12

Gibson si svegliò che l’alba era spuntata da un pezzo. Il Sole era ancora invisibile dietro le colline, ma i suoi raggi si riverberavano sulle rupi scarlatte e inondavano la cabina di una luce irreale, quasi sinistra. Si stirò. Era tutto indolenzito. Quei sedili non erano certo stati progettati per dormirci, in più lui aveva passato una notte assai agitata.

Si guardò attorno in cerca dei compagni. Hilton e il pilota erano scomparsi. Jimmy invece dormiva ancora profondamente. Gli altri due erano sicuramente usciti in esplorazione. Gibson si sentì un po’ offeso al pensiero di essere stato messo in disparte, ma capì che forse si sarebbe seccato ancora di più se gli avessero, interrotto il sonno.

Hilton aveva appuntato alla parete della cabina, bene in evidenza, un breve messaggio. Diceva semplicemente: "Siamo usciti alle 6.30. Staremo fuori circa un’ora. Quando rientreremo avremo fame".

Impossibile non raccogliere l’appello implicito. D’altra parte anche lui aveva fame. Frugò nel pacco speciale d’emergenza che ogni apparecchio aveva a bordo per casi simili, chiedendosi per quanto tempo avrebbero dovuto attingervi e soprattutto sino a quando sarebbero durate le scorte.

I suoi tentativi per preparare una bevanda calda sul minuscolo bollitore a pressione svegliarono Jimmy. Il ragazzo fece una faccia mortificata quando si accorse di avere dormito più di tutti.

«Hai riposato bene?» gli chiese Gibson mentre cercava le tazze.

«Malissimo» rispose Jimmy riordinandosi i capelli con le mani. «Mi sento come se non dormissi da una settimana. Dove sono gli altri?»

Alla sua domanda rispose un rumore di passi: qualcuno stava entrando nel compartimento stagno. Un attimo dopo comparve Hilton seguito dal pilota. Si tolsero le maschere e le tute spaziali termiche, fuori la temperatura era tuttora sotto lo zero, e si precipitarono sulle tazze di cioccolata e le razioni di carne che Gibson aveva diviso in parti uguali.

«Allora?» chiese Gibson, con ansia. «Qual è il verdetto?»

«Una cosa possiamo dirtela subito» disse Hilton tra un boccone e l’altro. «Dobbiamo ritenerci straordinariamente fortunati di essere ancora vivi.»

«Questo lo so.»

«Lo sai soltanto a metà, perché non hai ancora visto dove siamo scesi. Prima di fermarci siamo filati parallelamente a quella roccia per quasi mille metri. Bastava uno sbandamento di un paio di gradi a destra, e addio! Quando abbiamo toccato il suolo abbiamo oscillato un po’ all’indietro, ma per fortuna non abbastanza da riportare danni.

«Ci troviamo in una valle lunga che corre da est a ovest. Più che di un antico letto di fiume ha tutto l’aspetto di un errore geologico, così a occhio e croce. La roccia che abbiamo di fronte è alta circa cento metri ed è praticamente verticale. Per essere esatti, in prossimità della cima si piega leggermente a uncino. Può darsi che con un po’ di buona volontà si possa scalarla, ma per il momento non abbiamo provato. Del resto non ce n’è bisogno. Se vogliamo che da Phobos ci vedano basterà che ci spostiamo un po’ a nord in modo che la roccia non si frapponga tra noi e loro. In realtà, credo che questo sia il sistema migliore, soltanto dovremmo riuscire a portare l’apparecchio in un luogo più scoperto, il che ci permetterà di usare la radio, e darà ai telescopi e alle ricerche dall’aria una maggiore possibilità di individuarci.»

«Quanto pesa?» chiese Gibson guardandosi in giro con aria preoccupata.

«Circa trenta tonnellate a pieno carico. Ma naturalmente c’è un sacco di roba inutile che possiamo togliere.»

«E invece non si può togliere niente» disse il pilota. «Significherebbe ridurre la nostra pressione, e non possiamo permetterci il lusso di sciupare aria preziosa.»

«Oh, Cielo, avevo dimenticato questo particolare. Comunque il terreno è piano e il carrello è in perfetto ordine.»

Gibson espresse i suoi dubbi con una serie di suoni molto simili a grugniti. Nonostante la bassa gravità, muovere l’aereo non doveva certo essere un’impresa facile.

La colazione, poco saporita ma sostanziosa, fu consumata in silenzio. I naufraghi rimuginavano ognuno per conto suo i più svariati progetti per la salvezza. Non erano seriamente preoccupati perché sapevano che li stavano cercando e che prima o poi li avrebbero trovati: era solo questione di tempo. Questo tempo però avrebbe potuto venire ridotto a poche ore se loro fossero riusciti a inviare un segnale a Phobos.

Dopo aver fatto colazione, tentarono di smuovere l’apparecchio. A furia di spinte riuscirono a spostarlo di cinque o sei metri. Poi i cingoli del carrello affondarono nel terreno molle, e nonostante tutti i loro sforzi il pesante apparecchio non si mosse più. Ansimanti, rientrarono in cabina a discutere sul da farsi.

«Abbiamo qualcosa di bianco, un po’ grande, da distendere sul terreno?» chiese Gibson.

L’idea era ottima ma fu stroncata sul nascere perché, dopo febbrili ricerche, riuscirono a raccogliere in tutto sei fazzoletti e pochi stracci unti d’olio di macchina. Dovettero ammettere che anche nelle condizioni più favorevoli una segnalazione ottica di dimensioni così limitate non sarebbe stata certamente visibile da Phobos.

«Ci resta una sola cosa da fare» disse Hilton. «Smontare le luci d’atterraggio, farle scorrere con un cavo fino oltre la roccia, e poi dirigerne il raggio su Phobos. Avrei preferito evitare questa soluzione se appena fosse stato possibile, chissà come si ridurrà l’ala ed è un vero peccato rovinare un così bell’aereo.»

Dalla faccia che fece, si capì che il pilota era esattamente del suo parere.

A un tratto a Jimmy venne un’idea brillante.

«Perché non costruiamo un eliografo?» disse. «Se riuscissimo a dirigere su Phobos i riflessi di uno specchio, credo che li vedrebbero.»

«A seimila chilometri di distanza?» disse Gibson scettico.

«Perché no? Hanno telescopi a oltre mille ingrandimenti. Voi non vedreste i riflessi del Sole in uno specchio anche a sei chilometri di distanza a occhio nudo?»

«Sono sicuro che nel tuo calcolo c’è un errore, anche se non saprei dirti di che errore si tratta» disse Gibson. «Nella vita reale i problemi non si risolvono mai così semplicemente. Però si può tentare. Vediamo un po’; chi ha uno specchio?»

Dopo un quarto d’ora di ricerche anche quel progetto venne abbandonato: nessuno aveva uno specchio.

«Potremmo tagliare via un pezzo d’ala e lucidarla» disse Hilton, pensoso. «Forse potrebbe servire.»

«L’ala è fatta di una lega al magnesio che non diventa lucida» disse il pilota, deciso a difendere il suo aereo fino all’ultimo.

Gibson scattò improvvisamente in piedi.

«Chi mi fa fare tre giri della cabina a calci?» disse.

«Io, con molto piacere» rispose Hilton ridendo. «Ma si può sapere perché?»

Senza rispondere Gibson andò in fondo alla cabina e si mise a frugare nel suo bagaglio voltando la schiena ai compagni incuriositi. Pochi secondi, poi si voltò di scatto e annunciò con un sorriso di trionfo: «Ecco la risposta.»

Un fiotto di luce accecante riempì la cabina proiettando sulle pareti ombre distorte. Fu come se la folgore avesse colpito l’apparecchio. Per un buon mezzo minuto tutti rimasero abbagliati, conservando nella retina l’immagine della cabina invasa dall’improvvisa incandescenza.

«Scusatemi» disse Gibson con aria contrita. «Non l’avevo mai usato a piena potenza. Così serve per fotografare di notte all’aperto.»

«Va’ al diavolo!» disse Hilton fregandosi gli occhi. «Ho pensato che fosse esplosa una bomba atomica. Ma c’è proprio bisogno di far morire la gente di paura, quando la fotografi?»

«Per uso normale, in un interno, è soltanto così» disse Gibson facendo seguire la dimostrazione. Tutti chiusero gli occhi, ma questa volta il lampo fu appena avvertibile. «È un aggeggio speciale che mi sono fatto costruire apposta prima di lasciare la Terra. Volevo essere sicuro di poter fotografare a colori anche di notte, se se ne fosse presentata l’occasione. Ma fino a questo momento non avevo avuto modo di usarlo.»

«Vediamo un po’» disse Hilton.

Gibson gli porse il flash e gli spiegò il funzionamento.

«È dotato di un condensatore superpotente. Ce n’è abbastanza per circa cento lampi, e adesso è praticamente a piena carica.»

«Per cento di questi lampi ad alto potenziale?»

«Sì. Se si tratta invece di lampi normali può arrivare fino ai duemila.»

«In questo condensatore dunque c’è energia elettrica sufficiente per fabbricare una bomba. Spero non si verifichi qualche dispersione.»

Hilton stava esaminando la piccola valvola di scarico del gas, grande quanto una pallina, situata al centro del piccolo riflettore.

«È possibile regolare questo coso in modo da avere un raggio utile?» chiese.

«C’è un fermo dietro il riflettore… ecco, quello. Il raggio è alquanto largo comunque servirà lo stesso.»

Hilton aveva un’aria molto soddisfatta.

«Questo su Phobos dovrebbero vederlo anche in pieno giorno se guardano da questa parte con un buon telescopio. Però dobbiamo stare attenti a non sprecare i lampi.»

«Adesso Phobos è alzato, vero?» chiese Gibson. «Faccio immediatamente un segnale.»

Si alzò e si mise la maschera.

«Non fare più di dieci segnali» consigliò Hilton. «Dobbiamo conservare i lampi per la notte. E mettiti in una zona d’ombra.»

«Posso uscire anch’io?» chiese Jimmy.

«Come vuoi» disse Hilton. «Però state qui vicino, e non mettetevi in mente di andare in esplorazione. Io resto qui a vedere un po’ se si può fare qualcosa con le luci d’atterraggio.»

Il fatto di avere adesso un piano preciso di azione aveva notevolmente rialzato il morale dei quattro uomini. Stringendosi al petto la macchina fotografica e il prezioso flash, Gibson s’incamminò nella valle avanzando a balzi come una gazzella.

Era curioso come su Marte la forza muscolare si adattasse prontamente alla minore gravità, così che la gente procedeva a passi normali, come si fa sulla Terra. Le riserve d’energia, però, entravano immediatamente in gioco non appena la necessità lo richiedeva, o si era in un particolare stato di euforia,

Uscirono quasi subito dall’ombra della roccia, e poterono così spaziare con lo sguardo nel cielo. Phobos, già alto a occidente aveva la forma di una piccola mezzaluna che presto si sarebbe ridotta a una falce sottile. Gibson guardò il satellite chiedendosi se in quel momento qualcuno stesse osservando quella zona di Marte, il che dopotutto era assai probabile dato che la posizione approssimativa del loro atterraggio l’orzato doveva essere nota. Provò un desiderio irragionevole di mettersi a saltare e di agitare le braccia, di gridare: "Siamo qui! Possibile che non ci vediate?".

A un chilometro circa dall’aereo il terreno digradava lievemente, e nel tratto inferiore della valle si apriva una larga zona bruna ricoperta di erbe dall’alto stelo. Gibson andò in quella direzione seguito da Jimmy.

Si trovarono in mezzo a una vegetazione coriacea, di un genere che non avevano mai visto. Le foglie crescevano verticalmente dal terreno simili a esili stelle filanti, ed erano ricoperte di numerosi baccelli che avevano tutta l’aria di contenere semi. Il lato rivolto al Sole aveva una colorazione scura, quasi nera, mentre quello in ombra era di un bianco grigiastro. Un accorgimento semplice ma efficace per diminuire la dispersione di calore.

Senza perdere tempo in ragionamenti botanici, Gibson avanzò fino al centro della piccola foresta. Le piante non erano eccessivamente addossate le une alle altre, quindi era abbastanza facile avanzare. Quando gli parve di essersi inoltrato a sufficienza, alzò il flash e lo puntò in direzione di Phobos.

Il satellite si presentava ora come una sottile falce sullo sfondo del Sole, e Gibson si sentì un po’ ridicolo a dirigere lampi di luce proprio nella luminosità del cielo estivo. Invece il momento era ben scelto, perché il lato di Phobos rivolto verso di loro era in ombra, quindi i telescopi del satellite operavano in condizioni favorevoli.

Fece scattare dieci volte il flash al ritmo di due lampi consecutivi seguiti da una pausa. Gli parve il sistema più economico e al tempo stesso più efficace per far capire a un eventuale osservatore che si trattava di segnali intelligenti e non di fenomeni naturali.

«Per oggi basta così» disse poi. «Conserviamo il resto delle munizioni per quando farà buio. E adesso diamo un’occhiata a queste piante. Lo sai che cosa mi ricordano?»

«Alghe marine giganti» rispose pronto Jimmy.

«Bravo. Azzeccato. Chissà che cosa c’è in quei baccelli… Hai per caso un temperino? Grazie.»

Con la punta del temperino, Gibson forò una delle minuscole bacche nere. Evidentemente contenevano gas, e a pressione considerevole, perché mentre il coltello penetrava si sentì un debole fischio.

«Che strani» disse Gibson. «Prendiamone un campione da far vedere agli altri.»

Con qualche difficoltà staccò una lunga foglia tagliandola presso le radici. Dall’estremità recisa fluì un liquido denso, di colore scuro, che formava minuscole bollicine gassose. Con quel trofeo sulla spalla, Gibson prese la strada del ritorno.

In quel momento non sapeva di portare con sé l’avvenire di un mondo.

Percorsi pochi passi incontrarono una zona di vegetazione più fitta, e dovettero deviare. Avendo il Sole come guida non correvano pericolo di perdersi, perciò non si preoccuparono di ricalcare il cammino percorso in precedenza.

Gibson camminava in testa, ma procedeva con una certa fatica e stava già meditando di sacrificare l’orgoglio e chiedere a Jimmy di sostituirlo, quando notò con sollievo di essere arrivato a un sentiero serpeggiante che portava più o meno nella direzione giusta.

Per un eventuale osservatore quella sarebbe stata una interessante dimostrazione della lentezza di certi processi mentali. Gibson e Jimmy infatti percorsero un buon tratto, sei lunghi passi almeno, prima di rendersi conto della semplice ma strabiliante verità che i sentieri, di solito, non si tracciano da soli.


«I nostri due esploratori non dovrebbero essere già tornati?» disse il pilota ancora occupato assieme a Hilton a smontare i fari dal lato inferiore dell’ala dell’aereo. Il lavoro era andato abbastanza bene, e Hilton sperava di trovare a bordo dell’apparecchio un cavo sufficiente per portare i forti riflettori sufficientemente lontano dalla roccia in modo che fossero visibili da Phobos non appena il satellite fosse sorto di nuovo. Certo non avrebbero avuto la luminosità del flash di Gibson, ma i loro raggi immobili e costanti avevano più probabilità di essere notati.

«È molto che sono fuori?»

«Circa quaranta minuti. Spero che siano stati tanto intelligenti da non perdersi.»

«Gibson ha troppo buon senso per commettere imprudenze. Però non mi fiderei molto di Jimmy… Ha la fissazione di scoprire i Marziani!»

«Oh, eccoli. Hanno l’aria di avere molta fretta.»

Il fatto che Gibson e Jimmy tornassero dopo un tempo ragionevole rappresentava il trionfo della prudenza e del senso di autodisciplina.

Per un minuto buono avevano fissato sorpresi e increduli lo stretto sentiero serpeggiante tra le sottili piante brune. Sulla Terra niente sarebbe stato più banale: sembrava in tutto e per tutto un tipico sentiero tracciato dal passaggio del bestiame lungo i monti, o dagli animali selvatici in una foresta. Era stato proprio per il suo aspetto così familiare che non l’avevano notato subito, e anche quando avevano preso improvvisamente coscienza della realtà, avevano cercato di spiegarla con ragionamenti normali, terrestri, per così dire.

Gibson aveva parlato per primo, ma sottovoce, quasi nel timore che qualche misterioso essere invisibile potesse sentirlo.

«È un sentiero, Jimmy, un sentiero bello e buono! Chi può averlo tracciato, in nome di… Nessuno è mai stato qui, sinora.»

«Dev’essere stato qualche animale.»

«E parecchio grosso, anche.»

«Forse grosso quanto un cavallo.»

«O una tigre.»

Quest’ultima osservazione provocò un silenzio inquieto. Poi Jimmy aveva detto: «Be’, se tentasse di assalirci, credo che il vostro flash spaventerebbe qualsiasi mostro, per grosso che possa essere.»

«Bisognerebbe che avesse gli occhi» aveva obiettato Gibson. «E se invece fosse dotato di sensi completamente diversi dai nostri?»

Era evidente che stava cercando una buona scusa per andarsene di lì alla svelta.

«In ogni caso sono sicuro che siamo in grado di correre più in fretta e di saltare più in alto di qualsiasi animale o essere marziano.»

Gibson si era augurato che l’affermazione del ragazzo fosse dettata più dalla logica che dal desiderio d’avventura.

«Comunque non intendo correre rischi» aveva detto in tono fermo. «Adesso andiamo subito ad avvertire gli altri. Poi decideremo sul da farsi.»

Impiegarono un certo tempo per convincere gli altri che parlavano sul serio, e che uno scherzo in quelle circostanze sarebbe stato fuori luogo. Eppure era una storia incredibile. Ognuno di loro sapeva perfettamente perché non poteva esserci vita animale su Marte. Era una semplice questione di metabolismo: gli animali bruciano ossigeno più in fretta delle piante, e per questo non potevano esistere in un’atmosfera così rarefatta e praticamente inerte. I biologi non avevano tardato a sottolineare questo fatto non appena le condizioni di vita sulla superficie marziana erano state accertate, e da dieci anni ormai la possibilità dell’esistenza di vita animale sul pianeta era stata scartata da tutti, tranne che da qualche sognatore inguaribile.

«Anche ammesso che abbiate veramente visto quello di cui andate farneticando, avrà sicuramente una spiegazione naturale» disse infine Hilton.

«Vai ad accertartene di persona» disse Gibson. «Io ti ripeto che è un sentiero vero e proprio, e ben tracciato, per giunta.»

«Si capisce che ci vado» disse Hilton

«E ci vengo anch’io» disse il pilota.

«Un momento. Non possiamo andare tutti. Almeno uno deve restare di guardia all’apparecchio.»

«Io non posso. Sono stato io a scoprire il sentiero» disse Gibson con fermezza.

«Ho capito, qui si sta preparando un ammutinamento» disse Hilton. «Va bene. Chi ha una moneta? Faremo a testa e croce.»

«Per me, è un viaggio inutile» mormorò il pilota scuotendo la testa, quando seppe che la sorte l’aveva scelto per restare a bordo. «Tra un’ora dovete essere di ritorno, e se ci mettete di più voglio che mi riportiate come minimo un’autentica principessa marziana da Mille e una notte.»

Malgrado il suo scetticismo, Hilton stava invece prendendo la cosa con maggiore serietà.

«Essencio in tre, dovremmo poterci difendere anche se incontrassimo qualcosa di spiacevole» disse. «Ma nel caso in cui nessuno di noi tornasse, voi non muovetevi di qui e non venite a cercarci per nessun motivo. Capito?»

«Va bene, mi legherò al sedile.»

Il terzetto si avviò lungo la valle in direzione della piccola foresta. Gibson faceva strada. Raggiunte le alte ed esili fronde di alga marina, non ebbero difficoltà a ritrovare la pista. Hilton la studiò attentamente per vari minuti, mentre Gibson e Jimmy lo guardavano con l’aria di dire: "Avevamo ragione o no?". Quindi disse:

«Dammi il tuo flash, Martin. Vado avanti io.»

Sarebbe stato sciocco discutere. Hilton era il più alto, il più forte, il più agile. Senza protestare, Gibson gli tese la sua arma di fortuna.

Non è possibile provare una sensazione più inquietante di quella che dà il camminare lungo uno stretto sentiero, tra pareti erbose, sapendo che da un momento all’altro ci si può trovare a faccia a faccia con un essere totalmente sconosciuto e probabilmente ostile. Gibson cercò di farsi coraggio ricordando che gli animali che non hanno mai visto l’uomo di rado sono ostili… ma le eccezioni a tale regola erano purtroppo numerose.

Erano giunti quasi al centro della piccola foresta quando si trovarono di fronte a una biforcazione. Hilton scelse di andare a destra, ma dopo pochi metri si accorse che quel sentiero finiva in una radura larga una ventina di metri, dove tutte le piante erano state tagliate o mangiate, quasi rasoterra. In quel punto spuntavano soltanto tronconi di radice che però cominciavano già a mettere nuovi germogli. Era evidente che quella radura era stata abbandonata già da diverso tempo dagli esseri che se ne erano serviti.

«Sono erbivori» mormorò Gibson.

«E anche abbastanza intelligenti» soggiunse Hilton. «Come vedi hanno lasciato le radici in modo che le piante rispuntassero. Andiamo a vedere sull’altra biforcazione.»

Cinque minuti dopo trovarono la seconda radura. Era molto più vasta della prima, e non era deserta.

Hilton impugnò più saldamente il flash mentre Gibson sollevava la macchina fotografica con gesto istintivo e scattava le fotografie destinate a diventare le immagini più famose di Marte. Poi i tre uomini si calmarono e rimasero ad aspettare che i Marziani si accorgessero della loro presenza.

In quell’attimo furono spazzati via secoli di fantasia e di leggenda. Tutti i sogni dell’Uomo sull’esistenza di esseri non molto dissimili da lui svanirono, e con essi scomparvero senza lasciare rimpianti i mostri tentacolari di Wells e le schiere di orrori indescrivibili. Scomparve anche il mito delle intelligenze freddamente disumane che guardano con distacco il misero Homo Sapiens dall’alto della loro immensa saggezza, pronte a schiacciarlo con la stessa impersonale insensibilità con cui l’uomo è pronto a distruggere un insetto noioso.

Le creature raccolte nella radura erano dieci in tutto, ed erano troppo intente a mangiare per accorgersi degli intrusi che le stavano osservando. Ricordavano un po’ i canguri, e i loro corpi ovoidali si bilanciavano su due lunghi e sottili arti posteriori. Erano completamente privi di pelo, e la loro pelle aveva una curiosa lucentezza cerea che faceva pensare al cuoio. Due esili arti anteriori, che sembravano completamente senza ossa, spuntavano dalla parte superiore del corpo e terminavano in specie di zampe simili agli artigli di un uccello ma troppo piccole ed esili per essere di grande utilità pratica. La testa poggiava direttamente sul tronco, senza il minimo accenno di collo, e nella testa c’erano due grandi occhi di colore indefinibile con le pupille dilatate. Niente naso, ma solo una curiosa bocca triangolare munita di tre tozze protuberanze, specie di becchi, con cui le bizzarre creature divoravano il fogliame. Le orecchie grandissime, quasi trasparenti, pendevano inerti, vibrando solo di tanto in tanto e a volte chiudendosi a forma di tromba, dando la sensazione che anche in quell’atmosfera estremamente rarefatta servissero come efficacissimi rivelatori di suono.

Il più grosso di quegli animali era alto quasi come Hilton. Gli altri erano molto più piccoli. Il più piccolo di tutti, inferiore al metro, poteva benissimo essere definito un cucciolo. Saltellava freneticamente nel disperato tentativo di raggiungere le foglie più appetitose, e ogni tanto emetteva esili suoni flautati che facevano tenerezza.

«Fino a che punto credi che siano intelligenti?» mormorò Gibson.

«È difficile dirlo. Osserva però come hanno cura di non distruggere le piante che mangiano. Naturalmente può trattarsi di semplice istinto, simile a quello delle api che non si sbagliano mai nel costruire i loro alveari.»

«Si muovono molto lentamente, non ti pare? Chissà se sono animali a sangue caldo.»

«Non vedo perché dovrebbero avere sangue, sia caldo sia freddo. Il loro metabolismo deve essere tutto speciale e molto insolito per permettere loro di sopravvivere in un clima come questo.»

«Sarebbe quasi ora che si degnassero di notare la nostra presenza.»

«Il grosso l’ha notata. L’ho sorpreso a guardarci con la coda dell’occhio. E non vedi come seguita a puntare le orecchie dalla nostra parte?»

«Avviciniamoci.»

Hilton rifletté un istante.

«Non vedo come potrebbero farci del male anche se lo volessero» disse poi. «Quelle loro zampe mi sembrano molto deboli. Però ho l’impressione che i loro triplici becchi potrebbero lasciare il segno. Avanzeremo molto lentamente. Se ci caricano, io tarò scattare il flash mentre voi scapperete. Sono convinto che nella corsa siamo più veloci di loro. Non hanno certo le caratteristiche dei gran corridori.»

Muovendosi con una lentezza che nell’intenzione degli esploratori improvvisati voleva essere più rassicurante che furtiva, i tre avanzarono nella radura. Ormai non c’era più dubbio che i Marziani li avessero visti, perché subito una mezza dozzina di grandi occhi calmi li fissarono, ma per poco. Le creature marziane distolsero subito lo sguardo per posarlo nuovamente sulle foglie, dedicandosi all’operazione assai più importante di nutrirsi.

«Non mi sembrano affatto curiosi» disse Gibson deluso. «Siamo così poco interessanti?»

«Attenzione! Il piccolo ci ha individuati. Chissà che cos’ha intenzione di fare!»

Il piccolo Marziano aveva smesso di mangiare e fissava gli intrusi con un’espressione che avrebbe potuto significare molte cose: dalla più profonda incredulità alla golosa speranza di un nuovo pasto. Lanciò un paio di squittii acuti ai quali un adulto rispose con un calmo honk, quindi il cucciolo prese a saltellare verso gli spettatori incuriositi.

Si fermò a un paio di passi dagli uomini. Non era né intimorito né diffidente.

«Onoratissimo di fare la vostra conoscenza!» disse Hilton in tono solenne. «Permettete che ci presentiamo. Questo è Jim Spencer, quest’altro signore alla mia sinistra è Martin Gibson… Ma non ho capito bene il vostro nome.»

«Quiicc!» squittì il piccolo Marziano.

«Molto bene, signor Quiicc. Cosa possiamo tare per voi?»

La creatura tese una zampa e tirò Hilton per la manica. Poi saltellò verso Gibson che nel frattempo era stato indaffaratissimo a fotografare quello scambio di cortesie. Di nuovo sporse una zampa inquisitrice, e Gibson si affrettò a togliere di mezzo la macchina fotografica per evitare eventuali danni. Quindi gli tese la mano, e i piccoli artigli si chiusero sulle sue dita, con sorprendente energia.

«Socievole, eh, il piccolo?» disse Gibson dopo essersi liberato senza difficoltà dalla stretta della creatura. «Almeno non è borioso come i suoi genitori.»

Sino a quel momento infatti gli adulti non avevano degnato di un’occhiata quello scambio di convenevoli, ma avevano seguitato a brucare placidamente sull’altro lato della radura.

«Mi piacerebbe dargli qualcosa, ma non credo che riesca a mangiare il nostro cibo. Prestami il tuo temperino, Jimmy. Gli taglierò qualche foglia, tanto per vedere se siamo veramente amici oppure no.»

Il dono fu accettato gentilmente e prontamente mangiato, mentre le piccole mani subito si protendevano a chiederne ancora.

«A quanto pare hai fatto colpo, Martin» disse Hilton.

«Temo che sia amore interessato» sospirò Gibson. «Ehi, lascia in pace il mio apparecchio fotografico. Non è da mangiare, sai?»

«Un momento» disse a un tratto Hilton. «Sta succedendo qualcosa di strano. Di che colore è questo cucciolo, secondo te?»

«Marrone da una parte e… direi grigio sporco dall’altra.»

«Bene. Adesso giragli attorno e dagli da mangiare un po’ di foglie.»

Gibson obbedì, e Quiicc si girò sulle anche per afferrare il nuovo boccone. Mentre il Marziano si muoveva si verificò un curioso fenomeno.

La tinta bruna della parte anteriore del corpo sbiadì lentamente e a poco a poco la pelle diventò grigia mentre sul dorso accadeva il contrario, finché lo scambio non fu completo.

«Gran Giove!» esclamò Gibson. «È peggio di un camaleonte! Secondo te che cosa significa? Si tratta forse di una colorazione mimetica?»

«No, è un processo molto più astuto. Guarda gli altri che stanno laggiù. Osserva, non cambiano colore. Restano sempre bruni, o quasi neri, direi, nel lato rivolto al sole. È semplicemente un accorgimento per captare quanto maggior calore possibile ed evitarne la dispersione. Le piante marziane hanno lo stesso comportamento. Chi sarà stato il primo a pensarci? Questo trucco servirebbe poco a un animale che si muovesse in fretta, ma se hai fatto caso quei bestioni laggiù sono nella stessa posizione da oltre cinque minuti.»

Gibson si mise subito a fotografare questo strabiliante fenomeno. Cosa che non gli riuscì difficile, perché ogni volta che si muoveva, Quiicc si girava tutto speranzoso verso di lui e aspettava pazientemente.

«Mi dispiace di interrompere questa scena patetica» disse Milton, «ma avevamo detto che saremmo tornati entro un’ora.»

«Non occorre tornare tutti. Senti, Jimmy, sii bravo, fai una corsa sino all’aereo e avverti il pilota che non stia in pensiero per noi.»

Ma Jimmy stava osservando il cielo: era stato il primo ad accorgersi che da qualche minuto un aeroplano stava compiendo dei giri concentrici sopra la vallata.

I loro evviva ebbero il potere di disturbare i placidi Marziani dal loro pacifico brucare, e più di uno sguardo carico di disapprovazione si posò su di loro. Quiicc poi si spaventò talmente che schizzò via con un balzo, ma si riprese subito dalla paura avuta e tornò verso di loro.

«Ci rivediamo più tardi!» gli gridò Gibson mentre si allontanavano di corsa dalla raduta. Gli indigeni non li degnarono neppure di un’occhiata.

Erano già quasi a metà strada quando Gibson si rese conto che qualcuno lo seguiva. Si fermò di colpo e si voltò. Ansimando forte, ma ostinandosi coraggiosamente a saltellargli alle calcagna Quiicc gli aveva tenuto dietro.

«Fila via» gli disse Gibson, agitando le braccia come uno spaventapasseri impazzito. «Torna dalla mamma. Non ho niente da darti.»

Ma non sortì il minimo effetto, e la sua pausa servì soltanto a fare sì che Quiicc potesse raggiungerlo. Gli altri avevano proseguito senza accorgersi che Gibson si era fermato. Persero così la scena divertente dello scrittore che cercava di sganciarsi dal suo nuovo amico senza offenderlo.

Dopo cinque minuti di tentativi inutili, ricorse all’astuzia. Per sua fortuna non aveva restituito a Jimmy il temperino, e dopo molto sbuffare riuscì a raccogliere una manciata di alghe marine che posò davanti a Quiicc. Sperava così di tenerlo occupato per un po’ di tempo.

Aveva appena terminata questa operazione che Hilton e Jimmy ricomparvero di corsa, preoccupati che gli fosse successo qualcosa.

«Vengo, vengo» disse Gibson. «Dovevo pure liberarmi di Quiicc in qualche maniera. Così avrà da fare per un bel po’ e non penserà a seguirmi.»

Intanto il pilota rimasto solo a bordo dell’aereo danneggiato, cominciava a preoccuparsi seriamente perché l’ora era quasi trascorsa e ancora non ricompariva nessuno. Uscito dalla cabina, si arrampicò sulla fusoliera riuscendo così a dominare un buon tratto della valle, fino alla zona scura, coperta di vegetazione, entro la quale gli altri si erano addentrati. Stava appunto scrutando in quella direzione quando da oriente spuntò l’aereo di salvataggio che cominciò a girare sulla valle.

Avuta la certezza che dall’aereo l’avevano avvistato, il pilota tornò a rivolgere l’attenzione a terra, e finalmente vide un gruppetto avanzare nella pianura, ma subito si fregò gli occhi convinto di avere le allucinazioni.

Nella foresta erano entrati in tre, e ora uscivano in quattro. E il quarto aveva un aspetto a dir poco insolito.

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