano di morire. Da generazioni abbiamo i mezzi per commettere il suicidio razziale, e quei mezzi sono oggi e sono stati in molte mani. Non ci siamo suicidati. In secondo luogo, per sostituirci i topi dovrebbero farsi crescere crani enormemente più grandi, sviluppare corpi che li sostengano, imparare a camminare su due zampe, trasformare le zampe anteriori in delicati organi di manipolazione, e far crescere altra corteccia cerebrale per controllare il tutto. Per sostituire l’uomo, un’altra razza deve diventare l’uomo. Bah. Lascia perdere. Prima di abbandonare l’argomento della peste, a che conclusioni sei arrivata sulla teoria della cospirazione?
— È un’idea balorda. Hai indicato specificamente sesto, quattordicesimo e diciassettesimo secolo, il che significa navi o carovane in grado di spostarsi e nessuna conoscenza di batteriologia. Prendiamo il nostro sinistro dottor Fu Manchu. Se ne sta chiuso nel suo nascondiglio, alleva un milione di topi, e tutti i topi sono infetti dal bacillo; anche senza conoscenze teoriche, ammettiamolo. Ma come fa a colpire la città che ha scelto per bersaglio? Via mare? In pochi giorni i suoi milioni di topi sarebbero morti, assieme all’equipaggio della nave. Via terra sarebbe ancora più difficile. Portare avanti una cospirazione del genere in quei secoli richiederebbe la scienza moderna e una macchina del tempo gigante. Boss, chi ha partorito quella stupida domanda?
— Io.
— Mi pareva che avesse il tuo tocco. Perché?
— Ti ha spinta a studiare l’argomento con un’angolazione molto ampia. Se no non lo avresti fatto, giusto?
— Uh… — Avevo trascorso molto più tempo a studiare i fatti storici significativi che la malattia in sé. — Suppongo di sì.
— Lo sai.
— Okay, sì. Però guarda, Boss, non esiste una cospirazione ben documentata. A volte sono anche troppo ben documentate, solo che i documenti si contraddicono a vicenda. Se una cospirazione si è verificata un po’ di tempo fa, una generazione fa o più, diventa impossibile stabilire la verità. Hai mai sentito parlare di un certo John F. Kennedy?
— Sì. Capo di stato, alla metà del ventesimo secolo, della Federazione che all’epoca occupava il territorio fra il Canada, il Canada Britannico e il Québec, e il Regno Messicano. Lo hanno assassinato.
— Esatto. È stato ucciso davanti a centinaia di testimoni, e ogni aspetto dell’omicidio, prima, durante e dopo, è abbondantemente documentato. Una montagna di documenti che si riassume in questo: nessuno sa chi gli abbia sparato, in quanti gli abbiano sparato, quante volte, chi sia stato, perché, e chi fosse coinvolto nella cospirazione, se esisteva una cospirazione. Non è nemmeno possibile stabilire se le fila dell’omicidio fossero rette dall’esterno o dall’interno. Boss, se è impossibile sbrogliare una matassa così recente e indagata tanto a fondo, che possibilità ci sono di decifrare nei dettagli la cospirazione che ha ucciso Caio Giulio Cesare? O di svelare il mistero di Guy Fawkes e della Congiura delle Polveri? L’unica cosa che si può dire è che i vincitori scrivono le versioni ufficiali che si trovano nei libri di storia, una storia che non è più onesta di un’autobiografia.
— Friday, di solito l’autobiografia è onesta.
— Wow! Boss, cosa hai fumato di recente?
— Basta così. In genere l’autobiografia è onesta ma non è mai veritiera.
— Mi è sfuggito qualcosa.
— Pensaci. Friday, oggi non posso dedicarti altro tempo. Chiacchieri troppo e cambi spesso argomento. Frena la lingua mentre ti dico alcune cose. D’ora in poi sei assegnata in permanenza al lavoro di staff. Stai invecchiando; senza dubbio i tuoi riflessi sono un poco più lenti. Non rischierò più la tua vita in missioni operative…
— Non mi sono mai lamentata!
— Chiudi il becco. Però non devi diventare sedentaria. Passa meno tempo alla consolle e più tempo in esercizi fisici. Arriverà il giorno che i tuoi riflessi super ti salveranno un’altra volta la vita. E forse salveranno anche le vite degli altri. Nel frattempo, pensa al giorno in cui dovrai strutturare la tua vita senza alcuna assistenza. Dovresti lasciare questo pianeta. Qui per te non c’è niente. La balcanizzazione del Nord America ha posto fine all’ultima possibilità di invertire il degrado della civiltà rinascimentale. Quindi dovresti riflettere su diverse possibilità planetarie, non solo all’interno del sistema solare ma altrove. Pianeti che vanno dal molto primitivo al ben civilizzato. Per ognuno d’essi studia il costo e i vantaggi di un’eventuale emigrazione. Ti serviranno soldi. Vuoi che i miei agenti recuperino il denaro di cui sei stata derubata in Nuova Zelanda?
— Come sai che mi hanno derubata?
— Andiamo, andiamo! Non siamo mica bambini.
— Posso pensarci?
— Sì. Per quanto riguarda la tua emigrazione, ti raccomando di non trasferirti sul pianeta Olympia. Per il resto non ho consigli particolari, a parte quello di emigrare. Quando ero più giovane credevo di poter cambiare il mondo. Oggi non lo credo più, ma per ragioni emotive devo continuare la mia battaglia di resistenza. Tu invece sei giovane, e in forza della tua origine unica, singolare, i tuoi legami emotivi con questo pianeta e questa parte di umanità non sono grandi. Non ho potuto parlarne prima che tu spezzassi i tuoi rapporti sentimentali in Nuova Zelanda…
— Non li ho spezzati. Mi hanno cacciata a calci in culo!
— Come vuoi. Intanto che decidi, guardati la parabola del fischietto di Benjamin Franklin, poi sappimi dire… no, chiedilo a te stessa… se non hai pagato troppo per il tuo fischietto. Adesso basta. Ho due incarichi per te. Studia il complesso di società Shipstone, compresi i collegamenti al di fuori del complesso vero e proprio. Secondo, la prossima volta che ci vediamo voglio che tu mi dica esattamente da cosa si individua una cultura malata. È tutto.
Boss spostò l’attenzione sulla consolle, così mi alzai. Ma non ero pronta ad accettare un congedo tanto brusco; non ero riuscita a fargli domande importanti. — Boss. Non ho compiti precisi? Solo studi casuali che non vanno da nessuna parte?
— Vanno da qualche parte. Sì, hai compiti precisi. Primo, studiare. Secondo, essere svegliata nel cuore della notte, o fermata in corridoio, per domande stupide.
— Solo questo?
— Cosa vuoi? Angeli e trombe?
— Be’… Un titolo professionale, magari. Prima ero un corriere. Adesso cosa sono? Il buffone di corte?
— Friday, stai sviluppando una mentalità burocratica. Titolo professionale. Molto bene. Sei analista intuitivo e farai rapporto solo a me. Però il titolo comporta un’ingiunzione. Ti è proibito discutere di qualcosa di più serio di una partita a carte con qualunque membro della sezione analisti del nostro staff. Dormici pure assieme, se vuoi… so che lo hai fatto, in due casi… ma limita la conversazione ai luoghi comuni più banali.
— Boss, a volte vorrei che tu passassi meno tempo sotto il mio letto!
— Solo quanto basta per proteggere l’organizzazione. Friday, sai benissimo che l’attuale mancanza di Occhi e Orecchie significa solo che sono nascosti. Stai certa che per proteggere l’organizzazione non mi vergogno di nulla.
— Tu non ti vergogni di nulla in assoluto. Boss, rispondi a un’altra domanda. Chi c’è dietro il Giovedì Rosso? La terza ondata si è evaporata. Ce n’è stata una quarta? Cos’è tutta questa faccenda?
— Studiala da te. Se te lo dicessi, non sapresti. Avresti sentito una risposta e basta. Studiala attentamente e una di queste notti, quando dormirai sola, te lo chiederò. Tu mi risponderai, e allora saprai.
— Cristo santo. Lo sai sempre quando dormo da sola?
— Sempre. — Aggiunse: — In libertà — e girò la testa.