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«Un’ora fa avevamo un solo passeggero» disse il dottor Scott mentre passava attraverso il compartimento stagno, stringendosi amorosamente al petto la lunga cassetta metallica. «E adesso ne abbiamo diversi miliardi.»

«Chissà come avranno sopportato il viaggio» disse Gibson.

«A quanto pare i termostati erano in perfetta efficienza, quindi dovrebbero stare benone. Li porto subito nelle culture che ho già preparato, dove spero che vivranno tranquilli e felici finché non saremo su Marte, perché li rimpinzerò da scoppiare.»

«Cosa succederà adesso a quel poveretto?» chiese Gibson al capitano Norden, indicando il missile.

«Ne ricupereremo il meccanismo di controllo e di guida e ne molleremo la carcassa nello spazio. Sarebbe un peccato consumare propellente per portare fin su Marte quel guscio inutile. Perciò, finché non riprenderemo l’accelerazione, avremo una nostra piccola luna personale.»

«Proprio come il cane nel racconto di Giulio Verne.»

«Quale? Quello intitolato Dalla Terra alla Luna? Non l’ho mai letto. Per dire la verità, mi ci sono provato una volta, ma non sono riuscito a continuare. Questo è il guaio di tutte le vecchie favole del buon tempo andato… non c’è niente che sia più morto dei racconti avveniristici di ieri.»

Gibson si sentì in dovere di difendere la sua professione.

«Dunque ritieni che la letteratura cosiddetta fantascientifica non potrà mai avere un valore duraturo?»

«Temo di no. Guarda che cosa è successo fino al sessanta, diciamo anche fino al settanta. A quell’epoca si scrivevano ancora romanzi intorno al primo viaggio sulla Luna. Oggi però sono illeggibili. Una volta raggiunta la Luna, per qualche anno ancora si scrisse intorno a Venere e a Marte. Ma oggi anche quei romanzi non si leggono più, se non per farci sopra matte risate. Può darsi che i pianeti esterni forniscano ancora un discreto investimento per un’altra generazione: ma le frottole interplanetarie care ai nostri nonni hanno avuto la loro definitiva sepoltura alla fine del settanta.»

«Tuttavia il tema del volo spaziale è oggi più popolare che mai.»

«Sì, ma non si tratta più di scrivere romanzi scientifico-avveniristici. O sono fatti, cronaca giornalistica, come quella che stai facendo tu adesso, oppure sono opere di pura fantasia. E infatti la maggior parte sono favole, nient’altro che favole, buone per incantare i bambini, e basta!»

«Contesto la tua argomentazione su due punti» ribatté Gibson. «Prima di tutto il pubblico, una gran parte almeno, legge ancora oggi le frottole di Wells, anche se sono vecchie di un secolo. E per passare dal sublime al ridicolo, leggono ancora persino le mie opere giovanili, Polvere Marziana per esempio, anche se ormai i tempi le hanno abbondantemente superate.»

«Wells faceva della letteratura sul serio. Le creazioni della fantasia pura si leggono nonostante le previsioni fatalmente errate, ma non a causa di queste.»

Seguì una breve pausa. Gibson si chiese se il suo interlocutore si stesse preparando ad attaccare il suo secondo punto. Infine Norden riprese: «Quando hai scritto Polvere Marziana

«Nel settantatré o nel settantaquattro.»

«Non sapevo che fosse un’opera tanto vecchia. Ma questo spiega in parte la cosa. I viaggi interplanetari stavano per iniziare proprio allora, e tutti lo sapevano. Tu ti eri già fatto un nome con alcuni lavori letterari, e Polvere Marziana s’infilò molto opportunamente nella corrente del momento.»

Gibson sospirò, poco convinto. Poi scoppiò in una sonora risata.

«Si può conoscere il motivo di questa tua improvvisa allegria?» chiese Norden.

«Riflettevo sulla nostra conversazione. Mi stavo chiedendo che cosa avrebbe pensato Wells se avesse potuto immaginare che un giorno due terricoli avrebbero discusso le sue opere a metà strada fra Marte e la Terra.»

«Non esagerare adesso» fu la risposta di Norden. «Non siamo che a un terzo di strada, per il momento!»

La mezzanotte era passata da un pezzo quando Gibson si svegliò all’improvviso da un sonno senza sogni. Qualcosa l’aveva disturbato, un boato sordo che gli sembrò provenire da un’esplosione lontana, dai visceri dell’astronave. Si rizzò a sedere nel buio, irrigidendosi contro le larghe fasce elastiche che lo tenevano fermo al letto. Dallo specchio-finestrino gli giunse solo un luccichio di stelle, poiché la sua cabina si trovava sul lato notturno della nave. Rimase in ascolto, le labbra semiaperte, trattenendo il respiro per cogliere il minimo rumore.

Molti rumori echeggiavano per l’Ares, la notte, poiché l’astronave era viva, e il silenzio avrebbe significato per lei e per tutti coloro che ci vivevano la morte e il nulla, e quei rumori Gibson li conosceva tutti, ormai. Era meravigliosamente rassicurante il sospiro continuo, regolare delle pompe dell’aria che insufflavano gli alisei artificiali, creati dall’uomo, per quel minuscolo pianeta.

Ancora semiaddormentato, si affacciò sull’uscio della cabina e per qualche minuto rimase in ascolto nel corridoio. Tutto era perfettamente normale, e lui era l’unico sveglio a bordo.

Si era già rimesso a letto quando lo assalì un pensiero improvviso. Il rumore era stato poi così lontano? La sua era stata soltanto una prima impressione, e il rumore avrebbe anche potuto essere molto più vicino. Ma era stanco e non ci pensò più. Gibson nutriva una fiducia completa, addirittura commovente, nella perfetta strumentazione dell’astronave. Se davvero fosse successo qualcosa, gli allarmi automatici avrebbero svegliato tutti. Erano stati collaudati parecchie volte nel corso del viaggio, ed erano talmente assordanti da svegliare anche un morto. Quindi poteva riaddormentarsi tranquillamente, sicuro che la nave vegliava su di lui.

Gibson aveva perfettamente ragione, anche se era destinato a non saperlo mai. Il mattino seguente, del resto, aveva già dimenticato ogni cosa.


Norden si avvicinò tossicchiando nervosamente.

«Senti un po’, Martin» disse il capitano, «ti ricordi che non mi lasciavi in pace perché volevi provare una tuta spaziale?»

«Certo. Ma mi hai sempre risposto che era severamente proibito dai regolamenti.»

Il Comandante parve imbarazzato, cosa alquanto insolita in lui.

«Già, e infatti lo è, in un certo senso. Ma questa volta non si tratta di un viaggio normale, e da un punto di vista tecnico tu non puoi essere definito un passeggero. Credo che dopotutto si possa fare, se t’interessa ancora.»

Gibson ne fu entusiasta. Si era sempre chiesto che effetto facesse indossare una tuta spaziale e starsene in piedi nel nulla, circondati dalle stelle. Non gli venne neppure in mente di chiedere a Norden come mai avesse cambiato idea, cosa di cui Norden gli fu molto grato.


La congiura era andata maturando durante un’intera settimana. Ogni mattina Hilton si recava nella cabina di Norden con i bollettini di navigazione in cui erano riassunti l’andamento della nave durante le ultime ventiquattro ore e il comportamento delle sue molteplici macchine. Di solito non c’era niente d’importante da segnalare, e dopo aver firmato i vari rapporti, Norden li univa al giornale di bordo. Una grana era davvero l’ultima cosa che avrebbe desiderato lassù nello spazio, ma gliene toccò una.

«Senti un po’, Johnnie» disse Hilton una mattina (era il solo a bordo che chiamasse Norden con il nome di battesimo: per gli altri era sempre e soltanto il Comandante) «non ho più dubbi ormai sulla pressione d’aria. La diminuzione si può dire costante. Tra una decina di giorni avremo superato il limite di tolleranza.»

«Questo significa che dobbiamo assolutamente fare qualcosa. Speravo che fosse possibile resistere fino all’arrivo.»

«Temo invece che non sarà possibile. Naturalmente si tratta di livelli trascurabili: una fuga d’aria anche dieci volte maggiore non sarebbe in realtà pericolosa. Ma quando torneremo sulla Terra dovremo pur consegnare alla commissione per la sicurezza spaziale i nostri rapporti sulla pressione.»

«Dove pensi che avvenga la perdita?»

«Nell’ossatura, naturalmente.»

«Si tratta forse di quella vecchia apertura vicino al Polo Nord

«Ne dubito. È stato troppo improvviso. Temo che sia una foratura nuova.»

Norden ebbe un’espressione seccata. Di forature dovute a polvere meteorica se ne verificavano due o tre all’anno su un’astronave della mole dell’Ares. Di solito si lasciava che si accumulassero prima di pensare a ripararle, ma questa sembrava un po’ troppo rilevante per venire ignorata.

«Questo è il guaio» disse Hilton. «Abbiamo un solo rivelatore, e ben cinquantamila metri quadrati di ossatura da ispezionare. Si possono perdere anche un paio di giorni. Ora, se si fosse trattato di un unico bel buco grosso avremmo potuto mettere in azione le paratie automatiche che ce l’avrebbero individuato subito.»

«Meno male che questo non è possibile» disse Norden ridendo. «Altrimenti una spiegazione qualsiasi avremmo dovuto pur darla!»

Jimmy Spencer, al quale come al solito venne affibbiato anche quell’incarico di cui nessuno si voleva occupare, trovò il guasto dopo tre giorni e dodici giri d’ispezione. Il minutissimo foro era appena visibile ad occhio nudo, ma il rivelatore supersensibile aveva immediatamente registrato che in quella parte dello scafo il vuoto non era a tenuta perfetta. Jimmy aveva segnato il punto col gesso ed era rientrato tutto soddisfatto nel compartimento stagno.

Norden andò a scovare le varie piante della nave. Basandosi sul rapporto di Jimmy localizzò con sufficiente approssimazione l’ubicazione dell’avaria. Subito emise un fischio significativo e i suoi occhi si levarono al soffitto.

«Jimmy» disse «il signor Gibson sa che cosa sei andato a fare all’esterno?»

«Nossignore» rispose Jimmy, «gli ho dato la solita lezione di astronautica, per quanto non sia molto facile fargli entrare in testa…»

«Bene. Adesso ascoltami con attenzione. Quella maledetta foratura è proprio nel bel mezzo della parete della sua cabina, e se tu gli ripeti anche soltanto una parola di quello che ti ho detto, ti scuoio. Intesi?»

«Sissignore» disse Jimmy, poi uscì a precipizio.

«E adesso?» fece Hilton, rassegnato.

«Dobbiamo sloggiare Martin con un pretesto qualsiasi e turare il buco il più in fretta possibile.»

«Curioso però che non se ne sia accorto. Deve aver fatto un gran baccano, quando è successo.»

«Probabilmente in quel momento non era in cabina. Mi sorprende invece che non abbia mai notato la fuga d’aria, che dev’essere piuttosto forte.»

«Ma probabilmente è mascherata dalla circolazione normale. Comunque perché tante storie? Perché non spiegargli tranquillamente quello che è successo? Mi sembra inutile usare tanti stratagemmi.»

«Davvero? Ne sei proprio sicuro? Immagina se Martin va a raccontare ai suoi lettori che una meteora di grandezza dodici ha bucato la nave… e seguita poi a sostenere che guai del genere si verificano un viaggio sì e uno no. Quanti tra il pubblico capiranno che non esiste un pericolo effettivo, e che per giunta anche quando succedono fatti del genere noi non ce ne preoccupiamo più che tanto?»

«E allora perché non dirglielo pregandolo soltanto di tenere la bocca chiusa?»

«Perché non sarebbe giusto. Chiedere proprio a un giornalista di tacere dopo settimane che non ha una sola notizia da raccontare!»

«E va bene» disse Hilton con un sospiro. «L’hai voluto tu. Non ti lamentare poi se andrà tutto a nostro danno.»


Gli aggeggi complicati avevano sempre affascinato Gibson, e la tuta spaziale era un aggeggio supernuovo da aggiungere alla già numerosa collezione di congegni che lui aveva studiato e descritto. Bradley era stato generoso di particolari per essere certo che lo scrittore ne avesse compreso bene il funzionamento. Non aveva nessuna voglia di portarlo fuori nello spazio e poi doverlo andare a cercare chissà dove.

Gibson si era dimenticato che i vestiti spaziali dell’Ares non avevano calzoni, ma che bisognava semplicemente sedercisi dentro, come in un sacco. Il che era alquanto sensato, dal momento che dovevano servire per muoversi in gravità zero e non già per camminare su pianeti senza aria.

La mancanza di gambali flessibili semplificava moltissimo la forma degli indumenti che erano semplici cilindri terminanti in un casco di perspex, materiale plastico molto più trasparente del vetro, e completati ai lati superiori da due braccia articolate. Lungo i fianchi correvano scanalature e rigonfi misteriosi entro cui si annidavano il condizionamento d’aria, una radio, i regolatori del calore, e un sistema di propulsione a basso regime. Nel loro interno, chi li indossava poteva godere una notevole libertà di movimenti: si potevano ritirare le braccia per maneggiare i vari controlli e persino per consumare un pasto leggero senza ricorrere a esercizi eccessivamente complicati.

Bradley aveva trascorso quasi un’ora nel compartimento stagno per accertarsi con il massimo margine di sicurezza che Gibson avesse ben compreso l’uso dei diversi controlli senza pericolo di commettere errori. Il giornalista aveva apprezzato la precisione del compagno, ma quando si accorse che la lezione non accennava a finire cominciò a dare segni palesi di impazienza. E quando Bradley attaccò la spiegazione sull’uso dei dispositivi igienici dello scafandro, Gibson minacciò addirittura un ammutinamento.

«Basta» protestò. «Non vorrai che si stia fuori tanto!»

Bradley rise.

«Ti sorprenderebbe il numero delle persone che commettono questo errore.»

Aprì uno sportello e dall’armadietto inserito nella paratia del compartimento tolse due rotoli di filo che assomigliavano in tutto e per tutto a rocchetti da pescatore, e li inserì saldamente in speciali dispositivi montati sulle tute in modo che non si potessero staccare per una causa accidentale.

«Questa è la misura di sicurezza numero uno» spiegò. «Bisogna sempre avere uno di questi fili di salvataggio che ti ancorino ben bene alla nave. Tutte le altre regole si possono infrangere, ma non questa. E per essere ancora più sicuro, legherò la tua tuta alla mia con altri dieci metri di corda.»

La porta esterna scattò automaticamente di lato. Gibson sentì gli ultimi refoli d’aria appigliarsi a lui nella loro fuga. Quel debole impulso lo sospinse verso l’uscita, e lui scivolò fuori dolcemente in mezzo alle stelle.

La lentezza di ogni movimento e l’assoluto silenzio resero quell’istante particolarmente solenne. L’Ares si allontanava alle sue spalle con spaventosa ineluttabilità. Lui stava sprofondando nello spazio, nello spazio vero, finalmente, e il suo unico legame con la vita era quel tenue filo che si dipanava dal suo fianco.

Tuttavia quell’esperienza, pur così nuova, gli risvegliò nella mente echi familiari.

La frizione del rocchetto arrestò il suo impulso quando la corda che lo legava a Bradley diede uno strattone. Si era quasi scordato il compagno. Bradley ora si stava allontanando a saetta dall’astronave grazie ai minuscoli razzi a gas situati alla base del suo scafandro, e si portava Gibson a rimorchio.

Gibson rimase letteralmente senza parole quando la voce dell’altro, ripercotendosi con eco metallica nel casco della sua tuta, sbriciolò il silenzio.

«Non mettere in moto i tuoi razzi a meno che non te lo dica io. Non dobbiamo acquistare velocità eccessiva, e dobbiamo stare attenti a non aggrovigliare i nostri due fili.»

«Va bene» disse Gibson, vagamente seccato di quell’intrusione nel suo sacrario privato. Si voltò a guardare la nave: era già a varie centinaia di metri di distanza, e stava rapidamente rimpicciolendo.

«Quanto cavo abbiamo a disposizione?» chiese con ansia. Ma non ebbe risposta e per un attimo fu colto da un lieve panico, poi si ricordò che doveva premere il pulsante di trasmissione.

«Un chilometro circa» fu la risposta di Bradley non appena Gibson ebbe ripetuto la domanda. «È più che sufficiente per godersi in santa pace un po’ di solitudine.»

«E se dovesse spezzarsi?» chiese Gibson in tono scherzoso, ma con una certa apprensione segreta.

«Non è possibile. Sopporterebbe tutto il tuo peso normale anche sulla Terra. E in ogni caso potremmo rientrare ugualmente grazie ai nostri razzi.»

«E se questi si esaurissero?»

«In tal caso non ti resterebbe che girare il commutatore dell’SOS e aspettare che qualcuno venga a prenderti. Ma dubito che in una simile circostanza si affretterebbero molto, perché chi fosse tanto stupido da cacciarsi in un guaio del genere non potrebbe certo pretendere molta comprensione.»

Ci fu uno strappo improvviso: erano arrivati alla fine del cavo. Bradley attutì il contraccolpo con i suoi razzi.

«Siamo parecchio lontani da casa, adesso» disse con la massima tranquillità.

A Gibson occorsero diversi secondi per individuare l’Ares. Si trovavano sul lato notturno dell’astronave e questa appariva quasi completamente in ombra: le sue sfere erano divenute due sottili mezzelune che avrebbero potuto benissimo essere scambiate per la Terra e la Luna viste da un milione di chilometri di distanza. La nave era adesso troppo piccola e fragile per poter essere ancora considerata un rifugio sicuro. Gibson era finalmente solo con le stelle. Le stelle erano così splendenti e così numerose che a tutta prima Gibson non riuscì a riconoscere nemmeno la costellazione più familiare. Ma ben presto individuò Marte, il corpo più luminoso nel cielo, dopo il Sole naturalmente, e riuscì a determinare il piano dell’eclittica. Adagio adagio, manovrando con estrema precauzione gli scoppi dei razzi a gas, si girò in maniera da avere grosso modo la testa verso la Stella Polare. Ecco che così era tornato diritto, a piedi in giù e testa in sù, e il disegno delle stelle era di nuovo facilmente riconoscibile.

Lentamente si fece strada verso lo Zodiaco, chiedendosi con meravigliato stupore quanti uomini nella storia avessero condiviso quella sua esperienza magica. Non era più possibile distinguere i pianeti dalle stelle a luce fissa, priva di qualsiasi tremolio, che rappresentava un riferimento tanto utile, anche se a volte assai pericoloso, per gli astronomi dilettanti. Gibson non tentò nemmeno di cercare la Terra o Venere, perché il bagliore del Sole l’avrebbe immediatamente folgorato se avesse osato volgere lo sguardo in quella direzione.

Gibson stava cercando Alpha del Centauro in mezzo alle costellazioni ignote dell’emisfero meridionale, quando vide qualcosa che per un attimo non riuscì a identificare. A una distanza incalcolabile un oggetto bianco, rettangolare, galleggiava sullo sfondo delle stelle. Questa almeno fu la sua prima impressione, ma quasi subito capì che il suo senso della prospettiva era sbagliato e che in realtà quello che vedeva era molto piccolo e si trovava a pochi metri da lui. Ma anche così gli ci volle un po’ di tempo per riconoscere quell’oggetto interplanetario per quello che era realmente: un normalissimo foglio di carta dattiloscritto che si rigirava lentissimamente nello spazio. Niente poteva essere più banale, e più inatteso.

Stupito, Gibson guardò a lungo l’oggetto prima di convincersi di non essere vittima di un’illusione ottica. Poi accese la trasmittente e si mise in comunicazione con Bradley.

L’altro non si mostrò affatto sorpreso.

«Cosa c’è di strano?» disse con una punta d’impazienza. «Sono settimane che gettiamo i nostri rifiuti e poiché non imprimiamo nessuna accelerazione è naturale che qualcosa continui a galleggiarci intorno. Non appena cominceremo a frenare, ce ne staccheremo subito, e la nostra spazzatura se ne andrà sfrecciando fuori dal sistema solare.»

Certo, com’era semplice!

Per millenni dopo la sua morte, quel pezzo di carta avrebbe continuato a portare il proprio messaggio alle stelle, mentre lui ne avrebbe per sempre ignorato il contenuto…

Norden andò a riceverlo al compartimento stagno. Sembrava alquanto soddisfatto di sé, ma Gibson non era in condizioni di notare questo particolare. Era ancora sperduto tra le stelle e gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima di ritornare alla normalità.

«Ce l’avete fatta?» chiese Bradley agli altri, non appena Gibson fu lontano.

«Sì, e con quindici minuti di vantaggio. Abbiamo chiuso i ventilatori e abbiamo scoperto il foro con il sistema antidiluviano ma sempre efficace del fumo di candela. Una bella saldatura e un po’ di vernice ad asciugatura rapida hanno compiuto il resto: in quanto allo scafo esterno lo tureremo quando saremo in cantiere, se proprio sarà necessario. Mac ha fatto proprio un bel lavoro.»

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