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«Mi fa davvero piacere rivedervi finalmente tutti quanti» disse Gibson, trasportando cautamente le bibite dal piano del bar. «E adesso chissà che cosa combinerete qui a Porto Lowell. Immagino che la prima mossa sarà quella di rimettervi in contatto con le ragazze del posto.»

«Il che non è mai un’impresa facile» disse Norden.

«Di solito, da un viaggio all’altro le ritroviamo sposate, quindi bisogna andarci con molto tatto. A proposito, George, che ne è della signorina Mackinnon?»

«Vuoi alludere alla signora Henry Lewis, comandante» lo corresse George, «madre di un bambino molto bello.»

«Pazienza!» sospirò Norden. «Speriamo che mi abbiano lasciato una fetta di torta nuziale. Alla tua salute, Martin.»

«E a quella dell’Ares» soggiunse Gibson facendo tintinnare il bicchiere contro quello dell’amico. «Mi auguro che l’abbiate rimessa insieme a dovere. Quando vi ho lasciati era alquanto malridotta.»

Norden rise.

«Le rimetteremo a posto la corazza solo dopo che avremo rifatto il carico. Ma non c’è pericolo che si rovini per eccesso di pioggia.»

«Che ne pensi di Marte, Jimmy?» chiese Gibson. «Tu sei il solo nuovo qui, oltre a me.»

«Non ho ancora visto quasi niente» rispose Jimmy con prudenza. «Però tutto, qua dentro, mi sembra di dimensioni ridotte.»

«Ricordo che quando eravamo su Deimos dicevi giusto il contrario, ma probabilmente te ne sei dimenticato. Quella volta eri leggermente sbronzo.»

«Non sono mai stato sbronzo in vita mia!» protestò Jimmy sdegnato.

«Allora ti faccio i miei complimenti perché in quell’occasione hai fatto una perfetta imitazione dell’ubriaco; e io ci sono cascato in pieno. Ma m’interessa quello che dici perché io ho avuto la tua stessa impressione subito dopo i primi due giorni, cioè dopo aver visto tutto quello che c’era da vedere dentro le cupole. C’è un solo rimedio: uscire e sgranchirsi le gambe. Per il momento ho girellato solo un po’ a piedi qua attorno, ma adesso sono finalmente riuscito a mettere le mani su una pulce del deserto della società trasporti. Domani voglio andare a fare una bella corsa fra le colline. Vuoi venire anche tu?»

Gli occhi del ragazzo brillarono di gioia.

«Oh, grazie! Ne sarei felicissimo!»

«E noi?» disse Norden.

«Voi ci siete già stati» disse Gibson. «Ma siccome c’è un terzo posto, giocatevelo ai dadi per decidere chi deve venire. Bisogna che ci prendiamo un autista autorizzato altrimenti non ci permetteranno di viaggiare con uno dei loro preziosi veicoli, e in fondo non si può dar loro torto.»

Fu Mackay a vincere la gita offerta da Gibson, dopo di che gli altri si affrettarono a dichiarare che in fondo non ci tenevano, perché non avevano nessuna voglia di muoversi.

«Be’, questo sistema tutto» disse Gibson. «Trovatevi alla sezione trasporti, Cupola Quattro, domattina alle dieci. Adesso devo lasciarvi. Ho tre articoli che mi aspettano, o per essere esatti, un articolo con tre titoli diversi.»

Gli esploratori s’incontrarono in perfetto orario, dotati di tutto l’equipaggiamento protettivo che avevano ricevuto al loro arrivo ma che sino a quel momento non avevano avuto occasione di usare, e che comprendeva un casco, i cilindri per l’ossigeno, un purificatore d’aria, insomma tutto quello che era necessario per una gita all’aperto su Marte durante una giornata calda, nonché una tuta termica fornita di speciali pile a secco grazie a cui si poteva stare caldi e a proprio agio anche se la temperatura esterna scendeva a cento sotto zero, e che portarono con sé in quella gita solo per misura precauzionale, nel caso che un guasto alla pulce li costringesse a un’assenza prolungata dalla città.

Il pilota dell’automezzo era un giovane geologo dall’aspetto particolarmente robusto, il quale affermava di aver trascorso più di metà del suo tempo, da quando si trovava su Marte, all’aperto, fuori di Porto Lowell. Dava l’impressione di sapere il fatto suo, e Gibson non trovò difficoltà ad affidargli la sua preziosa esistenza.

«Queste macchine si guastano spesso?» chiese mentre salivano sulla pulce.

«No, state tranquillo. Hanno uno straordinario margine di sicurezza ed è veramente molto difficile commettere un errore di manovra. Certo, qualche volta capita che un guidatore inesperto si insabbi, ma anche in questo caso è facile tirarsi fuori da soli usando la manovella a mano. Nel mese scorso è successo soltanto un paio di volte che qualcuno abbia dovuto tornare indietro a piedi.»

«Speriamo di non essere noi i terzi» disse Mackay, mentre il veicolo s’infilava nel compartimento stagno.

«Io non me ne preoccuperei» disse il conducente ridendo, mentre aspettavano che si aprisse la porta esterna. «Non ci allontaneremo molto dalla base, quindi potremo sempre tornare indietro senza troppa fatica anche se succedesse qualche inconveniente.»

Sospinti da un colpo di corrente percorsero velocemente l’ultimo tratto del compartimento e uscirono dalla città. Nel vivido e basso tappeto vegetale era stato tagliato un passaggio, una specie di viottolo che circondava la cupola e da cui partivano altre strade che portavano alle vicine miniere, alla stazione radio, all’osservatorio in cima a un’altura, e alla pista di atterraggio dove in quel preciso momento si stava procedendo allo scarico della merce dell’Ares trasportata con i razzi-traghetto in continuo viavai da e per Deimos.

«Ecco» disse il conducente fermandosi al primo incrocio. «Sono a vostra completa disposizione. Da che parte volete andare?»

Gibson stava litigando con una carta geografica troppo grande per le proporzioni della minuscola cabina.

La loro guida diede un’occhiata di disprezzo alla carta.

«Non so proprio dove abbiate scovato quella roba» disse. «Probabilmente ve l’hanno data all’Amministrativo, ma ha l’età di Adamo ed Eva. Se mi dite dove volete che vi porti, vedrete che me la caverò benissimo senza bisogno di consultare quella roba.»

«Come volete» disse Gibson. «Io direi di salire un po’ sulle colline e di dare un’occhiata intorno. Andiamo all’Osservatorio.»

La pulce si lanciò con un balzo all’assalto della strada e ben presto il verde luminoso che li circondava si confuse in una macchia stemperata, priva di contorni.

«Che velocità raggiungono questi aggeggi?» chiese Gibson quando fu riuscito a districarsi dalle ginocchia di Mackay sulle quali era andato a finire.

«Su una strada buona possono fare i cento; ma siccome di strade buone su Marte non ce ne sono, dobbiamo rassegnarci a un’andatura da lumaca. Adesso siamo sui sessanta, ma su terreno accidentato si è fortunati a mantenere una media di trenta.»

«E che autonomia hanno?» chiese Mackay, con una evidente punta d’inquietudine.

«Un buon migliaio di chilometri con una sola carica, compresa l’energia per il riscaldamento, la cucina eccetera. Ma per viaggi lunghi di solito ci portiamo dietro un rimorchio con batterie di ricambio. Il massimo sinora raggiunto è di circa cinquemila chilometri. Io personalmente ne ho percorsi tremila, quando facevo rilievi e misurazioni di terreno ad Argyra. In occasioni del genere però i rifornimenti vengono paracadutati.»

Erano in viaggio solo da pochi minuti, ma già Porto Lowell stava scomparendo all’orizzonte.

Riapparve di lì a poco, non appena la pulce cominciò a salire l’altura. Le colline intorno a Porto Lowell non raggiungevano i mille metri d’altezza, ma costituivano comunque un ottimo riparo contro i freddi venti invernali che soffiavano da sud, e nello stesso tempo offrivano buone posizioni per la stazione radio e l’Osservatorio.

Raggiunsero la stazione radio mezz’ora dopo aver lasciato la città. Sentendo che era venuto il momento di sgranchirsi un poco le gambe si misero le maschere e scesero dalla pulce passando a uno a uno dall’angusto compartimento stagno di materiale plastico pieghevole.

Non si poteva certo dire che il panorama fosse straordinario. A nord, le cupole di Porto Lowell galleggiavano come bolle di spuma lattea su un mare di smeraldo. Verso occidente Gibson colse una rapida visione vermiglia del deserto che fasciava l’intero pianeta. Poiché le creste delle colline lo sovrastavano, sia pure di poco, non riuscì a spingere lo sguardo a sud, ma sapeva che in quella direzione la verde striscia vegetale si allungava per parecchie centinaia di chilometri sino a perdersi nel Mare Erythraeum. Lì sul ciglio delle colline non c’erano piante, forse per la mancanza di umidità.

Si diresse verso la stazione radio, che essendo completamente automatizzata non gli diede la possibilità di chiacchierare con gli addetti come era solito fare. Si riteneva però sufficientemente preparato da intuirne il funzionamento. Il gigantesco riflettore parabolico era in posizione quasi orizzontale, puntato un poco a est rispetto allo zenith, puntato cioè verso la Terra che in quel periodo distava dal pianeta soltanto sessanta milioni di chilometri e si trovava tra Marte e il Sole.

La voce di Mackay, resa curiosamente sottile dall’atmosfera rarefatta, lo fece volgere di scatto. «Qualcuno sta per atterrare laggiù, verso destra.»

Gibson ebbe qualche difficoltà a individuare il piccolo razzo a freccia che si muoveva velocissimo nel cielo. Il traghetto si librò sulla città e si perse dietro le cupole per raggiungere la pista di atterraggio. Gibson si augurò che gli portasse il resto del bagaglio, dal quale era rimasto separato troppo a lungo.

L’Osservatorio sorgeva quattro o cinque chilometri più a sud, proprio sul ciglio della collina, dove le luci di Porto Lowell non correvano il rischio di disturbare l’opera degli scienziati. Gibson aveva sperato di vedere le specole scintillanti che sulla Terra contraddistinguono il luogo di lavoro degli astronomi, ma lì la cupola era costituita dalla solita bolla in materiale plastico dei quartieri di abitazione. Gli strumenti si trovavano all’aperto, e soltanto nel rarissimo caso di maltempo venivano ricoperti.

Il posto, a mano a mano che la pulce si avvicinava, sembrava completamente deserto. Si fermarono accanto allo strumento principale, un riflettore a specchio del diametro inferiore a un metro. Era sorprendentemente piccolo per far parte delle installazioni astronomiche del massimo osservatorio marziano. C’erano poi due minuscoli rifrattori, e un complicato aggeggio orizzontale. Mackay spiegò che era un telescopio a specchio girevole sull’asse orizzontale. Oltre alla cupola pressurizzata, non c’erano altri edifici.

All’interno però doveva esservi qualcuno, perché davanti all’ingresso era ferma una piccola pulce del deserto.

«Sono gente molto socievole» disse il giovane geologo mentre fermava il veicolo. «Qui la vita è assai monotona, e loro sono sempre felici di vedere qualcuno. Inoltre, sotto la cupola avremo la possibilità di sgranchirci le gambe e di mangiare in santa pace.»

«Ma non possiamo pretendere che ci preparino loro il pranzo» protestò Gibson, al quale seccava moltissimo di dover incorrere in obblighi che non gli era possibile ricambiare immediatamente.

Il giovane scienziato lo guardò sorpreso, quindi scoppiò in una sonora risata.

«Qui non siamo sulla Terra, sapete? Su Marte tutti si aiutano a vicenda… per forza. Altrimenti non si concluderebbe mai niente. Io però ho portato un po’ di provviste. Mi basta soltanto usare la loro cucina. Cucinare nell’interno di una pulce con quattro persone a bordo è alquanto scomodo.»

Come il geologo aveva preannunciato, i due astronomi di turno li accolsero con entusiasmo, e poco dopo, l’impianto d’aria condizionata della piccola cupola di plastica fu sottoposto a un superlavoro per sbarazzare l’ambiente degli odori della cucina. Mackay aveva subito agganciato l’astronomo più anziano, intavolando con lui una discussione tecnica sul lavoro dell’Osservatorio. Gibson non ne capiva quasi niente ma cercò lo stesso di assorbire il più possibile e di far tesoro di quella conversazione.

A quanto pareva la maggior parte del lavoro sbrigato nell’Osservatorio riguardava l’astronomia di posizione, cioè consisteva nel compito noioso ma importantissimo di trovare le latitudini e le longitudini, controllare l’esattezza dei segnali orario eccetera. Di lavoro d’osservazione se ne faceva pochissimo: di questo se ne occupavano già da molto tempo gli strumenti installati sulla Luna terrestre, e i piccoli telescopi dell’Osservatorio marziano, che erano oltretutto intralciati dalla presenza di un’atmosfera, non potevano certo competere con quelli. Erano state misurate le parallassi di alcune stelle più vicine, ma la maggior precisione offerta dalla più vasta orbita marziana era talmente lieve da rendere pressoché inutili gli sforzi in questo senso.

Dopo il pasto, gli ospiti furono invitati a dare un’occhiata nel grande riflettore. Poiché si era alle prime ore del pomeriggio, Gibson non avrebbe mai immaginato che ci fosse molto da vedere, ma era un glosso errore da parte sua, come non doveva tardare ad accorgersi.

Sospesa nel campo visivo, contro al cielo quasi nero, vicino allo zenith, Gibson vide una bellissima falce perlacea simile a una luna di tre giorni. Sul tratto illuminato recava chiaramente visibili alcuni rilievi, ma per quanto lo scrittore aguzzasse gli occhi al massimo non gli fu possibile di individuarli. Troppa parte del pianeta era in ombra perché lui potesse discernere i continenti maggiori.

Non molto lontano, ma assai più piccola e più pallida, aleggiava un’altra mezzaluna, lungo il cui orlo Gibson poté distinguere con facilità qualcuno tra i crateri più noti. Formavano davvero una bella coppia i corpi gemelli Terra e Luna, ma apparivano talmente remoti ed eterei che Gibson non provava più alcuna nostalgia e alcun rimpianto per tutto quello che vi aveva lasciato.

Uno dei due astronomi gli stava parlando, il casco vicinissimo al suo.

«Quando è buio si possono vedere le luci delle città, sul lato notturno. New York e Londra si distinguono benissimo. Lo spettacolo più bello però è il riflesso del sole sul mare. Lo si nota vicino all’orlo del disco quando non c’è nuvolaglia… è come una stella brillantissima e tremula. Adesso però non è visibile perché quello che si vede sul tratto della falce è quasi tutta terraferma.»

Quando non ci fu proprio più niente di nuovo da vedere, si accomiatarono dai due astronomi che li salutarono con un po’ di tristezza quando la pulce si allontanò seguendo la cresta della collina. Il giovane geologo disse che intendeva fare un piccolo giro per raccogliere alcuni campioni di roccia, e poiché per Gibson una parte di Marte equivaleva all’altra, lo scrittore non fece obiezioni.

Sulle colline non esistevano vere e proprie strade, ma in epoche remotissime ogni asperità del suolo era stata livellata cosicché il terreno appariva ora perfettamente liscio e piano. Qua e là qualche masso ostinato sporgeva ancora dalla superficie uniforme del pianeta, offrendo un contrasto caleidoscopico di colori e forme, ma erano ostacoli facilmente aggirabili. Un paio di volte notarono piccoli alberi, se così si potevano chiamare, di una specie che Gibson non aveva mai visto prima. Più che alberi sembravano rami di corallo, rigidi e pietrificati. A detta del geologo, la loro età era incalcolabile poiché, per quanto fossero certamente vivi, nessuno era ancora riuscito a calcolarne la velocità di crescita. Certo non potevano avere meno di 50.000 anni. Il loro sistema di riproduzione era un mistero assoluto.

Verso la metà del pomeriggio, giunsero a una bassa roccia splendidamente colorata. Ponte dell’Arcobaleno la chiamò il geologo, e richiamò irresistibilmente alla memoria di Gibson un fiammeggiante canyon dell’Arizona, anche se in scala minore. Smontarono dalla pulce, e mentre lo scienziato raccoglieva i suoi campioni, Gibson scattò tutto un rullino di pellicola a colori portata con sé appunto per occasioni simili.

«Sarà bene avviarci, se vogliamo essere a casa per l’ora del tè» disse a un certo punto il geologo. «Possiamo ritornare per la stessa strada oppure girare dietro le colline. Che cosa preferite?»

«Perché non passiamo per la pianura? Sarebbe il percorso più diretto» suggerì Mackay, il quale cominciava a essere un po’ annoiato della gita.

«Ma anche il più lento… bisogna procedere a passo d’uomo, attraverso quei cavoli troppo cresciuti.»

«Io detesto tornare sui miei passi» disse Gibson. «Giriamo dietro le colline e vediamo un po’ quello che troviamo da quelle parti.»

La giovane guida rise.

«Non illudetevi con speranze inutili. Di qui o di lì è pressappoco lo stesso. Su, si parte!»

La pulce balzò in avanti e il Ponte dell’Arcobaleno scomparve presto alle loro spalle. Il percorso si snodava ora attraverso una regione completamente brulla, dove anche gli alberi pietrificati erano scomparsi. A volte Gibson notava chiazze verdi, che credeva vegetazione, ma non appena si avvicinavano scopriva invariabilmente un ennesimo giacimento minerale. Era però un paesaggio straordinariamente bello, un vero paradiso geologico, e Gibson sperò in cuor suo che gli uomini non osassero mai saccheggiarlo con i loro scavi e le loro ricerche scientifiche e minerarie, perché certamente quella zona era una delle località più interessanti di Marte.

Viaggiavano da forse mezz’ora quando le colline presero a digradare entro una lunga valle serpeggiante che presentava senza possibilità di equivoco tutte le caratteristiche di un antico corso d’acqua. Cinquanta milioni di anni prima circa, spiegò il geologo, un grande fiume scorreva in quel letto per portare le sue acque nel Mare Erythraeum, uno dei pochi mari marziani, se così si potevano definire. Fermarono il mezzo e osservarono l’alveo vuoto con un misto di sentimenti contrastanti. Gibson tentò d’immaginare come doveva essere la regione in quei tempi remoti, nel periodo in cui i grandi rettili dominavano la Terra e l’Uomo era ancora una larva dall’imperscrutabile, lontanissimo futuro. Le rocce rosse non dovevano essere molto diverse da allora. In mezzo alle rocce, il fiume si era certamente aperto un varco verso il mare, con moto lento e pigro per effetto della debole gravità. Uno spettacolo quasi terrestre, ma lì era mai stato visto o percepito da esseri intelligenti?

L’antico fiume aveva lasciato in retaggio qualcosa di assai prezioso perché lungo le propaggini più basse della valle resisteva ancora una certa umidità, e una stretta striscia di vegetazione segnava in quel punto le rive dell’Erythraeum, e il suo verde smagliante formava un vivido contrasto col cremisi delle rocce. Le piante erano le stesse che Gibson aveva visto sull’altro versante delle colline, ma qua e là ne spiccavano di nuove. Erano anche sufficientemente alte da poter essere definite alberi, però non avevano foglie ma soltanto rami sottili, a forma di frusta, che vibravano di continuo malgrado l’immobilità dell’atmosfera. Gibson pensò che erano tra gli oggetti più inquietanti che lui avesse mai visto in vita sua. Gli sembrava che dovessero inaspettatamente, minacciosamente, allungare quei loro ripugnanti tentacoli a ghermire il passante ignaro. Invece erano piante assolutamente innocue, come tutto quello che si trovava su Marte.

Avevano attraversato la valle a zig-zag e si stavano inerpicando sul pendio opposto quando la loro guida fermò improvvisamente la vettura.

«Oh, questa è curiosa!» disse. «Non sapevo che ci fossero lavori in corso da queste parti!»

Per un attimo Gibson, che non era poi così buon osservatore come si illudeva di essere, non seppe dove guardare. Finalmente notò un solco di ruota appena visibile, perpendicolare con la direzione seguita da loro.

«Devono essere passati degli automezzi pesanti di qui» proseguì la guida. «Sono sicuro che questo solco non c’era l’ultima volta che sono venuto da queste parti… quando è stato? Vediamo… circa un anno fa. E da quella volta non c’è stata nessuna spedizione all’Erythraeum.»

«Dove conduce?» chiese Gibson.

«Risalendo la valle e passando sull’altra parte si torna a Porto Lowell. È quello che avevo intenzione di fare io. Nel senso opposto invece si va al mare.»

«Abbiamo ancora tempo. Andiamo un po’ da quella parte!»

Il geologo acconsentì di buon grado. Girò la pulce e puntò verso il fondo valle. Di tanto in tanto, nei tratti di terreno formato da roccia levigata, la pista scompariva per riapparire però quasi subito. A un certo punto però la persero definitivamente.

La guida fermò l’automezzo.

«Adesso capisco» disse. «Può essere andato soltanto da quella parte. Avete notato un passo, a un chilometro circa da qui? Scommetto dieci contro uno che si è diretto là.»

«E cosa c’è da vedere, là?»

«Questo è il curioso: si tratta di un vero e proprio vicolo cieco. C’è, è vero, un interessante anfiteatro naturale del diametro di due chilometri circa, ma non è possibile uscirne se non dalla parte da cui si è entrati. Ci ho passato un paio d’ore, una volta, quando abbiamo cominciato a fare i primi rilievi della regione. È un posto gradevole, ben riparato, e che in primavera offre un po’ d’acqua.»

«Un ottimo rifugio per contrabbandieri» osservò Gibson.

La stretta gola aveva certo ospitato un tempo un affluente del fiume principale, e percorrerla era assai più difficile di quanto non fosse stato viaggiare lungo la valle centrale. Bastarono comunque pochi metri per capire che avevano indovinato: la pista infatti era ricomparsa subito chiarissima.

«Qui hanno fatto saltare qualcosa» disse il geologo. «Questo tracciato non esisteva quando sono venuto qui la prima volta. Ricordo che ho dovuto compiere un giro vizioso su per quel pendio, e che ho rischiato di dover abbandonare la pulce.»

«Chissà che cosa stanno facendo» disse Gibson, elettrizzato dalla curiosità professionale.

«Non lo so. Ci sono alcuni piani di ricerche talmente specializzate che se ne sente parlare molto poco. Certe cose non si possono fare vicino alla città, capite? Può darsi che stiano costruendo un osservatorio magnetico, almeno così ho sentito dire ultimamente. A Porto Lowell i generatori sarebbero ottimamente schermati dalle colline. Ma non credo che si tratti di questo perché se fosse così me l’avrebbero detto… Ehi, ma che cos’è quello?»

Di fronte a loro si stendeva un ovale di verde quasi perfetto, fiancheggiato dalle basse colline color ocra. Forse quella conca aveva raccolto un tempo un pittoresco lago alpino, e ancora oggi offriva un conforto all’occhio stanco di tutta quella roccia multicolore ma priva di vita. Per il momento però Gibson non degnò neppure di uno sguardo lo smagliante tappeto vegetale, perché era rimasto a fissare trasognato un assembramento di cupole raggruppate al limite della piccola pianura. Parevano una riproduzione in miniatura di Porto Lowell.

Proseguirono in silenzio lungo la strada che era stata aperta attraverso il vivo tappeto verde. Fuori dalle cupole non c’era nessuno, ma un grosso veicolo da trasporto, grande almeno cinque volte la loro pulce, sostava all’esterno indicando chiaramente che dentro qualcuno doveva pure esserci.

«Ma questo è un impianto in piena regola» disse lo scienziato, sempre più sorpreso, mentre si sistemava la maschera. «Avranno certamente avuto le loro buone ragioni per spendere chissà quanto. Aspettate qui che io vado a dare un’occhiata.»

Lo videro scomparire nel compartimento stagno della cupola principale e agli impazienti passeggeri parve che la sua assenza si prolungasse per un tempo lunghissimo. Infine videro la porta esterna riaprirsi e la loro guida uscirne e avviarsi lentamente verso di loro.

«Allora?» domandò Gibson mentre il giovane risaliva sull’automezzo. «Cosa vi hanno detto?»

Il geologo non rispose. Senza parlare avviò il motore, e la pulce del deserto cominciò a muoversi.

«Be’? E la tanto decantata ospitalità marziana?» protestò Mackay.

«Non ci hanno invitati a entrare?»

Il geologo sembrava estremamente impacciato. La sua faccia aveva l’espressione di chi si è reso conto di aver commesso una fesseria. Almeno così parve a Gibson. Il giovane si schiarì nervosamente la voce.

«È una stazione di ricerche» disse, cercando accuratamente le parole. «È poco che l’hanno impiantata, e per questo io non ne sapevo niente. Non possiamo entrare perché tutto è completamente sterilizzato, e non vogliono correre il rischio che i visitatori portino dentro delle spore. Avremmo dovuto cambiarci da capo a piedi e fare un bagno nel disinfettante.»

«Capisco» disse Gibson. Qualcosa gli diceva di non insistere con le domande. Grazie al suo infallibile intuito aveva capito che la sua guida gli aveva detto solo una parte della verità, e la meno importante. In quel momento tutti i dubbi che si erano accumulati nella sua mente si riproposero alla sua attenzione. Tutto era cominciato ancora prima del suo arrivo su Marte, era cominciato con il dirottamento dell’Ares da Phobos. E adesso era andato a inciampare in questa stazione segreta di ricerche. Era stata una sorpresa non soltanto per loro ma persino per il geologo che pure si vantava di essere al corrente di tutto quello che succedeva sul pianeta, e che ora cercava, in modo davvero commovente, di rimediare alla sua involontaria indiscrezione.

Qualcosa stava bollendo in pentola. Che cosa, Gibson non poteva immaginarlo, ma doveva essere certamente qualcosa di grosso perché interessava non soltanto Marte ma anche Phobos. Era qualcosa che la maggior parte dei coloni ignorava, e che si affrettava a tenere nascosta non appena ne veniva involontariamente a conoscenza.

Marte dunque nascondeva un segreto. E a chi lo teneva nascosto se non alla Terra?

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