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Dopo quell’avventura, che in seguito sarebbe stata definita il più fortunato incidente aviatorio nella storia dell’esplorazione marziana, la visita al Trivium Charontis nella zona di Porto Schiaparelli rappresentò fatalmente una delusione, tanto che, prevedendolo, Gibson avrebbe preferito annullarla e tornare subito a Porto Lowell con la sua scoperta. Avevano infatti rinunciato ai tentativi di liberarsi di Quiicc, e siccome alla colonia erano tutti impazienti di vedere finalmente un vero Marziano vivo, decisero di portare il cucciolo in aereo con loro.

Ma da Porto Lowell non permisero ai tre di tornare così presto. Passarono dieci giorni prima che venisse dato loro il permesso di rientrare nella capitale. Sotto le grandi cupole si stava intatti combattendo una battaglia decisiva per la conquista del pianeta. Una battaglia che Gibson seguì soltanto attraverso i comunicati radio, una battaglia silenziosa ma ugualmente micidiale, alla quale lui fu lieto di non essere stato testimone.

L’epidemia attesa dal dottor Scott era scoppiata. Quando fu al suo apice, un decimo della popolazione della colonia risultò colpita dalla febbre marziana.

Fortunatamente il siero portato dalla Terra riuscì a stroncare il male, e la lotta venne vinta con tre sole perdite. Quella fu anche l’ultima volta che la malattia colpì la colonia.


Il trasporto di Quiicc a Porto Schiaparelli comportò notevoli difficoltà perché si dovette imbarcare una gran quantità del suo cibo preferito. A tutta prima si dubitò che il marziano potesse sopravvivere nell’atmosfera ossigenata delle cupole, ma ci si rese conto che la cosa non lo disturbava affatto. L’aria diversa ebbe l’unico effetto di ridurre notevolmente il suo appetito. La spiegazione di questo fenomeno fu data molto più tardi. Invece non si scoprì mai la causa del suo attaccamento per Gibson. Qualcuno suggerì, alquanto malignamente, che era questione di affinità elettive, dipendenti dalla loro sagoma pressappoco uguale.

Prima di riprendere il viaggio, Gibson e i suoi compagni, insieme al pilota dell’aereo di salvataggio e agli uomini inviati in seguito per le riparazioni all’apparecchio danneggiato, fecero parecchie visite alla famiglia marziana.

Non trovarono altri gruppi, e Gibson si chiese se quelli non fossero per caso i soli esemplari rimasti sul pianeta. Come fu appurato in seguito, non era così.

L’aereo di salvataggio li aveva cercati seguendo la loro rotta subito dopo aver ricevuto un radiomessaggio da Phobos che annunciava l’avvistamento di segnalazioni luminose provenienti da Aetheria. Tutti erano rimasti con la curiosità di sapere come erano stati fatti quei segnali finché Gibson, con orgoglio comprensibile, ne aveva data la spiegazione.

Quando seppero che ci sarebbero volute solo poche ore per riparare i razzi del loro aereo, decisero di aspettare che le riparazioni fossero fatte anziché ripartire subito con un altro aereo, e impiegarono il tempo a studiare i Marziani nel loro habitat naturale. Fu allora che Gibson intuì il segreto della loro esistenza.

Probabilmente in un lontano passato erano stati respiratori di ossigeno, e i loro processi vitali dipendevano tuttora da questo elemento. Non potendo ottenerlo direttamente dal suolo, dove giaceva imprigionato a trilioni di tonnellate, lo assorbivano dalle piante. Gibson scoprì che i numerosi baccelli raggruppati sulle foglie a forma di alga marina contenevano ossigeno compresso. Grazie a un rallentamento del metabolismo, i Marziani erano riusciti ad adattarsi alle nuove condizioni ambientali, e adesso vivevano quasi in simbiosi con le piante che li rifornivano di cibo e aria. Era naturalmente un equilibrio assai precario, che una qualsiasi catastrofe naturale avrebbe potuto compromettere. Le condizioni su Marte avevano però da tempo raggiunto la stabilità, e tale equilibrio sarebbe quindi durato per millenni, a meno che non ci pensasse l’Uomo a capovolgerlo!

Le riparazioni risultarono più complicate del previsto, e perciò raggiunsero Porto Schiaparelli soltanto tre giorni dopo aver lasciato Porto Lowell. La seconda città marziana aveva meno di mille abitanti, i quali vivevano sotto due cupole costruite su uno stretto pianoro. Lì era avvenuto il primo atterraggio su Marte. La posizione della città era quindi dovuta a un evento storico che avrebbe dovuto farne la capitale. Ma dopo qualche anno, acquistata una maggiore conoscenza delle risorse del pianeta, era stato deciso di spostare a Porto Lowell il centro attorno a cui gravitava la vita della colonia, e Porto Schiaparelli non era stata ingrandita.

La città era, sotto molti aspetti, una riproduzione della sua maggiore e più moderna rivale. I principali settori di attività erano la fabbricazione di macchine leggere, le ricerche geologiche, o per meglio dire aerologiche, e l’esplorazione delle regioni circostanti. Il fatto che Gibson e i suoi amici avessero fatto, per puro caso, la più grande scoperta realizzata sino a quel momento su Marte, e a meno di un’ora di volo dalla loro città, fu causa di una certa amarezza per gli abitanti di Porto Schiaparelli.

La visita dei tre ospiti produsse un effetto paralizzante sull’attività normale della cittadina, perché dovunque Gibson andasse, il lavoro veniva interrotto e tutti si affollavano intorno a Quiicc. Il divertimento preferito consisteva nell’attirare il Marziano in un campo di illuminazione uniforme per vederlo diventare tutto nero, mentre lui, tutto soddisfatto, cercava di trarre il massimo profitto da quella condizione ottimale. Fu appunto a Porto Schiaparelli che qualcuno ebbe la pessima trovata di proiettare su Quiicc alcune immagini, fotografandone il risultato prima che sbiadissero, e un bel giorno Gibson si irritò parecchio nel vedere una fotografia in cui il suo cucciolo portava sul dorso una feroce e riconoscibilissima caricatura di una nota stella della televisione.

Nel complesso il loro soggiorno a Porto Schiaparelli non fu dei più felici. In tre giorni videro tutto quello che c’era da vedere, e le poche gite che riuscirono a fare nei dintorni furono di scarso interesse. Jimmy pensava continuamente a Irene e spendeva un sacco di solcii per lunghe telefonate a Porto Lowell. Gibson era impaziente di tornare nella grande città che sino a pochi giorni prima aveva considerato un villaggio. Soltanto Hilton, che evidentemente possedeva riserve illimitate di pazienza, si godeva la vita in santa pace e si riposava mentre gli altri si agitavano intorno a lui.

Durante il loro soggiorno a Porto Schiaparelli ci fu un solo fatto degno di nota. Gibson si era chiesto spesso con una certa apprensione che cosa sarebbe successo se la cupola pressurizzata avesse ceduto. Ebbe la pronta risposta un pomeriggio mentre stava intervistando l’ingegnere capo nel suo ufficio. Con lui c’era Quiicc, che se ne stava appollaiato sulle larghe gambe posteriori, simile a una buffa bambola meccanica.

A mano a mano che l’intervista procedeva, Gibson si rendeva conto che la sua vittima dava segni di inquietudine superiori al normale. Evidentemente aveva il pensiero rivolto altrove. Sembrava quasi che stesse aspettando che succedesse qualcosa. A un tratto, senza preavviso, tutto il fabbricato prese a vibrare, come sotto una scossa di terremoto. A intervalli uguali, ci furono altre due scosse in rapida successione. Da un altoparlante inserito nella parete, una voce annunciò in tono imperioso: «Sgonfiamento! Questa è una normale esercitazione. Avete dieci secondi di tempo per raggiungere il ricovero. Sgonfiamento! Questa è una normale esercitazione!»

Gibson scattò in piedi, ma subito si rese conto che non poteva fare assolutamente nulla. Da lontano giunse un gran rumore di porte sbattute… poi silenzio. L’ingegnere si alzò, andò alla finestra e si sporse a guardare nell’unica grande strada della città.

«A quanto pare, tutti si sono messi al sicuro» disse. «Naturalmente non è possibile compiere queste prove del tutto di sorpresa. Ne facciamo una al mese, e dobbiamo avvertire la popolazione del giorno esatto, perché non creda che si tratti di un vero incidente.»

«Ma che cosa bisogna fare con esattezza?» chiese Gibson al quale le spiegazioni in proposito, per quanto gli fossero state ripetute almeno un paio di volte, non erano ancora entrate bene in testa.

«Non appena viene dato il segnale, cioè quelle tre scosse che avete sentito, bisogna correre al rifugio. Se vi trovate in casa dovete prendere subito la maschera e precipitarvi ad aiutare chi non ce la fa. Capite, se la pressione cede, ogni casa diventa un’unità a sé, dove la respirazione resta possibile per diverse ore.»

«E quelli che si trovano all’aperto?»

«Hanno pochissimi secondi per raggiungere un rifugio qualsiasi. Dovrebbero però essere sufficienti, perché ogni edificio ha un suo compartimento stagno e può offrire quindi rifugio a chiunque si trovi per strada. Anche se poi doveste accasciarvi all’aperto, senza maschera, verreste senz’altro salvato nello spazio di due minuti… a meno che il vostro cuore funzioni male. Ma di gente col mal di cuore qui su Marte non ne viene.»

«Bene, mi auguro che non succeda mai sul serio un fatto del genere.»

«Ce lo auguriamo tutti. Ma su Marte bisogna essere preparati a tutto. Bene, ecco il cessato allarme.»

L’altoparlante si era rimesso a gracidare.

«L’esercitazione è terminata. Tutti coloro che non hanno fatto in tempo a raggiungere il rifugio entro il limite prescritto si mettano a rapporto come al solito presso l’Amministrativo. Fine della trasmissione.»

«Credete che ci andranno?» disse Gibson. «Io direi che se ne staranno zitti.»

L’ingegnere rise.

«Dipende. È probabile che si comportino come dite voi se la colpa è stata loro. Ma è il modo migliore per mettere in luce i punti deboli dei nostri mezzi di difesa. Qualcuno può venire a dire: "Guardate, io stavo pulendo un forno di fusione quando è stato dato l’allarme. Mi ci sono voluti due minuti solo per uscire. Che cosa devo fare se lo sgonfiamento si verificasse per davvero?". E noi dovremo studiare il problema e trovare la soluzione.»

Gibson guardò con invidia Quiicc che sembrava addormentato, per quanto le sue grandi orecchie trasparenti di tanto in tanto tremassero facendo pensare che avesse un certo interesse per la conversazione.

«Sarebbe bello essere come lui e non doverci preoccupare della pressione dell’aria e di altre cose del genere. Allora sì che da Marte si potrebbe cavare veramente qualcosa di buono!»

«Chi lo sa» disse pensosamente l’ingegnere. «Che cosa hanno saputo fare questi Marziani se non sopravvivere? È sempre fatale adattarsi all’ambiente sfavorevole che ci circonda. Bisogna invece cercare di trasformare l’ambiente forzandolo ad adattarsi a noi.»

Queste parole erano quasi un’eco delle dichiarazioni fatte da Hadfield a Gibson il giorno del loro primo incontro. Il giornalista se ne sarebbe ricordato spesso negli anni futuri.


Il ritorno a Porto Lovvell fu trionfale. La capitale viveva un periodo di particolare euforia dopo la vittoria sulla febbre marziana, e aspettava con impazienza Gibson e la sua sensazionale scoperta. Gli scienziati avevano preparato a Quiicc un ricevimento in piena regola, e gli zoologi in particolare erano impegnatissimi a smentire con nuove affermazioni le loro affermazioni precedenti sui motivi dell’assenza di ogni forma di vita animale su Marte.

Gibson si era rassegnato ad affidare il cucciolo agli scienziati solo dopo averne ottenuto solide garanzie che non stessero pensando, nemmeno lontanamente, alla vivisezione. Poi, in un fermento di idee, era corso dal Presidente.

Hadfield l’accolse con calore, e Gibson si accorse con soddisfazione che l’atteggiamento del Presidente nei suoi confronti era mutato radicalmente. In principio era stato… ecco, se non proprio distaccato perlomeno riservato, e non aveva cercato di nascondergli che considerava la sua presenza su Marte una specie di seccatura, un nuovo peso da aggiungere ai tanti che già lo gravavano. Ma questa iniziale posizione difensiva si era lentamente trasformata, e ora appariva chiaro che il Presidente non lo considerava più come una calamità, anche se non delle peggiori.

«Avete aggiunto alcuni cittadini interessanti al mio piccolo impero» disse Hadfield con un sorriso. «Ho visto proprio adesso il vostro simpatico cucciolo. Ha già morsicato il capo dell’équipe medica.»

«Spero che lo cureranno bene» disse Gibson in tono ansioso.

«Chi? Il medico?»

«Ma no! Quiicc, naturalmente. Sapete una cosa? Vorrei proprio sapere se esistono altre forme di vita animale che ancora non abbiamo scoperto, magari più intelligenti.»

«In altre parole, se i veri Marziani sono questi o altri.»

«Esatto.»

«Forse ci vorranno anni prima di poterlo dire con certezza, ma secondo me non ce ne sono altri. Le condizioni che hanno reso possibile la sopravvivenza di questi esseri non esistono in molte zone del pianeta.»

«È appunto di questo che volevo parlarvi.» Così dicendo Gibson si frugò in tasca e ne tolse una foglia di alga marina. La punse, e subito s’intese un debole sibilo di gas in fuga.

«Se questi vegetali venissero coltivati in maniera adatta, potrebbero risolvere il problema dell’aerazione, permettendo di eliminare gli impianti attuali tanto complicati. Con sabbia sufficiente per alimentarle, potrebbero fornirvi tutto l’ossigeno di cui avete bisogno.»

«Continuate pure» disse Hadfield.

«Naturalmente bisognerebbe procedere prima a una coltura selezionata per ottenere la varietà più ricca di ossigeno» continuò Gibson.

«Si capisce» disse Hadfield.

Gibson guardò il suo interlocutore con improvviso sospetto, perché si era reso conto che nel suo atteggiamento c’era qualcosa di strano. La faccia austera di Hadfield era atteggiata a un curioso sorriso.

«Voi non mi prendete sul serio!» protestò, mortificato.

«Al contrario» disse Hadfield. «Vi sto ascoltando con più interesse di quanto immaginiate.» Giocherellò per un attimo con un fermacarte, poi parve prendere una decisione improvvisa. Si chinò sull’intercom e premette un pulsante.

«Procuratemi una pulce del deserto con guidatore» disse. «Li voglio alla galleria Uno Ovest tra mezz’ora.» Quindi si rivolse a Gibson. «Potete essere pronto fra trenta minuti?»

«Ma… certo, naturalmente. Devo solo passare dall’albergo a prendere la maschera.»

«Bene. Allora ci rivediamo tra mezz’ora.»

Gibson arrivò all’appuntamento con dieci minuti di anticipo e la mente in tumulto. L’Organizzazione dei Trasporti era riuscita a procurare un veicolo in tempo, e il Presidente fu puntuale come sempre. Diede al conducente alcune istruzioni che Gibson non riuscì ad afferrare, e la pulce uscì dalla cupola e imboccò la strada che correva tutt’attorno.

«Sto per fare una cosa alquanto avventata, Gibson» disse Hadfield mentre il paesaggio verde sfilava rapido ai lati del veicolo. «Siete disposto a darmi la vostra parola d’onore che non direte niente di quanto sto per rivelarvi finché non ve ne darò l’autorizzazione?»

«Certo» rispose Gibson sorpreso.

«Mi fido di voi perché ho la sensazione che siate dei nostri, e perché non vi siete rivelato quella seccatura che temevo.»

«Grazie» disse Gibson, colpito dalla sincerità del Presidente.

«E anche per la scoperta preziosa che ci avete regalato. Per tutto questo ritengo che vi dobbiamo qualcosa in cambio.»

La pulce aveva puntato verso sud seguendo la pista che portava alle colline. E finalmente Gibson capì dove erano diretti.


«Ti sei preoccupata quando hai saputo che eravamo dati per dispersi?» domandò Jimmy in tono ansioso.

«Molto» rispose Irene. «Non riuscivo nemmeno a dormire, tanto ero angosciata.»

«Adesso però che la nostra avventura si è risolta felicemente, non trovi che ne sia valsa la pena?»

«Può darsi, però continuo a pensare che tra un mese te ne andrai di nuovo. Oh, Jimmy, che cosa faremo allora?»

Una profonda disperazione si impadronì dei due ragazzi, e la momentanea gioia di Jimmy si trasformò in sconforto. Era inutile cercare di ignorare la realtà: fra meno di quattro settimane l’Ares avrebbe lasciato Deimos, e sarebbero passati forse anni prima che Jimmy potesse tornare su Marte. Una prospettiva crudele per essere espressa a parole.

«Anche ammesso che me lo permettessero non potrei restare qui» disse Jimmy. «Non posso guadagnarmi da vivere senza una specializzazione, e avrò altri due anni di studio dopo la laurea, per non parlare del viaggio a Venere! Però si può tentare una cosai»

Gli occhi d’Irene s’illuminarono, ma subito la sua faccia tornò triste.

«Ne abbiamo già parlato, ma sono sicura che mio padre non acconsentirà.»

«Si può tentare. Dirò a Martin di parlargliene lui.»

«Chi? Il signor Gibson? Credi che lo farà?»

«Ne sono sicuro. Vedrai che saprà essere molto convincente.»

«Non vedo perché si dovrebbe interessare di noi.»

«Perché mi vuol bene» disse Jimmy con disinvoltura. «Sono sicuro che sarà d’accordo. Non è giusto che tu resti qui a vegetare su Marte senza aver mai conosciuto niente della Terra. Parigi… New York… Londra… Non si è vissuto veramente se non si conoscono queste città. Lo sai che cosa penso?»

«Dimmi.»

«Che tuo padre è molto egoista a tenerti qui.»

Irene parve contrariata. Era molto affezionata al padre e il suo primo impulso fu quello di difenderlo, ma ormai era divisa tra due affetti, e non c’era dubbio su quale dei due avrebbe vinto.

«Certo» aggiunse Jimmy accorgendosi di aver esagerato, «sono convinto che lui voglia il tuo bene, ma ha tante cose a cui badare. Forse ormai ha dimenticato com’è fatta la Terra, e non si rende conto di quello che tu stai perdendo. No, bisogna che tu te ne venga via di qui prima che sia troppo tardi.»

Irene sembrava indecisa. Alla fine le venne in soccorso il suo senso umoristico, assai più acuto di quello di Jimmy.

«Sono certa che se fossimo sulla Terra, e tu dovessi tornare su Marte, saresti capace di dimostrarmi con argomenti altrettanto convincenti che dovrei seguirti quassù!»

A tutta prima Jimmy si mostrò offeso, ma poi capì che Irene non si prendeva seriamente gioco di lui.

«Va bene» disse. «Questa faccenda è sistemata. Non appena vedrò Martin gliene parlerò e gli chiederò di convincere tuo padre. Per il momento non pensiamoci.»


Il piccolo anfiteatro tra le colline intorno a Porto Lowell era esattamente come Gibson lo ricordava, solo che il verde della lucida vegetazione era un po’ sbiadito come per effetto delle prime avvisaglie dell’autunno in realtà ancora lontano. La pulce si fermò davanti alla più grande delle quattro cupole e i due uomini si avviarono verso il compartimento stagno.

«Quando sono stato qui l’altra volta» disse Gibson, «mi è stato detto che avremmo dovuto disinfettarci prima di poter entrare.»

«Una piccola esagerazione per scoraggiare gli ospiti indesiderati» spiegò Hadfield, senza imbarazzo.

A un suo segnale, la porta esterna si aprì e subito i due si liberarono dei respiratori. «Al principio prendevamo queste precauzioni, ma adesso non sono più necessarie.»

Anche la seconda porta e la terza si aprirono lasciandoli passare nell’interno della cupola. Un uomo in camice bianco, il classico camice tutt’altro che immacolato, da sperimentatore, li stava aspettando.

«Salve, Baines» disse Hadfield. «Gibson, questo è il professor Baines. Probabilmente vi conoscete già di fama.»

I due uomini si strinsero la mano. Gibson sapeva che Baines era uno dei massimi esperti mondiali in fatto di genetica delle piante. Aveva letto su qualche giornale che da un paio d’anni si trovava su Marte per studiarne la flora.

«Dunque voi siete il terrestre che ha appena scoperto l’oxyfera» disse Baines con aria sognante. Era di corporatura massiccia, con la faccia cotta dalle intemperie, e un’aria distratta che contrastava bizzarramente con i lineamenti decisi e l’aspetto solido.

«È così che la chiamate?» disse Gibson. «Be’, credevo di averla scoperta io, ma comincio a dubitarne.»

«Voi comunque avete fatto una scoperta forse più importante» si affrettò a dire Hadfield. «Baines però non si interessa di animali, perciò è inutile parlargli dei vostri amici marziani.»

Intanto si erano avviati tra basse pareti grezze che dividevano la cupola in stanze e corridoi. Tutto aveva l’aria di essere stato costruito in gran fretta. Passarono accanto a complesse apparecchiature scientifiche posate su casse d’imballaggio. Ovunque si respirava un’aria di febbrile improvvisazione, ma, fatto strano, c’era pochissima gente al lavoro. Gibson ebbe la sensazione che, di qualunque cosa si fosse trattato, il lavoro svolto sotto quella cupola fosse ormai concluso, e che di tutto il personale non fossero rimasti che gli elementi indispensabili.

Baines li accompagnò al compartimento stagno che portava a un’altra cupola, e mentre aspettavano che l’ultima porta si aprisse, disse con la sua voce pacata: «Può darsi che adesso gli occhi vi facciano un po’ male.» Dopo queste parole, Gibson alzò una mano a fare da schermo.

La prima impressione che ricevette fu di luce accecante e di calore insopportabile. Fu come se, con un solo passo, fosse andato dal Polo ai Tropici. Dall’alto, potenti fari inondavano di luce la stanza semisferica. L’atmosfera era pesante, opprimente, e non a causa soltanto del caldo. Gibson si chiese che razza di aria stesse respirando.

La cupola non era suddivisa in locali ma era tutta un grande spazio circolare occupato da aiuole ordinate nelle quali crescevano tutte le piante marziane che Gibson aveva visto sino a quel momento, e parecchie altre. Circa un quarto della superficie del locale era ricoperto di alte foglie brune che Gibson riconobbe immediatamente.

«Dunque le conoscevate già?» disse, né sorpreso né particolarmente deluso. (Hadfield aveva ragione: i Marziani erano assai più importanti.)

«Sì» disse Hadfield. «Furono scoperte circa due anni fa e crescono abbondanti lungo la fascia equatoriale. Si sviluppano soltanto dove c’è molto sole, e la piccola foresta di Porto Schiaparelli è la più settentrionale che sia stata scoperta sinora.»

«Ci vuole parecchia energia per estrarre ossigeno dalla sabbia» spiegò Baines. «Noi le abbiamo aiutate con tutte queste luci, e abbiamo tentato alcuni esperimenti. Venite un po’ a vedere i risultati.»

Gibson si avvicinò all’aiuola stando bene attento a mantenere i piedi sul sentiero. Quelle piante non erano esattamente uguali a quelle scoperte da lui, per quanto fosse evidente che discendevano dal medesimo ceppo. La diversità più appariscente era data dalla scomparsa dei baccelli pieni di gas, sostituiti da miriadi di pori minutissimi.

«Questo è il punto più importante» spiegò Hadfield. «Siamo riusciti a ottenere una varietà di piante che libera l’ossigeno direttamente nell’aria dato che non ha più necessità di immagazzinarlo. Sino a quando ci saranno luce e calore sufficienti, la pianta riuscirà a estrarre tutto il suo fabbisogno di ossigeno dalla sabbia ed espellerà quindi il superfluo. Tutto l’ossigeno che state respirando in questo momento proviene da queste piante: non ne esiste altra fonte, sotto questa cupola.»

«Capisco» disse Gibson. «Avevate già avuto la mia idea, non solo ma siete anche andati parecchio avanti. Però non riesco ancora a capire il perché di tanto mistero.»

«Quale mistero?» disse Hadfield in tono d’innocenza offesa.

«Ma se mi avete appena chiesto di non dire niente» protestò Gibson.

«Ve l’ho chiesto soltanto perché tra pochi giorni verrà fatta una dichiarazione ufficiale, e non volevamo che se ne parlasse in maniera vaga e imprecisa. Ma in realtà non c’è nessun mistero.»

Gibson seguitò a rimuginare queste parole durante il ritorno a Porto Lowell. Hadfield gli aveva detto parecchio, ma gli aveva detto tutto? E se… se anche Phobos avesse fatto parte del quadro? Gibson si chiese se i suoi sospetti sulla luna interna fossero per caso infondati. Poteva anche darsi che Phobos non aves se alcun rapporto con quel progetto particolare. Gli venne la tentazione di mettere in imbarazzo Hadfield con una domanda diretta, ma poi rinunciò. Probabilmente se avesse tentato quel trucco, avrebbe fatto una pessima figura.

Le cupole di Porto Lowell comparivano già al limite dell’orizzonte bizzarramente convesso, quando Gibson affrontò l’argomento che lo tormentava da quindici giorni.

«L’Ares torna sulla Terra fra tre settimane, vero?» disse. Hadfield si limitò ad annuire con un cenno della testa. La domanda era del tutto retorica perché Gibson sapeva la risposta meglio di chiunque altro.

«Stavo pensando» riprese Gibson lentamente, «che mi piacerebbe trattenermi ancora un po’ su Marte. Magari fino all’anno venturo.»

«Oh!» fece Hadfield. L’esclamazione non rivelò né compiacimento né disapprovazione, e Gibson provò una certa delusione per la freddezza con cui era stato accolto il suo annuncio. «E il vostro lavoro?» chiese il Presidente, dopo una breve pausa.

«Il mio è un lavoro che si può fare indifferentemente tanto qui quanto sulla Terra.»

«Vi renderete conto» disse Hadfield «che se avete intenzione di restare dovrete trovarvi un’occupazione utile.» Sorrise un po’ a disagio. «Temo di essere stato proprio brutale. Intendevo dire che dovrete fare qualcosa per aiutare a tirare avanti la colonia. Avete qualche progetto particolare in questo senso?»

Le ultime parole furono un po’ più incoraggianti: per lo meno significava che Hadfield non respingeva categoricamente la sua richiesta. C’era però un dettaglio che Gibson, nel suo entusiasmo, aveva trascurato.

«Veramente io non pensavo di stabilirmi qui definitivamente» disse, un po’ confuso. «Io… ecco, desidero passare un certo tempo nello studio dei Marziani, e mi piacerebbe riuscire a scoprirne altri. Inoltre mi dispiace abbandonare Marte proprio nel momento in cui le cose quassù si stanno facendo interessanti.»

«Come sarebbe a dire?» chiese Hadfield.

«Ecco… tutte queste piante all’ossigeno, tanto per fare un esempio, e la messa in opera della Cupola Sette. Sono curioso di vedere quello che succederà nei prossimi mesi.»

Hadfield lo guardò pensoso. Era meno sorpreso di quanto Gibson si sarebbe immaginato. Aveva assistito altre volte ad analoghi mutamenti di posizione. Anzi, si era chiesto spesso se anche Gibson avrebbe subito quella trasformazione, e adesso non era affatto dispiaciuto della piega che avevano preso gli avvenimenti.

La spiegazione era in realtà molto semplice. Gibson si sentiva ora molto più felice di quanto non lo fosse mai stato sulla Terra, perché aveva fatto qualcosa di utile, di necessario per la comunità marziana. L’identificazione era ormai quasi completa, e il fatto che Marte avesse già compiuto un attentato contro la sua vita era servito soltanto a rafforzare la sua decisione di restare. Se fosse tornato sulla Terra non gli sarebbe sembrato di rientrare in patria, ma di andare verso un luogo d’esilio.

«L’entusiasmo non basta» disse Hadfield.

«Questo lo capisco bene.»

«Il nostro piccolo mondo è basato su due fattori essenziali: le capacità specifiche e il lavoro vero e proprio. Senza questi due elementi dovremmo far fagotto e tornare sulla Terra.»

«Io non ho paura di lavorare, e sono sicuro che potrei impratichirmi presto di qualcuno dei numerosi lavori amministrativi che svolgete qui, e delle nozioni tecniche necessarie.»

Hadfield pensò che questo probabilmente era vero. La capacità di sbrigare incombenze del genere era solo questione di intelligenza, e d’intelligenza Gibson ne aveva da vendere. Ma l’intelligenza da sola non bastava su Marte. Ci volevano anche diverse altre qualità personali. Non conveniva creare in Gibson false speranze finché non fosse stato possibile vagliare più a fondo il problema discutendone anche con Whittaker.

«Vi dirò io come dovete fare» disse Hadfield. «Intanto fate una richiesta di soggiorno provvisorio, che io segnalerò alla Terra. La risposta la riceveremo tra una settimana circa. Naturalmente se vi risponderanno di no, noi non potremo fare niente.»

Di questo Gibson dubitava, poiché sapeva benissimo quanto poco Hadfield badasse ai regolamenti terrestri se questi intralciavano i suoi piani. Ma si limitò a chiedere: «E se la Terra acconsente, allora la decisione spetta a voi?»

«Sì. E da quel momento comincerò a riflettere sulla risposta da darvi.»

Più soddisfacente di quanto aveva sperato, pensò Gibson. Ora che aveva tratto il dado si sentiva molto più sollevato: aveva la sensazione di essere ormai scaricato di qualsiasi responsabilità. Adesso doveva semplicemente abbandonarsi alla corrente, e aspettare gli eventi.

La porta del compartimento stagno si aprì davanti a loro e la pulce entrò cigolando in città.

Anche se la sua decisione si fosse rivelata un errore, non sarebbe stato poi un gran danno. Poteva sempre tornare sulla Terra con la prima astronave in partenza… o con la successiva…

Ma non c’era dubbio che Marte l’aveva trasformato. Indovinava già quello che molti suoi amici avrebbero detto appena saputa la notizia: "Avete sentito di Martin? A quanto pare Marte ne ha fatto un uomo. Chi l’avrebbe mai detto?".

Si rigirò a disagio sul sedile. Non aveva nessuna intenzione di posare a modello di perfezione per nessuno. Anche nei suoi momenti più sdolcinati era sempre rifuggito dal servirsi di quelle comode parabole vittoriane in cui si parla di uomini pigri ed egocentrici che si trasformano a un tratto in campioni di virtù e in esseri utilissimi, anzi indispensabili alla società. Ma aveva una paura tremenda che qualcosa di molto simile stesse succedendo a lui!

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