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Il medesimo spettacolo di stelle empiva tuttora il finestrino quando una serie di note squillanti che uscivano da un telefono interno risvegliò Gibson da un sonno senza sogni. Si vestì in fretta e corse sul ponte di osservazione, chiedendosi con curiosità che cosa fosse successo della Terra durante la notte.

Per un abitante del globo terrestre era davvero uno spettacolo sconcertante vedere nel cielo due lune contemporaneamente. Eppure erano là, l’una accanto all’altra, entrambe al loro primo quarto, e la prima grossa quasi il doppio della seconda. Trascorsero parecchi secondi prima che Gibson si rendesse conto di avere di fronte Luna e Terra insieme, e parecchi altri secondi ancora prima di comprendere finalmente che la falce più piccola e più lontana era il suo mondo.

Purtroppo l’Ares non passava molto vicino alla Luna, ma questa appariva ugualmente almeno dieci volte più grande di quanto Gibson l’avesse mai vista stando sulla Terra. Le catene intersecantisi di crateri erano chiaramente visibili lungo la linea dentellata che separava il giorno dalla notte, e il disco ancora opaco era visibile grazie alla luce terrestre che vi si rifletteva sopra.

Ma come mai…

Gibson si chinò bruscamente in avanti chiedendosi se i suoi occhi non stessero giocandogli un brutto scherzo. Eppure, nessun dubbio: laggiù, su quella superficie fredda e appena visibile, in attesa dell’alba che sarebbe giunta solo tra molti giorni, tenuissime faville di luce bruciavano come lucciole nelle tenebre. Cinquant’anni prima quelle luci non esistevano: erano le luci delle prime città lunari, e dicevano alle stelle che dopo un miliardo di anni la vita era giunta finalmente alla Luna.

Da un punto imprecisato venne un tossicchiare discreto che interruppe le fantasticherie di Gibson. Quindi una voce amplificata dal megafono disse in tono pacato:

«Se il signor Gibson vuole avere la bontà di scendere nel quadrato ufficiali troverà sulla tavola una tazza di caffè ancora tiepido e una fetta di porridge.»

Diede una rapida occhiata all’orologio. Aveva completamente dimenticato la colazione… fenomeno senza precedenti. Certo qualcuno doveva essere andato a cercarlo in cabina e non avendovelo trovato stava tentando di rintracciarlo attraverso il sistema di altoparlanti.

Quando riuscì infine a infilarsi come Dio volle nel quadrato ufficiali, trovò l’equipaggio impegnato in una discussione tecnica sui meriti dei vari tipi di navi interplanetarie. Ascoltò con attenzione mentre mangiava svogliatamente.

In quel momento stava parlando il dottor Scott. Scott gli parve uno di quei tipi sgradevoli che intendono imporre il proprio punto di vista su qualsiasi argomento. Il suo avversario più congeniale era Bradley, lo specialista in elettronica e in scienza delle comunicazioni, un personaggio cinico, asciutto, che sembrava prendere un piacere enorme a sabotare verbalmente il prossimo. Il piccolo matematico scozzese Mackay entrava ogni tanto nella battaglia esprimendosi con frasi brevi e precise, quasi pedanti.

Il capitano Norden, apparentemente, si comportava come un arbitro non del tutto disinteressato, sostenendo ora l’uno ora l’altro nel tentativo d’impedire una vittoria decisiva. Il giovane Spencer era già al lavoro, mentre Hilton, il solo membro dell’equipaggio che, Gibson non avesse ancora notato, non prendeva parte alla discussione. L’ingegnere se ne stava tranquillamente seduto a osservare gli altri con interesse distaccato. La sua faccia sembrò stranamente familiare a Gibson. Dove l’aveva già incontrato? Ma certo! Che imbecille a non capirlo subito! Quello era il famoso Hilton. Lo scrittore si girò sulla sedia per guardarlo meglio. Aveva completamente dimenticato la colazione consumata a metà, e guardava con rispetto misto a invidia l’uomo che aveva riportato l’Arcturus su Marte dopo la più grande avventura nella storia del volo spaziale.

Soltanto sei uomini erano arrivati fino a Saturno, e soltanto tre di loro erano ancora vivi. Hilton aveva sostato con i suoi compagni perduti su quei pianeti lontani, i cui stessi nomi sapevano di magia: Titano, Enceladus, Teti, Rea, Dione… Aveva visto lo splendore incomparabile dei grandi anelli che cerchiano simmetricamente il cielo e sembrano troppo perfetti per essere opera della natura. Era stato in quell’Ultima Thule in cui roteano i freddi giganti esiliati della dispersa famiglia solare, ed era tornato alla luce e al calore dei mondi interni.

Il gruppo si stava sciogliendo e i vari ufficiali se ne andavano volteggiando verso i loro posti, ma i pensieri di Gibson ruotavano ancora intorno a Saturno quando il capitano Norden gli si avvicinò interrompendo le sue fantasie.

«Non so che programma vi siete fatto» disse «ma credo che vi farà piacere dare un’occhiata alla nostra nave. Dopotutto, nei vostri romanzi fate spesso ricorso alla descrizione particolareggiata.»

Durante le due ore che seguirono, svolazzarono per il labirinto di corridoi che intersecavano in ogni senso come arterie il corpo sferico dell’Ares.

Poiché la forma della nave era sferica, la sua superficie, come quella della Terra, era stata suddivisa secondo meridiani e paralleli, cosicché esistevano utili punti di riferimento geografici per muoversi al suo interno. Andare verso nord significava dirigersi alla cabina di comando e al reparto equipaggio. Un viaggio all’Equatore indicava una visita o alla grande sala da pranzo che occupava quasi tutto il piano centrale dell’astronave, oppure al ponte d’osservazione che correva tutto attorno alla nave. L’emisfero meridionale era riservato quasi esclusivamente al serbatoio del carburante, oltre che ai ripostigli per l’immagazzinaggio di macchinario vario. Adesso che aveva cessato di servirsi dei suoi motori, l’Ares era stata fatta girare nello spazio in modo che l’emisfero settentrionale si trovasse in perpetua luce, e quello meridionale, disabitato, in perpetua oscurità. Esattamente al Polo Sud c’era un boccaporto di metallo che recava una serie di sigilli ufficiali e il seguente cartello: Da aprirsi soltanto per ordine espresso del capitano o del suo facente funzioni. Dietro quel boccaporto si stendeva il lungo e stretto tubo che collegava il corpo centrale della nave con la sfera più piccola, lontana un centinaio di metri, contenente l’impianto di energia e i complessi di propulsione. Gibson si chiese che funzione avesse quel portello se nessuno poteva mai servirsene, ma poi si disse che doveva pur esserci qualche mezzo per permettere agli automi addetti alla manutenzione e dipendenti dalla commissione per l’energia atomica di raggiungere il loro posto di lavoro.

Fatto abbastanza curioso, Gibson fu impressionato non tanto dalle meraviglie tecniche e scientifiche dell’astronove, che d’altronde aveva più o meno previste, quanto dagli alloggiamenti vuoti della sezione passeggeri, una specie di alveare di cabine, vicinissime le une alle altre, che occupavano quasi tutta la zona temperata settentrionale.

Quando rientrò finalmente nella propria cabina, Gibson era esausto sia fisicamente sia mentalmente. Norden era stato una guida anche troppo pignola.

Era disteso nella cuccetta, intento ad analizzare le proprie impressioni, quando sentì bussare discretamente alla porta.

«Chi è?»

«Jim… Jim Spencer, signor Gibson. C’è un radiogramma per voi.»

Il messaggio era breve e conteneva una sola parola superflua, la penultima:

"New Yorker, Revue des Quatre Mondes, Life Interplanetary vogliono pezzo venticinquemila battute ciascuna. Prego telegrafare domenica prossima. Affettuosità. Ruth."

Gibson sospirò Aveva lasciato la Terra talmente in fretta che non aveva neppure avuto il tempo per consultarsi con la sua agente, Ruth Goldstein, eccettuata un’affrettata conversazione telefonica da un capo all’altro del globo. Però si era espresso chiaramente: per quindici giorni almeno voleva essere lasciato in pace.

Afferrò il taccuino a fogli staccabili e mentre Jimmy teneva ostentatamente gli occhi fissi altrove, scribacchiò in fretta: "Spiacente. Diritti esclusivi già promessi custode porci et intenditore pollame Sud Alabama. D’ora in poi invierò notizie quando accomodami. Quando deciderai avvelenare Harry? Affettuosità. Mart".

Harry era la metà letteraria e antiaffarista della Goldstein e C., ed era felicemente sposato con Ruth da oltre vent’anni. Da circa quindici, Gibson non smetteva un istante di ricordare a entrambi che stavano affondando in un pantano dal quale era sempre più difficile uscire.

Jimmy Spencer scomparve con l’insolito messaggio, lasciando Gibson con i suoi pensieri. Certo si sarebbe messo presto al lavoro, ma intanto aveva seppellito la sua macchina da scrivere sotto il resto del bagaglio.

Le sue vacanze durarono una settimana intera, in capo alla quale la Terra era divenuta un semplice punto molto luminoso che ben presto si sarebbe perso nel bagliore del Sole. Gibson stentava a credere di aver conosciuto fino a poco tempo prima un’esistenza diversa da quella che conduceva attualmente nel piccolo chiuso mondo dell’Ares, il cui equipaggio ormai non era più composto da Norden, Hilton, Mackay, Bradley, Scott, ma da John, Fred, Angus, Owem, Bob.

Aveva imparato a conoscerli bene tutti, anche se in Hilton e Bradley aveva incontrato una strana riservatezza che gli riusciva difficile penetrare. Ognuno di quegli uomini era un individuo ben definito la cui personalità contrastava nettamente con quella degli altri: forse le sole cose che tutti avevano in comune erano l’intelligenza e la preparazione. A volte si sentiva prendere da un vago senso di vergogna ripensando agli equipaggi che aveva inventato per le sue astronavi immaginarie. Gli tornava alla mente il Mastro Pilota Graham, di Cinque Lune di troppo che pure era ancora uno dei suoi personaggi preferiti. Certo Graham era stato un uomo in gamba (non era riuscito una volta a sopravvivere per mezzo minuto nel vuoto prima di riuscire a infilarsi lo scafandro spaziale?) e si scolava regolarmente una bottiglia di whisky a! giorno. Ma quale diversità tra questo parto della sua fantasia e Angus Mackay, per esempio, dottore in fisica (astronomica), membro della Società Reale di Astronomia, il quale in quel preciso momento se ne stava seduto tranquillamente in un angolo, intento a leggere una copia irta di note dei Racconti di Canterbury, assaporando di tratto in tratto un sorso di latte da un recipiente a forma di bulbo!

Gibson era intento a una tranquilla partita a freccette con il dottor Scott quando Bradley entrò con un modulo del rapporto segnalazioni.

«Adesso non mettetevi subito in agitazione» disse con la sua voce raffinata «ma vi avverto che siamo seguiti.»

Lo guardarono tutti a bocca aperta. Mackay fu il primo a riprendersi.

«Ti prego di essere più esplicito» disse con il suo solito tono lievemente cattedratico.

«C’è un razzo catapultato, sigla Mark III, che ci sta venendo dietro a rotta di collo. È stato lanciato in questo momento dalla stazione esterna e ci dovrebbe raggiungere fra quattro giorni. Vogliono che lo si acchiappi al volo mentre passa, con il nostro controllo radio, ma con la deviazione che avrà subito a questa distanza ci stanno chiedendo un po’ troppo. Sarà tanto se arriverà ad accostarci entro un raggio inferiore ai centomila chilometri.»

«E dietro a chi sta correndo?»

«Credo che trasporti soccorsi sanitari urgenti. Guarda, dottore, dai un po’ un’occhiata qui.»

Il dottor Scott lesse attentamente il messaggio.

«Questo sì che è interessante. Pare che abbiano trovato un antidoto alla febbre marziana. Deve trattarsi di qualche siero: l’hanno scoperto all’Istituto Pasteur. Devono essere molto sicuri della sua efficacia, se si sono presi tutto questo disturbo per farcelo arrivare.»

«Insomma, in nome di Dio. si può sapere che cos’è un razzo sigla Mark III, per non parlare della febbre marziana?» esplose infine Gibson.

Ci pensò il dottor Scott a rispondere, prima che gli altri avessero avuto il tempo di aprire bocca.

«La febbre marziana non è in realtà una malattia tipica del pianeta Marte. A quanto pare, è causata da un organismo terrestre che siamo stati noi a portare lassù e al quale il nuovo clima è piaciuto più dell’antico. Si manifesta con sintomi molto simili a quelli della malaria…»

«Grazie mille. Adesso ricordo perfettamente. Ma, e il razzo?»

Hilton si inserì abilmente nella conversazione.

«È semplicemente un piccolo razzo automatico radiocomandato e dotato di una velocità terminale altissima. Viene impiegato per il trasporto di merci tra una stazione spaziale e l’altra, oppure per rincorrere le astronavi quando queste hanno dimenticato qualcosa. Quando entrerà nel raggio d’azione della nostra radio capterà le segnalazioni della nostra trasmittente e si dirigerà verso di noi. Ehi, Bob» chiese bruscamente «come mai non l’hanno spedito direttamente su Marte? Avrebbe potuto arrivarci molto prima di noi.»

«Perché i suoi minuscoli passeggeri avrebbero arricciato il naso a dover fare il viaggio tutti soli. Bisogna che predisponga per loro un po’ di colture perché restino in vita, e che faccia loro da balia.»

Gibson stava riflettendo intensamente.

«Io ero fermo nel convincimento che la vita su Marte fosse molto sana, sia dal punto di vista fisico sia da quello fisiologico.»

«Non bisogna prestare fede a tutto quello che si legge nei libri» rispose Bradley strascicando le parole. «Perché poi la gente si ostini ad andare su Marte è una cosa che non mi entra in testa. È piatto, freddo, pieno di miserabili piante rachitiche che sembrano uscite da un incubo di Edgar Allan Poe. Ci abbiamo buttato miliardi per non ricavarne neanche un centesimo. Io dico che chi ci va senza esserci mandato, dev’essere un po’ tocco nel cervello. Questo sia detto senza offesa per nessuno.»

Gibson si limitò a sorridere. Aveva imparato a fare una tara del novanta per cento almeno a tutto il cinismo di Bradley.

Norden lanciò al suo specialista in elettronica un’occhiata furibonda, poi disse: «Devo avvertirvi, caro Martin, che al giudizio di Bradley su Marte non va data troppa importanza poiché la sua opinione sulla Terra e gli altri pianeti non è molto diversa. Perciò non vi lasciate deprimere dalle sue considerazioni.»

«Neanche per sogno» disse Gibson ridendo. «Però c’è ancora una cosa che vorrei sapere.»

«Chiedi pure» sollecitò Norden, ansioso.

«Ecco, vorrei sapere se il signor Bradley ha anche di sé la scarsa opinione che manifesta per il resto dell’universo.»

«Ogni tanto» disse Norden. «Il che dimostra che qualche volta almeno il suo giudizio è esatto.»

«Toccato» mormorò Bradley, preso una volta tanto alla sprovvista. «Adesso mi ritirerò nei miei appartamenti a elaborare una risposta adeguata. Intanto, Mac, vuoi avere la cortesia di prendere le coordinate del razzo e farmi sapere quando entrerà in raggio?»

«Va bene» rispose Mackay in tono assente. Era più che mai immerso nella lettura di Chaucer.

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