Il viaggio, ormai alle ultime settimane, era caratterizzato da un senso inevitabile di noia per il diminuito interesse che si sarebbe riacceso soltanto quando fossero entrati nell’orbita di Marte.
L’ultima avventura, per Gibson, era stato il momento in cui aveva definitivamente perso di vista la Terra. Di giorno in giorno si era andata avvicinando sempre più alle smisurate ali perlacee della corona, quasi si preparasse a immolare i suoi miliardi di esseri sulla pira funeraria del Sole. Una sera era apparsa ancora visibile al telescopio, simile a una minuscola favilla in lotta coraggiosa con lo splendore abbagliante entro cui era destinata a scomparire. Gibson aveva pensato che forse sarebbe stata ancora visibile il mattino seguente, ma durante la notte chissà quale colossale esplosione aveva gettato la corona mezzo milione di chilometri più in là nello spazio, e la Terra si era perduta sullo sfondo della cortina incandescente. Doveva trascorrere una settimana prima di vederla riapparire, e in quel breve tempo il mondo di Gibson si sarebbe trasformato così profondamente come sarebbe stato difficile prevedere.
Quando Gibson aveva cominciato a interessarsi seriamente di astronautica, Jimmy se l’era trovato davanti puntualmente un paio di volte la settimana, e aveva cercato allora di valutarlo, impresa tutt’altro che tacile, perché Gibson non era mai lo stesso per molto tempo di seguito. C’erano momenti in cui era riguardoso e attento, e in genere estremamente socievole, ma ce n’erano altri in cui si dimostrava talmente di cattivo umore e distratto che veniva spontaneo definirlo l’uomo più intrattabile dell’astronave.
Per quanto lo riguardava, Jimmy non era affatto sicuro dell’opinione di Gibson su di lui. A volte aveva la sgradevole sensazione che lo scrittore lo considerasse unicamente come materiale grezzo che un giorno forse avrebbe potuto acquistare qualche valore.
Una cosa che sorprendeva in Gibson era la sua solida preparazione tecnica. Quando Jimmy aveva iniziato i suoi corsi serali, come tutti a bordo li chiamavano, si era immaginato che Gibson fosse semplicemente preoccupato di evitare di commettere errori pacchiani negli articoli che radiodiffondeva alla Terra, ma che non nutrisse affatto un vero e profondo interesse per l’astronautica in sé. Ma ben presto si accorse che non era affatto così. Gibson dimostrava un desiderio quasi commovente di dominare branche della scienza così poco comuni, e chiedeva dimostrazioni matematiche che a volte mettevano in imbarazzo Jimmy. Il giornalista possedeva un bagaglio rilevante di cognizioni tecniche, frutto dei suoi studi giovanili. Si era certamente prodotto in dilettanteschi tentativi di affrontare teorie scientifiche un po’ troppo avanzate per lui, e questo gli aveva dato una infarinatura su alcuni problemi, più tipica dei curiosi che dei competenti.
Pur non ammettendola di solito, a volte Gibson accettava con spiritosa rassegnazione il riconoscimento della sua ignoranza e cercava subito di cambiare argomento. Era un ottimo conversatore, con un fiuto infallibile per le notizie scandalistiche, ed era particolarmente abile nello scalzare la reputazione altrui, ma lo faceva senza la minima malizia, anche se più di un aneddoto da lui raccontato a Jimmy sui personaggi più in vista del momento fosse riuscito a scandalizzare il bravo ragazzo che era alquanto puritano.
Nonostante questa spregiudicatezza di Gibson, Jimmy affrontò con sufficiente disinvoltura il discorso su di sé. La lezione si era arenata sullo scoglio delle equazioni integro-differenziali, e sia all’allievo sia al maestro a un certo momento era sembrato più opportuno cambiare completamente discorso. Gibson era in uno stato d’animo gaio, e nel chiudere i libri con un sospiro si volse a Jimmy:
«Non mi hai mai parlato di te, Jimmy. Si può sapere almeno di che parte dell’Inghilterra sei?»
«Di Cambridge… Perlomeno, è là che sono nato.»
«La conoscevo bene Cambridge, una volta, vent’anni fa. Adesso non ci abiti più?»
«No. Quando avevo circa sei anni la mia famiglia si è trasferita a Lecds, e di lì non ci siamo più mossi.»
«Che cosa ti ha spinto a scegliere l’astronautica?»
«Non saprei nemmeno io. La scienza mi ha sempre interessato, il volo interspaziale è la grande avventura di questi anni, e io sento di possedere un’inclinazione naturale per queste cose. Se fossi nato cinquant’anni fa probabilmente mi sarei dedicato all’aeronautica.»
«Perciò t’interessi al volo spaziale come a un problema puramente tecnico, non, come dire?, a qualcosa che potrebbe rivoluzionare il pensiero umano con la scoperta di sempre nuovi pianeti e via di seguito. È così?»
Jimmy rise.
«Credo che abbiate abbastanza ragione. Certo anche queste idee mi interessano, ma quello che veramente mi affascina è il lato tecnico. Anche se fossi sicuro che sui pianeti non c’è niente, sarei ugualmente desideroso di riuscire a raggiungerli.»
Gibson scosse la testa con finta disperazione.
«Finirai col diventare uno di quegli scienziati freddi e astrusi che sanno tutto senza sapere niente. Un altro uomo di valore, completamente sprecato.»
«Mi fa piacere che pensiate così di me» disse Jimmy pronto. «Ma perché v’interessate tanto di scienza?»
Gibson rise, ma nella sua voce c’era una punta d’impazienza mentre rispondeva: «Io m’interesso alla scienza unicamente come mezzo, non come fine.»
La conversazione si svolgeva in un’atmosfera talmente amichevole e l’interessamento appariva così autentico, che Jimmy se ne sentì compiaciuto, e questo lo spinse a parlare ancora più liberamente e con maggior disinvoltura.
Parlò della sua infanzia e della sua prima adolescenza, e Gibson si spiegò le nubi che di quando in quando sembravano oscurare il carattere del ragazzo, solitamente allegro. La madre di Jimmy era morta lasciandolo poco più che in fasce, e suo padre l’aveva affidato alle cure di una sorella sposata. La zia era stata sempre affettuosa con Jimmy, ma questi non si era mai sentito di casa fra i cugini: aveva sempre avuto la sensazione di essere un estraneo. Suo padre non gli era stato di grande aiuto, perché viveva quasi sempre all’estero, ed era morto quando il ragazzo aveva circa dieci anni. Si aveva l’impressione che Jimmy ricordasse poco il padre, cosa alquanto strana, poiché il ricordo della madre, che pure lui aveva conosciuta appena, era invece oltremodo vivo nel ragazzo.
«Non credo che i miei genitori fossero veramente innamorati l’uno dell’altro» disse Jimmy. «Da quanto mi ha raccontato zia Helen, il loro matrimonio dev’essere stato un errore. C’era stato prima un altro uomo… Mio padre deve essere stato una specie di ripiego.»
«Capisco» disse Gibson con dolcezza, e sembrava che veramente sentisse quello che diceva. «Parlami ancora di tua madre.»
«Suo padre, cioè mio nonno, era professore universitario. Credo che mia madre abbia trascorso tutta la sua vita a Cambridge, dove frequentò la facoltà di storia. Oh, ma non credo che tutto questo possa interessarvi!»
«Certo che m’interessa» disse Gibson con calore. «Continua.»
Sembrava uno dei tanti romanzetti fra studenti che fioriscono e muoiono nel breve volgere di un paio d’anni e che tuttavia presi per se stessi sembrano un microcosmo di vita. Ma quello aveva avuto un carattere di particolare serietà. Durante l’ultimo trimestre scolastico la madre di Jimmy, il ragazzo non ne aveva ancora detto il nome, si era innamorata di un giovane studente d’ingegneria. Era stato un amore turbinoso, e nonostante che la ragazza avesse qualche anno più di lui, l’unione fra i due sembrava ideale. La cosa era giunta quasi allo stadio del fidanzamento quando… Jimmy non sapeva dire che cosa fosse successo esattamente. Il ragazzo si era ammalato gravemente, o aveva avuto un esaurimento nervoso, fatto sta che non era più tornato a Cambridge.
«Mia madre non si riebbe mai completamente dalla delusione patita» riprese Jimmy con voce grave, quasi intuisse, pur senza conoscerlo, il dramma materno. «Ma un altro studente era innamoratissimo di lei, e così si sposarono. A volte provo una sincera compassione per mio padre, perché lui doveva essere al corrente della vicenda. Io l’ho sempre visto poco perché… che cos’avete, signor Gibson, non vi sentite bene?»
Gibson tentò di sorridere.
«Oh, niente… un piccolo attacco di nausea spaziale. Mi prende di tanto in tanto, ma passa subito.»
Ecco che il momento della collisione era giunto: vent’anni si erano dileguati come un sogno, e lui si ritrovava all’improvviso a faccia a faccia con i fantasmi, che credeva dimenticati, del proprio passato.
«Martin ha qualcosa» disse Bradley, firmando con un gran ghirigoro il registro delle segnalazioni. «Non può essere colpa di qualche notizia che ha ricevuto dalla Terra perché le ho lette tutte. Credi che soffra di nostalgia?»
«Ha lasciato il vecchio pianeta forse un po’ troppo avanti in età, se questa può essere una spiegazione» disse Norden. «Comunque arriveremo su Marte tra una quindicina di giorni.»
Un’occhiata di Bradley lo avvertì in tempo a non proseguire. Martin Gibson era entrato in quel momento, con un blocco per appunti in mano e l’aria di un cronista novellino al suo primo servizio.
«Allora, Owem, che cosa volevi farmi vedere?» domandò ansioso.
Bradley si avvicinò al quadro principale delle comunicazioni.
«Veramente non è una cosa straordinaria» disse, «però significa che abbiamo superato un’altra pietra miliare, e a pensarci mi fa sempre un certo effetto. Ascolta un po’.»
Girò la manopola del volume. La stanza fu inondata di fischi e di sibili, pareva il rumore di mille padelle sfrigolanti al momento di entrare in ebollizione. Era un rumore che Gibson aveva inteso infinite volte in quella cabina, e malgrado la sua invariabile monotonia era qualcosa che lo riempiva sempre di stupore e di meraviglia. Sapeva benissimo di stare ascoltando le voci delle stelle e delle nebulose, radiazioni che avevano iniziato il loro viaggio nell’infinito prima della nascita dell’Uomo. E nascosti nelle profondità di quel caos di scoppiettii e di sussurri potevano esserci, dovevano esserci, i suoni di civiltà lontanissime e ignote che parlavano tra loro attraverso gli oceani spaziali. Ma purtroppo le loro voci si perdevano senza possibilità di richiamo nel tumultuante sobbollimento d’interferenze cosmiche che la natura stessa aveva creato. Ma non era certo per ascoltare quei suoni che Bradley l’aveva fatto andare là. Con estrema delicatezza, la fronte aggrottata per la concentrazione, lo specialista eseguì alcune rilevazioni di frequenza col nonio.
«L’avevo captato un minuto fa… speriamo che non sia scomparso… ah, eccolo!»
A tutta prima Gibson non riuscì a distinguere alcun mutamento in quel bailamme di rumori. Poi notò che Bradley stava silenziosamente battendo il tempo con la mano, e piuttosto in fretta, al ritmo di due colpi al secondo.
Grazie a questa indicazione, Gibson sentì infine il fischio ondulato, infinitamente debole, che si faceva strada a fatica in mezzo alla tempesta cosmica.
«Che cos’è?» chiese, benché avesse già indovinato a metà.
«Il radiofaro di Deimos. Ce n’è uno anche su Phobos, ma non è così potente e non siamo in grado di captarlo. Quando saremo più vicini a Marte, riusciremo a fissarci nel raggio di poche centinaia di chilometri servendoci dell’uno e dell’altro. Per il momento siamo dieci volte più lontani dalla portata massima, però è sempre interessante sentire questi segnali.»
Sì, certo, era sempre interessante, pensò Gibson. Naturalmente quei radiosegnali non erano indispensabili quando era possibile vedere costantemente la propria destinazione, ma semplificavano in parte i problemi della navigazione spaziale.
«Credo che basti» disse Bradley, girando la manopola e restituendo alla stanza un gradevole silenzio. «Comunque dovrebbe darti qualche buono spunto per i tuoi scarabocchi… Ho l’impressione che da un po’ di tempo ti stia annoiando, no?»
Mentre parlava tenne gli occhi fissi su Gibson, ma questi si guardò bene dal rispondere. Si limitò ad annotare poche parole nel suo taccuino, ringraziò Bradley con fare distratto e gentilezza insolita e lasciò la cabina.
«Hai proprio ragione» disse Norden quando Gibson se ne fu andato. «Dev’essergli successo qualcosa. Voglio parlarne col dottore.»
Gibson era in quello stato da circa una settimana. La prima emozione nello scoprire che Jimmy Spencer era il figlio di Kathleen Morgan si era un poco affievolita, ma adesso cominciavano a farsi sentire gli effetti secondari di questa emozione, tra cui un senso quasi di rabbia al pensiero che una simile esperienza fosse toccata proprio a lui. Era una grave violazione alle leggi della probabilità… un caso che non si sarebbe mai verificato in un suo romanzo. Ma la vita è così poco artistica, e alla sua mancanza di stile non c’è assolutamente alcun rimedio da opporre.
Non gli serviva fingere con se stesso, dirsi che in realtà non era cambiato niente, pensare lo sapevo che Kathleen e Gerald avevano avuto un figlio. Cosa me n’importa ormai? Invece gliene importava, eccome. Ogni volta che vedeva Jimmy gli tornava alla mente il passato e peggio ancora il futuro che avrebbe potuto essere e che non era stato. Comunque, il problema più urgente per lui adesso stava nell’affrontare i fatti con decisione, dominando con energia quella nuova situazione.
Jimmy era andato nell’Emisfero Meridionale, e stava ritornando lungo il ponte equatoriale d’osservazione quando vide Gibson seduto a un finestrino. Per un attimo ebbe l’impressione che lo scrittore non l’avesse visto, e aveva già deciso di non distoglierlo dalle sue meditazioni quando si sentì chiamare.
«Ehi, Jimmy! Hai un momento da dedicarmi?»
Per la verità, Jimmy aveva parecchio da fare, ma si era accorto che da qualche giorno Gibson aveva qualcosa che non andava, perciò si sedette sullo sgabello incastrato sotto l’oblò d’osservazione, e presto seppe tutta quella parte di verità che Gibson ritenne opportuno comunicargli nell’interesse di entrambi.
«Desidero dirti una cosa che solo pochi sanno» cominciò Gibson. «Ti prego di non interrompermi e di non farmi domande, almeno finché non avrò finito… Quand’ero ancora molto giovane, più giovane di te, avrei voluto diventare ingegnere. Ero uno studente alquanto brillante, a quei tempi, e non ebbi difficoltà a superare gli esami di ammissione all’università. E poiché non ero ancora ben sicuro di quale carriera avrei scelto, mi iscrissi a ingegneria fisica, una materia allora pressoché nuova. Durante il primo anno me la cavai piuttosto bene, tanto che mi sentii incoraggiato a lavorare ancora più sodo. Superai anche il secondo anno, meno brillantemente ma sempre meglio della media. Il terzo anno m’innamorai. Non era la prima volta, ma compresi che quella era la volta buona.
«Innamorarsi durante gli anni d’università può essere un bene e anche un male. Dipende dalle circostanze. Se si tratta solo di un capriccio passeggero, in generale non influisce né in bene né in male. Ma se si tratta di una cosa seria ci sono due eventualità. L’amore può agire come incentivo, può spingerti a fare ancora meglio per dimostrare alla donna del tuo cuore che vali più degli altri tuoi compagni. Oppure, ti puoi impegnare sentimentalmente a un punto tale da farti sembrare degno d’interesse soltanto il tuo amore, e allora lo studio va a farsi benedire. È quello che purtroppo è successo nel mio caso.»
Gibson s’interruppe e rimase a lungo assorto, in silenzio. Seduto nell’oscurità, a pochi passi da lui, Jimmy gli diede un’occhiata furtiva. Si trovavano sul lato notturno della nave, e le luci del corridoio erano state attenuate perché le stelle si vedessero nel loro incomparabile splendore.
È proprio vero, si chiedeva Gibson, che nessuno riesce mai a dimenticare niente? Gli pareva adesso che fosse davvero così. Rivedeva ancora, distintamente come se fosse tornato indietro di vent’anni, l’annotazione sul quadro degli avvisi della facoltà: "Il Preside della Facoltà d’Ingegneria desidera vedere il signor Gibson nel suo studio alle 3 pomeridiane di oggi". Naturalmente aveva dovuto aspettare il solito quarto d’ora accademico.
Gibson aveva sempre stimato e rispettato il Preside, malgrado la sua aria distaccata e la sua pedanteria, e la delusione nel sentirsi buttato a mare era stata ancora più dura da sopportare. Il Preside si era sbarazzato di lui con la tecnica più del rammarico che della collera, che anche questa volta si era dimostrata assai efficace.
A peggiorare la situazione, per quanto si vergognasse di ammetterlo, c’era stato il fatto che Kathleen aveva invece superato gli esami brillantemente. Quando erano stati pubblicati i suoi risultati finali, Gibson l’aveva evitata per vari giorni, e quando si erano rivisti lui l’aveva già identificata con la ragione del suo insuccesso.
Il resto era stato inevitabile. Avevano avuto un litigio durante la loro ultima gita in bicicletta, ed erano rientrati per strade separate. Poi le lettere che non erano state aperte, e soprattutto quelle che non erano state scritte. Il loro sfortunato tentativo di ritrovarsi, non fosse che per dirsi addio, durante la sua ultima giornata a Cambridge. Il suo biglietto non aveva raggiunto Kathleen in tempo. Lui aveva atteso fino all’ultimo momento, ma la ragazza non era venuta. Il treno affollato, gremito di studenti vocianti, era uscito rumorosamente dalla stazione lasciandosi dietro Cambridge e Kathleen. Gibson non avrebbe più rivisto né l’università né la radazza.
Era inutile parlare a Jimmy dei mesi di nera disperazione che erano seguiti. Non c’era bisogno di fargli sapere il vero significato di quelle semplici parole: "Ho avuto un esaurimento nervoso e sono stato consigliato di non riprendere gli studi". Il dottor Evans l’aveva rappezzato con molta abilità, e di questo gli sarebbe stato eternamente grato. Era stato Evans a spronarlo a scrivere durante la convalescenza, con risultati che avevano sorpreso entrambi.
Evans gli aveva dato una personalità nuova e una vocazione grazie alla quale aveva riguadagnato la fiducia in se stesso. Ma non aveva potuto restituirgli l’avvenire che aveva perduto. Per tutto il resto della sua esistenza, Gibson avrebbe sempre invidiato gli uomini che erano riusciti a portare a termine quello che lui aveva soltanto iniziato, gli uomini che potevano aggiungere al proprio nome titoli e qualifiche che lui non avrebbe mai avuti, e che avrebbero trovato la loro ragione di vita in sfere di attività di cui lui sarebbe rimasto soltanto spettatore.
Se il guaio fosse stato tutto li, non avrebbe poi avuto grande importanza. Ma gettando la colpa su Kathleen per salvare il suo orgoglio, si era rovinato l’esistenza. Lei, e con lei tutte le altre donne, erano state identificate da lui con l’insuccesso e la vergogna. Tranne qualche relazione effimera, Gibson non si era più innamorato, e sapeva che ormai la sua vita sentimentale era conclusa. Ma conoscendo il motivo del suo male era stato perlomeno in grado di trovare il rimedio.
Quando ebbe finito, Gibson fu sorpreso di constatare con quanta nervosa impazienza attendesse la reazione di Jimmy.
Non poteva distinguere la faccia di Jimmy, perché il ragazzo era in ombra, e quando finalmente questi parlò gli parve che fosse trascorsa un’eternità.
«Perché mi avete detto tutto questo?» chiese con voce calma, assolutamente neutra, scevra sia di comprensione sia di rimprovero.
«Non lo so, ma ho sentito che dovevo farlo» rispose Gibson con calore. «Non avrei più avuto pace se non ti avessi parlato. E poi ho avuto la sensazione che forse questo avrebbe fatto del bene anche a te.»
Seguì un nuovo silenzio. Infine Jimmy si alzò lentamente.
«Bisognerà che ci pensi, a quanto mi avete detto» disse con l’identica voce di poco prima, completamente priva di qualsiasi emozione. «Per il momento non so che cosa rispondervi.»
E si dileguò lasciando Gibson in uno stato di estrema incertezza e confusione, a chiedersi se per caso non si fosse comportato come un imbecille rammollito.