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Nei giorni che seguirono, Gibson fu troppo occupato dalle proprie faccende per interessarsi gran che alla vita sociale dell’Ares. Si era sentito rimordere la coscienza, come sempre gli capitava quando trascurava troppo a lungo il suo lavoro, perciò si era messo a scrivere accanitamente.

I suoi compagni di viaggio (da un pezzo Gibson non si considerava più come un passeggero privilegiato, e i suoi rapporti personali erano diventati amichevoli con tutti) ne rispettavano il volontario isolamento. In principio entravano nella sua cabina tutte le volte che passavano di là, a discorrere del più e del meno oppure a lamentarsi del tempo. Era stato molto piacevole, ma alla fine Gibson si era visto costretto a interrompere le continue visite dei compagni attaccando all’uscio della propria cabina il seguente cartello: Attenzione. Pericolo! Uomo al lavoro! Inutile dire che il cartello era stato subito infiorato di commenti ironici vergati nelle più varie calligrafie, ma era ugualmente servito allo scopo.

La macchina da scrivere era stata liberata dagli altri mille oggetti che l’avevano soffocata, e adesso occupava il posto d’onore nella minuscola cabina.

Dopo aver prodotto un paio di articoli per tener tranquilla Ruth, per un po’ almeno (aveva ricevuto altri tre cablogrammi la cui asprezza di tono era andata ogni volta salendo con un crescendo rossiniano), si recò in direzione nord, all’Ufficio Segnalazioni. Bradley accolse i fogli dattiloscritti con freddezza scoraggiante.

«Immagino che d’ora in poi questa storia si ripeterà tutti i giorni» disse tetro.

«Spero di si ma temo di no. Tutto dipende dalla mia ispirazione.»

«C’è un verbo sbagliato, proprio qui, all’inizio della pagina due.»

«Magnifico. È quello che ci vuole nel giornalismo.»

«A pagina tre hai scritto centrifuga mentre avresti dovuto dire centripeta.»

«Dal momento che mi pagano a battuta non vedo che differenza faccia. Le due parole sono lunghe uguali, no?»

«A pagina quattro ci sono due frasi di seguito che cominciano tutte e due con perciò.»

«Senti, vuoi spedirmi questa maledetta roba, oppure devo arragiarmi da solo?»

Bradley rise.

Pur seguitando a parlare, Bradley aveva cominciato a far scivolare i fogli nel vassoio del trasmettitore automatico. Gibson li guardava, affascinato, sparire a uno a uno entro le viscere della macchina, per emergere cinque secondi dopo entro il collettore radiotelegrafico. Gli faceva un effetto curioso pensare che in quel momento le sue parole stessero già percorrendo lo spazio.

Stava raccogliendo nuovamente i suoi fogli dattiloscritti, quando dalla selva di quadranti, interruttori e cruscotti che coprivano praticamente l’intera parete del minuscolo ufficio risuonò il brusio di un cicalino. Bradley si tuffò su un ricevitore e cominciò a eseguire con la massima rapidità movimenti incomprensibili. Da un megafono uscì a un tratto un fischio lacerante.

«Il missile è finalmente entro il nostro raggio» disse Bradley, «ma è ancora molto lontano… così, a occhio e croce, credo che ci mancherà per un buon centomila chilometri.»

«Che cosa si può fare per richiamarlo?»

«Ben poco. Ho acceso il radiofaro, e se il razzo riuscirà a captare le nostre segnalazioni modificherà automaticamente la rotta navigando a pochi chilometri dal nostro raggio.»

«E se non ci riesce?»

«Pazienza! Seguiterà a tirare dritto finché sfreccerà fuori del nostro sistema, dato che viaggia abbastanza in fretta per sfuggire all’attrazione solare… Del resto può succedere anche a noi la stessa cosa.»

«Che allegria! E quanto tempo ci si mette?»

«A fare cosa?»

«A lasciare il sistema solare.»

«Un paio d’anni, pressappoco. Ma sarebbe meglio chiederlo a Mackay. Io non conosco la risposta a tutto, non sono uno di quei tipi che si trovano nei tuoi libri, sai?»

«Non è detto» replicò Gibson, e si ritirò.


L’avvicinarsi del razzo aveva prodotto un inatteso e gradito fermento di emozione a bordo dell’Ares. Esaurito il diversivo dato dalla novità, un viaggio interspaziale poteva diventare terribilmente monotono. Certo in avvenire sarebbe stato diverso, quando la grande astronave avesse brulicato di vita, ma adesso c’erano momenti in cui le sue cabine e i suoi saloni deserti e silenziosi diventavano opprimenti.

Le scommesse sulla sorte del razzo erano state organizzate dal dottor Scott, ma le quote erano state inesorabilmente fissate dal capitano Norden.

I calcoli di Mackay facevano prevedere che il proiettile avrebbe mancato l’Ares per centoventicinquemila chilometri, con un margine di trentamila chilometri in più o in meno. La maggior parte delle scommesse si basava sul margine più probabile, ma qualche pessimista si era spinto addirittura ai duecentocinquantamila chilometri. Naturalmente le poste non erano in denaro, ma consistevano in assai più pregevoli beni di consumo quali sigarette, dolci e altri generi di lusso.

Poiché il massimo peso individuale concesso a ciascun membro dell’equipaggio era strettamente limitato, questi oggetti erano assai più ricercati che non qualche banconota, anche se di grosso taglio. Mackay era giunto a mettere nel l’ondo comune persino una mezza bottiglia di whisky, assicurandosi così, in caso di vittoria, un volume di spazio del diametro di quasi ventimila chilometri.

«Entra, entra pure» disse Gibson senza neppure alzare gli occhi dalla macchina da scrivere. La porta si era aperta per lasciare volteggiare nella cabina Jimmy Spencer.

«Vi ho portato il libro, signor Gibson. Ci troverete tutto quello che vi serve. Si tratta di Elementi di Astronautica di Richardson, edizione speciale superleggera.»

Posò il volume davanti a Gibson, il quale prese a sfogliarne le pagine trasparenti con un interesse che andò via via decrescendo a mano a mano che aumentava la difficoltà di comprendere le formule matematiche. Rinunciò definitivamente a qualsiasi tentativo quando giunse a una pagina la cui sola frase era la seguente: "Sostituendo il valore della distanza del perielio all’equazione 15,3 otteniamo…". Tutto il resto erano formule.

«Sei proprio sicuro che sia il libro più elementare che esista a bordo di questa nave?» domandò in tono dubbioso. Era rimasto un poro sorpreso quando aveva saputo che Spencer era stato nominato suo precettore ufficioso, ma non era poi così sciocco da non averne intuita la ragione: tutte le volte che c’era qualcosa che nessuno voleva fare finivano per accollarla a Jimmy.

«Sì, è abbastanza elementare. Se la cava senza notazioni di vettori e non tocca la teoria delle perturbazioni. Dovreste vedere i libri dove ogni equazione occupa un paio di pagine.»

«Un momento! Prima di andartene potresti forse chiarirmi un punto che è di attualità. Molta gente si preoccupa ancora delle meteore, e mi è stato chiesto di fornire qualche dato preciso sull’argomento. Sono davvero tanto pericolose come si dice?»

Jimmy rifletté un istante, poi rispose: «Su questo argomento potrei rispondervi solo approssimativamente. Vi consiglio di rivolgervi al signor Mackay. Lui ha tutte le tavole con le cifre esatte.»

«Va bene. Ne parleremo con Mackay.»

Gibson avrebbe potuto benissimo comunicare con Mackay mediante il telefono interno, ma tutte le scuse per piantare il lavoro erano buone.

Trovò l’astronauta intento a estrarre toni melodiosi da una grande macchina calcolatrice elettronica.

«Le meteore?» disse Mackay. «Ah, già, un argomento di estremo interesse. Ho l’impressione che sull’argomento siano state pubblicate una quantità di informazioni errate. Ancora poco tempo fa quasi tutti erano convinti che un’astronave sarebbe stata immediatamente disintegrata dalle meteore non appena avesse lasciato l’atmosfera.»

«E molti ne sono convinti ancora.»

Mackay emise un grugnito di sdegno.

«Le meteore sono molto meno pericolose dei fulmini, e le più grosse di solito hanno le dimensioni di un pisello.»

«Ma dopo tutto un’astronave ne è stata seriamente danneggiata!»

«Quale? Alludi alla Star Queen? Mi pare che un solo incidente grave in cinque anni costituisca un dato alquanto confortante. Ma il fatto è che nessuna astronave si è mai veramente perduta per colpa delle meteore.»

«E la Pallas

«Nessuno può dire che cosa le sia successo. È convinzione popolare che la causa sia stata una meteora, ma i tecnici la pensano diversamente.»

«Perciò posso dire tranquillamente al pubblico di non preoccuparsi?»

«Si capisce. C’è piuttosto la questione della polvere…»

«Della polvere?»

«Ecco, se per meteore s’intendono particelle abbastanza grandi, di un paio di millimetri o poco più, non è il caso di preoccuparsi. Ma la polvere è un vero disastro, soprattutto sulle stazioni spaziali. Ogni tanto bisogna che qualcuno esca a localizzare le forature, di solito troppo piccole per essere visibili a occhio nudo. Una molecola di polvere stellare che marcia alla velocità di cinquanta chilometri il secondo è capace di perforare una lastra metallica di grande spessore.»

Questa notizia parve a Gibson un tantino allarmante, ma Mackay si affrettò a tranquillizzarlo.

«La realtà è che non c’è proprio nessun motivo di preoccuparsi» ripeté alla fine. «Un minimo di dispersione nell’ossatura di un’astronave si verifica sempre, ma ci pensa il rifornimento dell’aria a compensarlo.»

Per quanto indaffarato fosse, o pretendesse di essere, Gibson trovava sempre il tempo per vagabondare irrequieto attraverso i labirinti pieni d’echi dell’astronave, o per sedersi a contemplare le stelle dal ponte d’osservazione equatoriale. Aveva preso l’abitudine di andarci durante il concerto quotidiano. Tutti i giorni alle 15.00 precise l’altoparlante della nave entrava in azione e per un’ora la musica terrestre sussurrava o rumoreggiava per i corridoi vuoti.


Gibson era seduto sul ponte d’osservazione, intento a scoprire quante Pleiadi sarebbe riuscito a individuare a occhio nudo, quando un minuscolo proiettile gli sfiorò l’orecchio sibilando e andò ad appiccicarsi con un ciac al vetro del finestrino, dove rimase attaccato vibrando come una freccia. Al primo momento, a Gibson era parsa veramente una freccia, e per un attimo lo scrittore si era chiesto se per caso i Cherokee non fossero tornati sul sentiero di guerra. Poi notò che la punta era stata sostituita da un grosso succhione di gomma, mentre dalla base, giusto dietro le piume, si snodava un lungo filo sottile, alla cui estremità c’era il dottor Robert Scott, laureato in medicina, che vi arrancava dietro simile a un grosso ragno che sta risalendo il suo nastro di bava.

Gibson stava ancora cercando un commento sarcastico, quando, come al solito, Scott lo prevenne.

«Non ti pare ingegnoso?» chiese. «Ha un’autonomia di venti metri, pesa soltanto mezzo chilo, e non appena ritorno sulla Terra lo faccio brevettare.»

«A che cosa serve?» chiese Gibson in tono rassegnato.

«Ma come, non capisci? Immagina di spostarti da un punto all’altro nell’interno di una stazione spaziale dove non esiste gravità rotazionale. Basta lanciare questo aggeggio su una qualsiasi superficie piatta prossima al tuo luogo di destinazione e poi avvolgere la funicella. Finché non avrai liberato il succhione potrai contare su un’ancora perfetta.»

«Ma che cosa c’è che non va nel sistema solito di muoversi?»

«Quando sarai stato nello spazio tutto il tempo che ci sono stato io, ti accorgerai quante siano le cose che non vanno» rispose Scott in tono saputo. «Su una nave come questa ci sono dappertutto maniglie alle quali ti puoi attaccare. Ma immagina di andare verso una parete liscia all’altro capo della tua stanza, e di lanciarti in aria dal punto in cui ti trovi. Cosa succede? Be’, dovrai pure interrompere in qualche modo la caduta, con le mani, di solito, se non vuoi continuare a girare come una trottola. A proposito, sai qual è il disturbo più comune che un medico è costretto a curare a bordo di una nave interspaziale? Le slogature dei polsi. È naturale! Comunque, anche se raggiungi la mèta finisci regolarmente col rimbalzare all’indietro, a meno che tu non riesca ad aggrapparti a qualcosa. Del resto ti può persino capitare di rimanere bloccato a mezz’aria. A me è successo, una volta, nella stazione spaziale numero tre, in uno dei grandi capannoni. Il muro più vicino era distante quindici metri e non c’era verso che mi riuscisse di arrivarci.»

«Perché non ti sei fatto strada sputando nella direzione voluta?» chiese Gibson in tono serio. «Dicono che sia il sistema migliore per uscire da un impiccio come quello che mi hai descritto adesso.»

«Prova e poi mi saprai dire. In ogni caso non è un sistema igienico. Lo sai che cosa ho dovuto fare? Come al solito indossavo maglietta e calzoncini e avevo calcolato che quei due indumenti influivano per circa un centesimo sul peso della mia massa. Senza quegli indumenti avrei potuto raggiungere il muro opposto in un minuto. Perciò li ho tolti.»

«E ce l’hai fatta?»

«Sì. Ma quel giorno il direttore stava facendo visitare la stazione a sua moglie, quindi adesso capisci perché mi sono ridotto, per guadagnarmi da vivere, a scorrazzare su questa vecchia carretta trascinandomi di portello in portello. Fortuna che non mi hanno relegato in qualche sudicia ambulanza di astroporto.»

«Ho l’impressione che tu abbia sbagliato mestiere» disse Gibson. «A proposito, cosa fa Owem? È riuscito a mettersi in contatto col missile o non ancora?»

«No, e mi sembra che non ne abbia affatto l’intenzione. Mac dice che passerà a circa centoquarantacinquemila chilometri di distanza, in ogni modo fuori portata. È un vero peccato. Ci vorranno mesi prima che un’altra nave parta per Marte, e questa è appunto la ragione per la quale avevano tanta fretta di raggiungerci.»

«Owem è un tipo strano, vero?» osservò Gibson senza un motivo particolare.

«Quando lo si conosce bene si capisce che non è così male come sembra in principio. Non è affatto vero quello che dicono, cioè che abbia avvelenato la moglie. È lei che si è uccisa di sua spontanea volontà ingerendo un narcotico» rispose Scott tutto soddisfatto.

Owem Bradley, dottore in fisica, specialista in scienza elettronica, eccetera, eccetera, era profondamente annoiato dell’esistenza. Come chiunque altro a bordo dell’Ares era seriamente appassionato del suo lavoro, anche se ci scherzava sopra. Da dodici ore si era chiuso nella cabina comunicazioni, senza uscirne mai se non per pochi secondi, nella speranza che l’onda portante continua del razzo si spezzasse nella giusta modulazione rivelando che le sue segnalazioni erano state captate, e il razzo cominciava a virare in direzione dell’Ares. Ma sino a quel momento non era successo niente, e non c’era motivo di sperare che le cose potessero cambiare.

Bradley compose il numero dell’ufficio di astronavigazione sul quadro d’intercomunicazione della nave, e Mackay rispose quasi subito.

«Quali sono le ultime notizie, Mac?»

«Non credo che si avvicinerà più di così. Ho corretto la posizione il più possibile e ho ridotto al massimo gli errori. In questo momento si trova a centocinquantamila chilometri e viaggia lungo una rotta pressoché parallela. Nel punto più prossimo sarà a centoquarantaquattromila, fra tre ore circa. Perciò, io ho perso la scommessa, e credo che tutti quanti perderemo il missile.»

«Lo credo anch’io» borbottò Bradley. «Però finché c’è vita c’è speranza. Io vado giù all’officina.»

«A fare cosa?»

«A fabbricare un razzo monoposto per correre dietro a quell’aggeggio infernale. Per un’impresa simile, in un racconto di Martin ci vorrebbe meno di mezz’ora! Su, vieni ad aiutarmi.»

Mackay si trovava più vicino di Bradley all’Equatore della nave, di conseguenza era giunto per primo al Polo Sud e stava aspettando con curiosità quando l’altro lo raggiunse tutto avvolto di rotoli di cavo coassiale prelevati nel magazzino. In poche parole Bradley espose il suo piano.

«Avrei dovuto muovermi prima, ma io sono di quelli che seguitano a sperare sino all’ultimo che le cose si risolvano da sole. Il guaio del nostro radiofaro è che irradia in tutte le direzioni… il che è giusto, naturalmente, perché noi non sappiamo mai da dove può provenire un missile. Perciò ho intenzione di costruire un equipaggiamento a raggi e di puntare tutta l’energia di cui dispongo sul nostro fuggitivo.»

Così dicendo mostrò lo schizzo sommario di una semplice antenna Yagi e in poche parole spiegò a Mackay il suo progetto.

«Questo aggeggio è il radiatore effettivo: gli altri sono congegni direzionali e riflettori. È un dispositivo antiquato, ma facile da fabbricare, e dovrebbe riuscire allo scopo. Chiama Hilton, se hai bisogno di aiuto. Quanto tempo ti ci vorrà?»

Mackay, che per essere uno scienziato di quella fatta possedeva un’abilità manuale incredibile, diede un’occhiata al disegno e al piccolo mucchio di materiale che Bradley aveva raccolto.

«Un’ora circa» rispose, già all’opera. «Tu dove vai adesso?»

«Devo salire sull’ossatura e disinnestare il filo del trasmettitore del faro. Porta l’equipaggiamento davanti al compartimento stagno appena sei pronto, d’accordo?»

Mackay se n’intendeva poco di radio, ma aveva capito con sufficiente chiarezza quello che Bradley intendeva fare. In quel momento il minuscolo radiofaro dell’Ares stava emanando la sua energia tutt’attorno; Bradley, invece, voleva dirigerne con mira precisa tutta la forza verso il missile in fuga.

Un’ora circa più tardi, Gibson s’imbatté in Mackay che correva frettoloso per la nave trascinandosi dietro una fragile struttura di fili di metallo paralleli, tenuti divisi da asticciole di plastica. Guardò stupefatto quella roba mentre seguiva Mackay al compartimento stagno dove Bradley lo stava già aspettando impaziente nella sua ingombrante tuta spaziale, il casco ancora penzolante dal collo.

«Qual è la stella più vicina al missile?» chiese Bradley.

Mackay eseguì un rapido calcolo mentale.

«In questo momento non si trova vicino a nessun punto dell’eclittica» rifletté. «Le ultime cifre che ho segnato… vediamo un po’… declinazione circa quindici nord, ascensione esatta verso le quattordici. Penso che sia… non riesco mai a ricordare queste cose!, in qualche punto in Boote. Ah, sì, non dovrebbe essere lontano da Arturo, a una distanza comunque di non oltre dieci gradi, così a occhio e croce. Ti faccio il calcolo esatto tra un minuto.»

«Per cominciare non c’è male. Io intanto giro il faro. Chi c’è nella cabina delle segnalazioni in questo momento?»

«Il Comandante e Fred. Li ho chiamati al telefono e sono in ascolto sul monitore. Mi terrò in contatto con loro per mezzo del trasmettitore dell’ossatura.»

Bradley si allacciò il casco e scomparve nel compartimento stagno. Gibson lo vide partire con una punta di invidia. Aveva sempre desiderato indossare una tuta spaziale, ma per quanto l’avesse chiesto ripetutamente a Norden, il capitano gli aveva sempre risposto che era contro il regolamento. Le tute spaziali erano meccanismi complessi e se lui avesse commesso un errore nel maneggiarne una… ci sarebbe stato da pagare un pozzo di quattrini e a loro sarebbe magari toccato di predisporre un funerale che si sarebbe svolto in circostanze alquanto insolite.

Bradley non si perdette certo ad ammirare le stelle, non appena fu uscito dal portello esterno. Avanzò lentamente lungo la scintillante superficie dello scafo manovrando i suoi dispositivi a reazione finché non raggiunse il tratto di fasciame metallico già rimosso in precedenza. Sotto, una intricata rete di cavi e di fili era esposta all’accecante luce solare, e un cavo era già stato tagliato. Eseguì un rapido collegamento provvisorio, scuotendo tristemente la testa nell’osservare l’orribile pasticcio che certamente avrebbe riverberato metà dell’energia dritto filato nel trasmettitore. Quindi localizzò Arturo e orientò il faro in quella direzione. Poi accese la radio inserita nel casco.

«C’è qualche speranza?» chiese ansiosamente.

Dall’altoparlante gli rispose la voce malinconica di Mackay.

«Nemmeno un briciolo. Ti metto in contatto con l’ufficio comunicazioni.»

Norden confermò quanto aveva detto Mackay.

«Il segnale seguita a pervenire regolarmente, ma niente fa pensare che ci abbia avvistati.»

Bradley non sapeva più che cosa pensare. Fino a quel momento era stato sicurissimo di farcela. Come minimo, grazie al suo sistema, la potenza del faro puntato in quell’unica direzione doveva essere almeno decuplicata.

Richiamò un’altra volta Mackay.

«Senti, Mac» disse in fretta «ho bisogno che tu mi controlli di nuovo quelle coordinate. Poi vieni qui a dare una mano. Io mi occuperò del trasmettitore.»

Non appena Mackay gli ebbe dato il cambio, Bradley tornò di volata nella cabina comunicazioni. Trovò Gibson e gli altri affollati con aria immusonita intorno al monitore da cui giungeva con monotonia esasperante il sibilo ininterrotto del missile lontanissimo e che s’allontanava sempre più.

In Bradley non c’era più traccia di quei suoi movimenti solitamente così pigri, quasi felini, mentre lui esaminava diagrammi di circuito a decine e faceva man bassa nel raccoglitore delle comunicazioni. Gli bastarono pochi secondi per far scorrere un paio di fili nel cuore del trasmettitore del faro. Seguitando a lavorare, bersagliò Hilton con un vero fuoco di fila di domande.

«Tu te ne intendi di questi razzi radiocomandati. Per quanto tempo bisogna inviare i segnali prima che possa dirigersi su di noi con precisione?»

«Molto dipende dalla sua velocità relativa e da parecchi altri fattori. In questo caso, siccome si tratta di una questione di accelerazione ritardata, almeno dieci minuti, secondo me.»

«Dopodiché non avrà importanza se il nostro radiofaro non funzionerà più?»

«No. Appena il missile avrà puntato verso di noi potrai benissimo spegnere. Naturalmente bisognerà mandare un altro segnale, quando ti passerà proprio vicino, ma questo dovrebbe essere facile.»

«Quanto credi che ci metterà ad arrivare, se riesco a captarlo?»

«Forse un paio di giorni, forse meno. Che cosa stai cercando di combinare, adesso?»

«Gli amplificatori di potenza di questo trasmettitore funzionano a settecentocinquanta volt. Sto grattando un migliaio di volt in più da un’altra parte, ecco tutto. Sarà una vita felice ma di breve durata, però racldoppieremo e magari triplicheremo la nostra forza, finché le valvole resisteranno.»

Girò il commutatore delle intercomunicazioni, e chiamò Mackay il quale, non sapendo che il trasmettitore era già stato chiuso da un bel pezzo, seguitava a tenere l’equipaggiamento accuratamente puntato su Arturo. Pareva un Guglielmo Tell in armatura che stesse prendendo la mira con la balestra.

«Ehi, Mac, sei ancora lì?»

«Come un sol uomo» rispose Mackay con dignità. «Per quanto tempo ancora…»

«Cominciamo proprio adesso. Ecco che parte.»

Bradley girò il commutatore. Gibson, il quale si era aspettato di vedere volare scintille, rimase deluso. Tutto sembrava esattamente come prima, ma Bradley, che la sapeva più lunga, guardò i suoi contatori mordendosi furiosamente le labbra.

Alle radioonde sarebbe bastato mezzo secondo per varcare l’abisso che li separava dal minuscolo lontanissimo razzo e dai suoi meravigliosi congegni automatici che sarebbero rimasti privi di vita per l’eternità a meno che la segnalazione di Bradley non li raggiungesse. Il mezzo secondo trascorse, ne trascorse un altro. Il piccolo proiettile aveva avuto tutto il tempo per rispondere, ma dall’altoparlante continuava a uscire ininterrotto, esasperante, l’inesorabile fischio di eterodina. Improvvisamente, un silenzio. Parve durare secoli. A centocinquantamila chilometri di distanza l’automa stava avvertendo il fenomeno nuovo. Gli ci vollero forse cinque secondi per decidersi… poi l’onda portante riprese la sua oscillazione, ma modulata questa volta in una serie interminabile di biip-biip-biip.

Bradley si affrettò a calmare l’entusiasmo dei compagni.

«Non possiamo ancora cantare vittoria» disse. «Ricordatevi che deve captare la nostra segnalazione per dieci minuti consecutivi prima di poter completare i suoi mutamenti di rotta.» Diede un’occhiata ansiosa ai contatori e si chiese per quanto tempo ancora le valvole avrebbero resistito in quella battaglia ineguale.

Durarono per sette minuti, ma Bradley ne aveva già pronte altre di ricambio e in capo a venti secondi riprendeva l’invio del segnale. Le nuove valvole funzionavano ancora quando l’onda portante del missile mutò nuovamente di modulazione, e con un sospiro di soddisfazione Bradley si affrettò a spegnere il povero radiofaro tanto maltrattato.

«Puoi rientrare, Mac» gridò nel microfono. «Ce l’abbiamo fatta.»

«Non ho capito come siate riusciti a togliere nuovamente il circuito» disse Gibson.

«Ci ha pensato il meccanismo di controllo del razzo» spiegò Bradley col tono di un professore che cerchi di far capire la lezione a uno scolaro lento di riflessi. «Il primo segnale ci ha fatto capire che il razzo aveva percepito la nostra onda, quindi sapevamo che si stava dirigendo automaticamente verso di noi. Per la correzione di rotta gli ci sono voluti parecchi minuti, dopo di che, compiuta la manovra, ha spento i motori e ci ha inviato il secondo segnale. Naturalmente si trova pressappoco alla stessa distanza di prima, ma ormai sta puntando verso di noi e dovrebbe raggiungerci tra un paio di giorni. Allora dovrò mettere di nuovo in azione il radiofaro, e questo lo porterà a un chilometro da noi e anche meno.»

«Un momento!» esclamò Gibson, allarmato. «Non c’è pericolo che ci venga addosso?»

«Stai tranquillo. I progettisti hanno pensato anche a questo. Quando ci sarà veramente vicino entrerà in funzione un grazioso aggeggio sensibile al gradiente del campo del faro. E poiché, come saprai, la forza di campo H è inversamente proporzionale alla distanza, appare subito ovvio che dH/dr varia inversamente al quadrato di r, e perciò è troppo piccola per essere misurata, a meno che tu non ci sia vicinissimo. Non appena il missile si accorgerà di poterla misurare, azionerà i freni.»

«Fantastico!» disse Gibson.

Dal fondo della stanza giunse un discreto colpo di tosse.

«Mi spiace di dovervi ricordare, signore…» cominciò Jimmy.

Norden scoppiò a ridere.

«Ho capito: pago. Ecco le chiavi. Armadietto ventisei. Che cosa intendi fare di quella bottiglia di whisky?»

«Stavo pensando di rivenderla al dottor Mackay.»

«Certo, questo momento richiede una serie di brindisi» disse Scott lanciando a Jimmy un’occhiata severa.

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