7

«Sono completamente impazziti?» tuonò Norden con il tono di un capo vichingo preso da furia bellica. «Bisognerà pure che ci diano una spiegazione! Non è tanto facile sbarcare su Deimos. Come pretendono che si possa scaricare? Adesso chiamo il Presidente e scateno un inferno!»

«Se fossi in te non lo farei» disse Bradley con il suo accento strascicato. «Non hai notato la firma? Questi non sono ordini che vengono dalla Terra via Marte. Sono partiti proprio dall’ufficio del Presidente. Il vecchio sarà un selvaggio, ma non agisce mai alla leggera, perciò avrà le sue buone ragioni.»

«Dimmene una, almeno!»

L’altro si strinse nelle spalle.

Norden allungò una mano verso il quadro di comando e girò un interruttore.

«Ehi, Mac… qui parla il Comandante. Mi senti?»

Seguì una breve pausa, poi dalla griglia uscì la voce di Hilton.

«Mac non c’è in questo momento. Devo riferirgli qualcosa?»

«Va bene, diglielo tu. Abbiamo ricevuto ordine da Marte di cambiare strada. Ci hanno proibito di sbarcare su Phobos, senza darci spiegazioni. Di’ a Mac di calcolare un’orbita per Deimos, e di avvertirmi non appena è pronto.»

«Non capisco. Su Deimos sono tutte montagne senza neanche un…»

«Sì, sì, lo sappiamo benissimo! Può darsi che si degnino di darci una spiegazione quando saremo là. Di’ a Mac di mettersi in contatto con me non appena può, capito?»

Il dottor Scott riferì la notizia a Gibson mentre il giornalista stava dando gli ultimi ritocchi al suo solito articolo settimanale.

«Nessuno sa il perché?»

«No. Siamo circondati dal più assoluto mistero. Abbiamo chiesto, ma Marte si rifiuta di rispondere.»

Gibson si grattò la fronte, vagliando e respingendo una mezza dozzina di ipotesi. Sapeva che Phobos, la luna interna, era stata allestita come base sin dalla prima spedizione marziana. A soli seimila chilometri dalla superficie del pianeta, e con una gravità inferiore a un millesimo di quella terrestre, rappresentava l’ideale per tale scopo. Le navi interspaziali costruite in lega superleggera potevano atterrare sicure su un mondo dove il loro peso totale era inferiore a una tonnellata e dove occorrevano vari minuti per una caduta di pochi metri. Un piccolo osservatorio, una stazione radio, qualche edificio pressurizzato costituivano le uniche costruzioni del minuscolo satellite che aveva un diametro di soli trenta chilometri. Su Deimos, la luna più piccola e più lontana, invece, non c’era niente a eccezione di un radiofaro automatico.

L’Ares doveva atterrare entro una settimana. Già Marte si presentava come un piccolo disco sulla cui superficie si vedevano anche a occhio nudo numerosi rilievi. A bordo vi era un gran da fare per scrutare il pianeta attraverso il telescopio mentre si svolgevano innumerevoli discussioni attorno a mucchi di carte e di fotografie. Gibson si era fatto prestare una proiezione di Mercatore su grande scala del pianeta e si era messo a studiarne la toponomastica.

Entro qualche giorno i motori dell’Ares avrebbero dovuto frenare la velocità di marcia dell’astronave. Il mutamento di velocità necessario per deflettere l’orbita di viaggio da Phobos a Deimos era trascurabile, ciononostante Mac aveva fatto calcoli per ore e ore.

Ogni pasto era condito da discussioni sullo stesso argomento: quello che si poteva fare non appena giunti su Marte. Gibson, il signore in vacanza, se ne sarebbe potuto andare subito, ma i lavoratori, come gli facevano rilevare gli altri, si sarebbero dovuti fermare su Deimos diversi giorni per la revisione della nave e per badare che il carico venisse sbarcato senza incidenti.

I progetti di Gibson si potevano riassumere in una sola frase: vedere il più possibile. Era forse un po’ ottimistico sperare di conoscere un intero pianeta nello spazio di due soli mesi, malgrado le reiterate affermazioni di Bradley che due giorni dedicati a Marte fossero anche troppi.

Il trambusto e l’emozione di quegli ultimi giorni di viaggio avevano distratto Gibson dai suoi problemi personali, almeno sino a un certo punto. Aveva rivisto Jimmy circa una decina di volte ai pasti e durante alcuni incontri occasionali, ma nessuno dei due aveva ripreso il delicato argomento di quella sera. Per un certo tempo Gibson aveva avuto il sospetto che il ragazzo lo evitasse di proposito, ma si rese quasi subito conto che non era affatto così. Come il resto dell’equipaggio, anche Jimmy era indaffaratissimo per i preparativi che preludevano alla fine del viaggio. Norden era ben deciso ad atterrare con la nave in perfetta efficienza, e per ottenere questo scopo bisognava fare una quantità enorme di controlli e di revisioni continue. Tuttavia, nonostante le multiformi attività che gravavano su di lui, Jimmy aveva riflettuto, e molto, a quanto gli aveva detto Gibson. In un primo momento aveva provato un senso di amarezza e di risentimento per l’uomo che era stato responsabile, anche se non intenzionalmente, dell’infelicità di sua madre. Ma poi aveva cominciato a immedesimarsi anche nel punto di vista di Gibson, e aveva finito col capirlo almeno in parte.


Faceva un effetto curioso riprendere peso a poco a poco e risentire di nuovo il rombo lontano dei motori. Le manovre per le ultime delicate correzioni di rotta occuparono oltre ventiquattr’ore. Quando tutto fu sistemato, Marte era diventato grande dodici volte la Luna, mentre Phobos e Deimos apparivano visibili come minuscole stelle i cui movimenti erano facilmente individuabili dopo pochi minuti di osservazione.

Gibson non si era mai reso pienamente conto sino a che punto fossero rossi i grandi deserti. Ma il semplice aggettivo rosso non dava un’idea esatta della multiforme gamma di sfumature che distinguevano il disco che ingrandiva lentamente. Alcune regioni apparivano quasi scarlatte, altre erano d’un giallo rossiccio, mentre la tinta forse più diffusa era quella che solitamente va sotto il nome di rosso mattone.

Nell’emisfero meridionale era primavera inoltrata, e la calotta polare era ridotta a pochi luccicanti puntini candidi là dove la neve indugiava ancora, cioè sulle alture più elevate. La vasta fascia di vegetazione tra il polo e il deserto era per la maggior parte di un verde bluastro, sfuocato. Su quel disco variegato era possibile trovare le più impensabili sfumature di colore.

L’Ares stava avanzando entro l’orbita di Deimos a una velocità relativa inferiore ai mille chilometri orari. Dinanzi all’astronave, la piccola luna era già perfettamente visibile, e con il trascorrere delle ore crebbe tanto che, vista a poche centinaia di chilometri di distanza, sembrava grande quanto Marte. Ma quale contrasto col pianeta principale. Lì, niente rossi né verdi opulenti, bensì un nero caos di rocce accatastate alla rinfusa, di montagne a picco svettanti verso le stelle in ogni senso, in un triste universo di gravità praticamente nulla.

Lentamente le rocce aguzze scivolarono di fianco a loro mentre l’Ares si dirigeva sicura verso il radiofaro di cui Gibson aveva udito il segnale alcuni giorni prima.

Poco dopo, a pochi chilometri sotto di sé, lungo una zona quasi livellata, Gibson vide i primi segni che rivelavano il passaggio dell’uomo su quel mondo desolato. Due file di pilastri verticali si alzavano dal suolo, e tra questi si intersecava tutta una fitta rete di cavi. Quasi impercettibilmente l’Ares calò verso Deimos. I razzi principali erano stati spenti da parecchio perché il peso della nave era ormai ridotto a poche centinaia di chili.

Non fu possibile avvertire con esattezza l’attimo del contatto: solo l’improvviso silenzio quando i propulsori ausiliari vennero spenti segnalò a Gibson che il viaggio era terminato e che l’Ares si riposava finalmente nella culla che le avevano preparata. Mancavano ancora ventimila chilometri per arrivare a Marte, e lui avrebbe raggiunto il pianeta soltanto il giorno successivo con uno dei piccoli razzi appositamente adibiti al collegamento fra il pianeta e il suo satellite, e che già si apprestava a raggiungerli. Ma per quello che riguardava l’Ares, la traversata era finita.

Lasciò il ponte d’osservazione e si affrettò verso la cabina di comando, che in quelle ultime ore di lavoro intenso aveva evitato di proposito. Non era più tanto facile muoversi nell’interno dell’Ares, poiché la forza gravitazionale di Deimos, per quanto debole, era sufficiente a disturbare i movimenti ai quali si era abituato. L’equipaggio era riunito al tavolo delle carte di navigazione e tutti avevano l’aria contenta e soddisfatta.

«Sei arrivato giusto in tempo, Martin» gli gridò Norden in tono d’allegria. «Ci stiamo preparando a un piccolo festeggiamento. Vai a prendere la tua macchina fotografica e divertiti pure a far fotografie mentre noi berremo un goccio alla salute della nostra vecchia caravella!»

«Ehi, mi raccomando, non vi scolate tutto mentre non ci sono io!» ammonì Gibson e filò via in cerca della sua Leica. Quando rientrò il dottor Scott stava tentando un esperimento interessante.

«Sono stufo di sorbire la mia birra da un recipiente a forma di bulbo» spiegò. «Voglio cercare di versarla come si conviene in un bicchiere vero, adesso che ne abbiamo di nuovo la possibilità.»

«Si appiattirà prima di arrivare al fondo» lo avvertì Mackay. «Un momento, lasciami pensare. G equivale a circa mezzo centimetro secondo per secondo… Tu versi da un’altezza di…» Si concentrò in un silenzio denso di meditazione.

Ma l’esperimento era già in atto. Scott stava reggendo la latta di birra forata a un’altezza di circa trenta centimetri dal bicchiere, e per la prima volta in tre mesi la parola altezza acquistò valore, anche se irrilevante. Sia pure con incredibile lentezza, il liquido ambrato colò dalla latta, tanto lentamente che lo si sarebbe potuto scambiare per sciroppo. Un’esile colonna si allungò verso il basso, colando dapprima con moto quasi impercettibile, quindi con lenta accelerazione. Sembrò che passasse un tempo incalcolabile prima che la birra riuscisse finalmente a raggiungere il fondo del bicchiere, e non appena si verificò il primo contatto, e il livello del liquido prese a salire, da tutti i presenti si levò un evviva fragoroso.

Gibson si diresse al suo posto preferito, sul ponte di osservazione.

Marte era di fronte a lui. Certo laggiù fervevano i preparativi per riceverli, e i minuscoli razzi dovevano essere già partiti. In quel momento stavano probabilmente arrancando invisibili verso Deimos per poi traghettarli sul pianeta. A 14.000 chilometri in basso, ma sempre a 6.000 chilometri sopra Marte, Phobos stava passando davanti alla faccia in ombra del pianeta. Gibson si chiese con un senso quasi di timore che cosa stesse succedendo sulla piccola luna. Be’, presto l’avrebbe saputo. Intanto avrebbe dato una rispolverata alla sua aerografia. Ecco: quella era la biforcazione del Sinus Meridiani (facilissimo da individuare, dato che si trovava giusto sull’equatore e a longitudine zero), e quella laggiù a oriente la Sirte Maggiore. Quel giorno il Margaritifer Sinus si distingueva benissimo, ma che cumulo di nubi c’era su Xanthe e…

«Signor Gibson!»

Si girò di scatto, quasi con un sussulto.

«Oh, Jimmy! Ne hai avuto abbastanza anche tu?»

Il ragazzo era rosso in faccia e appariva accaldato: evidentemente era venuto anche lui in cerca di una boccata d’aria fresca. Un po’ malfermo sulle gambe, si sedette a fatica nella sua solita nicchia e per un attimo fissò Marte in silenzio, come se lo vedesse per la prima volta. Infine scosse la testa con aria di disapprovazione, e senza rivolgersi ad alcuno in particolare sentenziò: «È troppo grande!»

«Ma se è molto più piccolo della Terra!» protestò Gibson.

«Può darsi, ma è troppo grande. Tutto è troppo grande.»

La conversazione minacciava di girare in tondo senza alcun costrutto. Gibson prese una decisione: cambiare argomento.

«Che cosa hai intenzione di fare quando sarai su Marte? Dovrai trovare il modo d’impiegare un paio di mesi prima che l’Ares torni a casa!»

«Mah! Forse farò delle escursioni intorno a Porto Lowell e andrò ad ammirare un po’ i deserti. Mi piacerebbe fare qualche piccola esplorazione.»

Gibson trovò che il progetto era molto interessante, ma sapeva che esplorare Marte con una certa ampiezza di raggio non era un’impresa facile. E non era molto probabile che Jimmy potesse unirsi alle spedizioni scientifiche che di tanto in tanto si allontanavano dalle località abitate.

«Ho un’idea» disse. «A quanto pare hanno l’intenzione di farmi vedere tutto quello che voglio. Può darsi che riesca a organizzare qualche gita a Hellas o ad Esperia, dove non c’è ancora andato nessuno. Ti piacerebbe venire con me? Potremmo incontrare qualche Marziano.»

Naturalmente quella dei Marziani era la storiella che circolava tra gli abitanti della Terra sin dal tempo in cui erano tornate le prime astronavi con la deludente notizia che il pianeta gemello era completamente disabitato. Tuttavia parecchi erano ancora fermamente convinti, malgrado tutte le prove contrarie, che in qualche angolo dei monti ancora inesplorati del pianeta si annidasse qualche forma di vita intelligente.

«Già» disse Jimmy, «sarebbe davvero magnifico. Comunque nessuno potrà impedirmi di fare quello che voglio, perché quando sarò su Marte avrò a mia disposizione tutto il tempo che mi parrà e mi piacerà. C’è sul contratto.»

Seguirono alcuni minuti di silenzio. Poi Jimmy cominciò a staccarsi con estrema lentezza dal finestrino d’osservazione e a scivolare lungo le paratie in pendenza della nave. Gibson lo acchiappò al volo prima che si allontanasse troppo, e lo assicurò al sedile con due solide maniglie elastiche in modo che il ragazzo potesse dormire tranquillamente. Era troppo stanco per trascinarlo fino alla sua cuccetta.

Il giorno seguente Gibson fu risvegliato da un frastuono infernale. Pareva che l’Ares stesse cadendo a pezzi. Si affrettò a vestirsi e a uscire nel corridoio. La prima persona che vide fu Mackay, il quale gli urlò con quanto fiato aveva in gola, mentre si allontanava di corsa: «Sono arrivati í razzi! Il primo riparte fra due ore! Dovresti spicciarti… Credo che ti manderanno su con quello!»

Perplesso, Gibson si grattò la fronte.

«Qualcuno avrebbe anche potuto avvertirmi» borbottò. Poi si ricordò che in realtà l’avevano avvertito, quindi doveva rimproverare soltanto se stesso se non era ancora pronto. Tornò di corsa in cabina e si mise a fare frettolosamente le valigie. Ogni tanto l’astronave era scossa da un forte tremito intenso che si trasmetteva al suo corpo. Gibson era curiosissimo di sapere cosa stesse succedendo.

Davanti al compartimento stagno incontrò Norden. Il capitano aveva l’aria stanca. Con lui c’era il dottor Scott, già equipaggiato per la partenza, il quale reggeva tra le mani, con precauzione estrema, una massiccia cassetta di metallo.

«Vi auguro di fare una traversata magnifica» disse Norden. «Ci rivedremo tra un paio di giorni, non appena avremo sbarcato tutto il carico, perciò sino a quel momento… Oh, quasi me ne dimenticavo! Mi hanno detto di farti firmare questa roba.»

«Che cos’è?» chiese Gibson in tono sospettoso. «Io non firmo mai niente che non sia stato preventivamente approvato dal mio editore.»

«Leggi e vedrai» disse Norden ridendo. «È un documento storico.»

E così dicendo gli tese una pergamena su cui c’era scritto:

"CON IL PRESENTE DOCUMENTO SI CERTIFICA CHE MARTIN M. GIBSON, SCRITTORE, È STATO IL PRIMO PASSEGGERO A VIAGGIARE SULLA NAVE SPAZIALE ARES, DURANTE IL VIAGGIO INAUGURALE DALLA TERRA A MARTE".

Seguivano la data e uno spazio vuoto per le firme di Gibson e degli altri componenti dell’equipaggio. Gibson firmò.

«Immagino che questo papiro andrà a finire un giorno o l’altro in qualche Museo d’Astronautica, quando si decideranno a costruirne uno» disse.

Per la seconda volta Gibson s’infilò una tuta spaziale. Gli pareva d’essere ormai un veterano di simili avventure.

«Naturalmente tu comprendi benissimo» gli spiegò Scott «che quando il servizio sarà organizzato in modo regolare raggiungeranno il traghetto attraverso un tunnel di collegamento. Altrimenti, con questo sistema nessuno si muoverebbe più di casa e per la società sarebbe il fallimento sicuro.»

«Perderanno però un’esperienza interessantissima» disse Gibson mentre eseguiva un rapido controllo dei manometri disposti sul piccolo quadro comandi della tuta.

Di fronte a loro si aprì il portello esterno, e gli uomini vennero lentamente proiettati fuori, sulla superficie di Deimos. L’Ares, trattenuta entro la sua culla di funi (che dovevano essere state preparate in tutta fretta durante la settimana precedente), sembrava assalita da una intera squadra di smantellatori. Finalmente Gibson capiva la ragione dei colpi assordanti e del frastuono che l’avevano svegliato. Quasi tutta la rivestitura metallica dell’Emisfero Meridionale era stata rimossa per permettere di entrare nella stiva, e i membri dell’equipaggio, in tuta, erano adesso impegnati a sbarcare il carico che veniva via via ammucchiato sulle rocce intorno alla nave.

A cinquanta metri dall’Ares si dondolavano i due piccoli razzi alati giunti da Marte durante la notte. Nel primo si stava già procedendo al carico della merce, mentre il secondo, molto più piccolo, era evidentemente destinato al trasporto dei passeggeri. Mentre si avvicinava al traghetto seguendo Scott con lentezza e cautela, Gibson si sintonizzò sulla lunghezza d’onda normale per dare un ultimo saluto ai suoi compagni di viaggio.

Gli fece un effetto curioso vedere finalmente una faccia nuova. Il pilota del razzo entrò nel compartimento stagno per aiutarli a togliersi le tute che vennero poi deposte con cura sul suolo di Deimos per essere riutilizzate in un’altra occasione. Quindi li accompagnò nella minuscola cabina e li consigliò di sdraiarsi sui sedili imbottiti.

«Siccome siete vissuti per un paio di mesi in regime di non gravità» disse «cercherò di portarvi su il più piano possibile. Mi servirò soltanto della normale gravità terrestre, ma vi avverto che anche così sembrerà di pesare una tonnellata. Siete pronti?»

«Sì» rispose Gibson, cercando di non pensare all’esperienza precedente.

Si udì un rombo sommesso, lontano, e qualcosa lo premette in giù e lo tenne saldamente ancorato al suo sedile. Le rocce e le montagne di Deimos scomparvero rapidamente e Gibson ebbe appena il tempo di cogliere un’ultima visione fuggevole dell’Ares, lucido manubrio d’argento contro un ossessionante incubo di cime vertiginose.

Era bastato uno scoppio d’energia della durata di un secondo per strapparli alla forza d’attrazione della piccola luna, e adesso galleggiavano intorno a Marte in caduta libera. Per vari minuti il pilota studiò gli strumenti mentre riceveva istruzioni via radio dal pianeta sottostante e azionava i giroscopi. Quindi inserì di nuovo il contatto dell’accensione e i razzi ripresero a tuonare per qualche secondo. La navicella era uscita dall’orbita di Deimos e adesso scendeva verso Marte. Tutta l’operazione era stata una replica esatta, in miniatura, di un vero e proprio viaggio interplanetario. Erano cambiati soltanto i tempi e le durate: avrebbero impiegato tre ore anziché tre mesi a raggiungere la loro meta, e invece di milioni di chilometri ne dovevano percorrere soltanto qualche migliaio.

«Dunque» disse il pilota chiudendo i comandi e girandosi sul sedile. «Com’è andato il viaggio?»

«Ottimamente, grazie» rispose Gibson. «Certo non abbiamo avuto molte distrazioni: tutto è andato liscio come l’olio.»

«Come ve la passate su Marte di questi tempi?» domandò Scott.

«Al solito. Molto lavoro e poco svago. La novità del giorno è la nuova cupola che stanno costruendo a Lowell. Trecento metri di diametro. Quasi quasi si riesce a immaginare di essere ancora sulla Terra. Stanno studiando per vedere se è possibile crearvi piogge e nubi artificiali.»

«Che cos’è tutto questo pasticcio di Phobos?» chiese Gibson, sempre in caccia di notizie. «Ci ha procurato un sacco di noie.»

«Niente di grave. Di preciso non sa niente nessuno, tranne che in questo momento lassù c’è un sacco di gente a costruire un laboratorio gigante. La mia impressione è che Phobos sia destinato a restare puramente una stazione di ricerche, e perciò non vogliono avere un continuo movimento di va e vieni che disturberebbe i loro strumenti a causa delle radiazioni connesse al traffico di astronavi e razzi.»

Marte si trovava ormai a meno di duemila chilometri di distanza, e Gibson dedicò tutta la sua attenzione al panorama sottostante che andava allargandosi sotto i suoi occhi. Ora stavano passando rapidamente sopra l’equatore, e si abbassavano entro gli strati esterni dell’atmosfera del pianeta. A un tratto, e non fu possibile cogliere il momento esatto, Marte cessò di essere un corpo celeste fluttuante nello spazio e diventò un mondo, anche se ancora lontano, con un suo paesaggio nettamente distinguibile. Sotto di loro fuggivano deserti e oasi: la Sirte Maggiore comparve e disparve prima che Gibson avesse il tempo di riconoscerla. A cinquanta chilometri d’altezza ebbero la prima avvisaglia che l’atmosfera intorno a loro si stava infittendo. Un sospiro lontano, debolissimo, che non aveva un preciso punto d’origine, riempì la cabina. L’aria rarefatta si aggrappava con esili dita al missile che filava a velocità incredibile, ma la sua forza stava aumentando rapidamente, e in caso di navigazione difettosa sarebbero stati guai. Gibson avvertì gli effetti della decelerazione a mano a mano che la navicella riduceva la propria velocità, e il sibilo dell’aria era divenuto ora così impetuoso, che lo si udiva anche attraverso le paratie insonorizzate, e nella cabina non sarebbe stato facile sentirsi parlando in tono normale.

Il tutto durò in realtà pochi minuti, ma Gibson ebbe la sensazione che non finisse mai. A poco a poco infine il gemito del vento diminuì lentamente. Il razzo aveva scaricato tutto il suo eccesso di velocità contro la resistenza dell’aria e presto il materiale refrattario del suo muso e delle sue ali a forma di coltello si sarebbe raffreddato perdendo la tinta rosso-ciliegia. Non più nave spaziale ma semplicemente aliante ad alta velocità, il minuscolo missile sfrecciava sopra il deserto a circa mille chilometri all’ora, seguendo il segnale costante di Porto Lowell.

La colonia apparve a Gibson come una minuscola macchia bianca all’orizzonte, candida contro lo sfondo nero dell’Aurorae Sinus. Il pilota azionò un comando facendo compiere al missile una larga virata in direzione sud, e contemporaneamente la quota e la velocità diminuirono. Nell’attimo in cui il razzo s’inclinava di lato, Gibson ebbe la visione fugacissima di mezza dozzina di grandi cupole circolari strettamente raggruppate l’una vicino all’altra. Poi il suolo salì a incontrarli. Seguì una serie di piccole scosse e la macchina rollò a lungo e poi si fermò.

«A quanto pare hanno organizzato un comitato di ricevimento» disse il pilota. «Vedo fuori l’intera squadra trasporti. Non sapevo che avessero tanti mezzi a disposizione!»

Due piccole macchine tozze con enormi ruote sferiche erano corse loro incontro. La cabina di guida, pressurizzata, era sufficiente a contenere due persone, ma almeno una decina di persone erano riuscite a salire sui minuscoli mezzi aggrappandosi ad apposite maniglie esterne. Dietro, venivano due grandi autocarri con ruote direttrici e cingoli posteriori, anch’essi zeppi di gente. Gibson non si era aspettata tanta folla e si preparò a improvvisare un breve discorso.

«Credo che non siate ancora abituato a usare questa roba» disse il pilota mostrandogli due respiratori. «Ma dovrete tenerli solo per un minuto solo, il tempo di arrivare alle pulci.» Alle che cosa?, pensò Gibson. Ah, già, quei trabiccoli dovevano essere le famose pulci del deserto marziane, cioè i comuni mezzi di trasporto del pianeta. «Ve lo sistemo io. Arriva l’ossigeno? Bene, andiamo. Può darsi che all’inizio vi sentiate un po’ a disagio.»

L’aria uscì lentamente, sibilando, dalla cabina finché la pressione esterna e interna non fu eguale. L’esposizione improvvisa della pelle all’aria diede a Gibson un senso sgradevole di prurito; infatti l’atmosfera che lo circondava era più rarefatta di quanto lo sia l’aria terrestre sulla cima dell’Everest. Gli erano stati necessari due mesi di lenta acclimatazione sull’Ares, e tutte le risorse della scienza medica moderna per consentirgli di mettere piede sulla superficie di Marte con l’unica protezione di una maschera ad ossigeno.

Si sentì lusingato nel vedere quanta gente si fosse mossa per dargli il benvenuto. Certo non succedeva tutti i giorni che su Marte arrivasse un ospite di tanto riguardo, ma lui sapeva che l’indaffaratissima colonia non aveva tempo da sprecare in molte cerimonie.

Il dottor Scott usci a sua volta dal razzo, sempre reggendo tra le mani la cassetta di metallo che aveva custodito con tanta cura durante il viaggio. Non appena lo vide, un gruppo di coloni gli si precipitò incontro ignorando totalmente Gibson. Le loro voci, alterate dall’aria rarefatta, erano quasi incomprensibili.

«Salve, dottore, felici di rivedervi. Permettete! Lasciate che ve la portiamo noi!»

«Tutto è pronto. All’ospedale ci sono attualmente dieci casi. Tra una settimana si dovrebbe sapere se è efficace o no!»

«Su, andiamo, salite sull’autocarro. Parleremo in seguito!»

Prima che Gibson riuscisse a capire quello che stava succedendo, Scott era scomparso, armi e bagagli. Un motore potente lanciò un gemito acuto e l’autocarro si allontanò a tutta velocità in direzione di Porto Lowell, lasciando Gibson solo e con la sensazione di aver fatto la parte del perfetto imbecille come non mai.

Si era dimenticato completamente del siero. Per Marte l’arrivo del siero era infinite volte più importante della visita di un romanziere e giornalista terrestre, per quanto famoso. Aveva ricevuto una lezione che non avrebbe dimenticato facilmente.

Per sua buona sorte però non era stato lasciato solo. Da una delle due pulci del deserto smontò un uomo che gli andò incontro cordialmente.

«Il signor Gibson? Io sono Westerman del Tempo, del Tempo Marziano, naturalmente. Lietissimo di conoscervi. Questo è…»

«Henderson. Ho la sovrintendenza dei servizi aeroportuali» lo interruppe un uomo alto, dalla faccia che sembrava tagliata con l’accetta, e con l’espressione chiaramente seccata per essere arrivato soltanto secondo. «Ho dato ordine perché provvedano a ritirare il vostro bagaglio. Salite pure.»

Era chiaro che Westerman avrebbe preferito portare lui Gibson, ma dovette fare buon viso e accettare le disposizioni dell’altro. Gibson salì dunque sulla pulce di Henderson attraverso la sacca di materiale plastico flessibile che costituiva il semplicissimo ma efficace compartimento stagno del veicolo, subito raggiunto nella cabina di guida dal suo ospite. Provò un vivo sollievo nel togliersi la maschera: quei pochi minuti trascorsi all’aperto lo avevano spossato. Si sentiva pesante e intontito, esattamente l’opposto di quello che si sarebbe aspettato di provare su Marte. Ma per lunghi mesi non aveva più conosciuto alcuna sensazione di gravità, e gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo per riabituarsi a possedere sia pure un terzo del suo peso terrestre.

Il veicolo prese a correre lungo la pista d’atterraggio, verso le cupole del Porto lontane circa due chilometri. Per la prima volta Gibson notò tutt’attorno a sé il luminoso verde marezzato delle piante tigliose, coriacee, che rappresentavano la più diffusa forma di vita marziana. Sulla sua testa il cielo non era più nero ma splendeva di un azzurro radioso, intenso. Il sole era vicino allo zenit, e i suoi raggi, sorprendentemente caldi, penetravano nella cabina attraverso la cupola in plastica.

Gibson scrutò la volta celeste, sperando di individuare la minuscola luna sulla quale i suoi compagni erano tuttora al lavoro. Henderson notò la direzione del suo sguardo e togliendo per un attimo la sua mano dal volante puntò l’indice in direzione del Sole.

«Eccola» disse.

Gibson si fece schermo con le mani. A un tratto vide, sospesa alla volta celeste come una lontana lampada ad arco, una stella brillantissima, lievemente scostata in direzione ovest rispetto al sole. Era troppo piccola anche per essere Deimos, ma quasi subito si rese conto che il suo compagno si era ingannato sull’oggetto delle sue ricerche.

Quella luce ferma, immobile, che brillava inaspettatamente nel cielo diurno, era adesso, e tale sarebbe rimasta per molte settimane, la stella mattutina di Marte. Ma era meglio nota col nome di Terra.

Загрузка...