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Il Grand Hotel marziano aveva ora ben due residenti, il che imponeva al suo personale improvvisato uno sforzo non comune. Gli altri compagni di viaggio di Gibson si erano sistemati chi qua e chi là presso privati, ma poiché Jimmy non conosceva nessuno a Porto Lowell aveva deciso di accettare l’ospitalità offertagli dal giornalista. Gibson si chiedeva se l’esperimento sarebbe riuscito. Non aveva alcuna intenzione di forzare troppo la loro amicizia finora alquanto superficiale, e se Jimmy lo avesse frequentato troppo i risultati avrebbero potuto essere disastrosi. Ricordava un epigramma lanciato una volta al suo indirizzo dal suo peggiore nemico: "Può darsi che Martin sia un tipo in gamba, ma è certo che è meglio stargli alla larga". In quella frase c’era una certa dose di pungente verità, e Gibson non desiderava esperimentarne l’esattezza proprio in quella particolare occasione.

La sua vita nella cittadina aveva ormai preso un ritmo normale. Il mattino lo dedicava al lavoro, a mettere cioè sulla carta le sue impressioni marziane. Un’impresa alquanto presuntuosa considerate le poche esperienze avute sino a quel momento. Il pomeriggio era riservato invece ai giri di ispezione e ai colloqui e interviste con gli abitanti del Porto.

Una volta l’intero equipaggio dell’Ares andò ad assistere ai progressi compiuti dal dottor Scott e dai suoi colleghi nella lotta contro la febbre marziana. Era ancora troppo presto per trarre conclusioni positive, ma Scott sembrava alquanto ottimista. «Avremmo bisogno di una bella epidemia in grande stile» disse fregandosi le mani. «Solo così potremmo provare veramente l’efficacia di questa roba. Per il momento i casi di febbre sono troppo scarsi.»

Jimmy aveva due motivi per accompagnare Gibson nei suoi giri per la città. Prima di tutto il giornalista aveva il permesso di andare quasi ovunque, e così il ragazzo poteva visitare tutti i posti più interessanti che a lui invece sarebbero stati certamente preclusi. Il secondo era puramente personale, e consisteva nel suo crescente interesse per la personalità di Martin Gibson.

Per quanto ora fossero quasi sempre insieme, non avevano più riaperto la conversazione di quel giorno sull’Ares. Jimmy aveva compreso che Gibson desiderava essergli amico nel tentativo di rimediare, per quanto gli era possibile, a quello che gli era accaduto in passato. E Jimmy accettava queste profferte di amicizia abbastanza freddamente, da calcolatore, comprendendo bene quanto Gibson potesse essergli utile nella sua carriera. Gibson sarebbe forse rimasto sgomento se avesse saputo con quanta freddezza il ragazzo aveva valutato i vantaggi che gli sarebbero derivati dalla sua protezione.

Il fatto che portò nella vita di Jimmy un elemento nuovo e del tutto inatteso fu assolutamente banale. Era uscito solo, un pomeriggio, e poiché aveva sete era entrato nel locale di fronte al Palazzo dell’Amministrazione. Per sua disgrazia non aveva scelto il momento giusto, perché aveva appena iniziato a gustare lentamente la sua tazza di tè quando il locale era stato bruscamente invaso. Si trattava dell’intervallo di venti minuti durante i quali ogni lavoro cessava di colpo su Marte. Tale regola, che il Presidente aveva messo in vigore nell’intento di ottenere da tutti il massimo rendimento, non soddisfaceva più. La gente avrebbe preferito invece andare a casa venti minuti prima.

Jimmy fu subito letteralmente assediato da un esercito di ragazze che lo squadravano con imbarazzante candore e un’assoluta mancanza di diffidenza. Con le donne erano entrati anche una mezza dozzina d’uomini i quali si erano riuniti a un unico tavolo, quasi cercando mutua protezione, e a giudicare dalle loro espressioni assorte sembravano ancora immersi nelle preoccupazioni appena lasciate. Jimmy decise di finire in fretta il suo tè e di andarsene.

Di fronte a lui si era seduta una donna dall’aspetto alquanto autoritario, sulla trentina, probabilmente una segretaria di direzione, la quale stava chiacchierando con una ragazza molto più giovane di lei e che si era seduta al lato del tavolo più vicino a Jimmy. Sgusciare tra tutta quella folla senza travolgere nessuno fu una vera impresa, e mentre si faceva strada a fatica nello stretto passaggio fra i tavolini, Jimmy inciampò in un piede. Sentendosi cadere, si aggrappò disperatamente all’orlo del tavolo riuscendo a evitare un disastro completo, ma al grave prezzo di un sinistro scricchiolio del gomito finito con forza contro il piano di vetro. Nella confusione, e per il dolore, si dimenticò di non essere più a bordo dell’Ares, e sfogò la propria rabbia con un paio di parole tutt’altro che convenienti, quindi arrossendo furiosamente, si diresse verso l’uscita. Ma pur nella furia fece in tempo a notare che la donna più anziana faceva sforzi per non ridere mentre la ragazza, giudicando evidentemente stupido esercitare l’autocontrollo per un motivo così futile, sghignazzava allegramente senza il minimo ritegno.

Poco dopo però se n’era già dimenticato.

Fu Gibson a provocargli per puro caso, la seconda scarica emotiva. Stavano parlando della rapida crescita della città in quegli ultimi anni e chiedendosi se sarebbe continuata anche per l’avvenire. Gibson aveva messo in rilievo l’anormale distribuzione d’età causata dal fatto che nessuno al di sotto dei ventun anni aveva finora avuto il permesso di emigrare su Marte, così che sul pianeta esisteva un vuoto tra l’età di dieci e quella di ventuno, vuoto che però l’alto incremento demografico della colonia avrebbe presto colmato. Jimmy era stato ad ascoltare alquanto distrattamente, ma una frase di Gibson gli fece improvvisamente drizzare le orecchie.

«È curioso, però» disse. «Proprio ieri ho visto una ragazza che non poteva avere più di diciott’anni.»

Ma subito s’interruppe. Come una bomba a scoppio ritardato, il ricordo della faccia ridente della ragazza mentre lui usciva in modo tanto maldestro dal bar gli esplose nella mente.

Non intese neppure quello che Gibson gli disse, e che cioè doveva essersi ingannato. Sapeva una cosa sola: chiunque fosse e da qualsiasi parte venisse, quella ragazza lui doveva rivederla.

In un posto con le dimensioni di Porto Lowell, ritrovarsi era unicamente questione di tempo. Ma Jimmy non aveva intenzione di aspettare che le incerte leggi del caso gli venissero in soccorso. Il giorno seguente, poco prima del consueto intervallo, era là, nel piccolo bar.

La mossa, non eccessivamente astuta, gli aveva procurato una certa ansietà. Prima di tutto avrebbe potuto sembrare troppo ovvia. Ma, in fondo, non poteva essere lì anche lui con gli altri visto che quasi tutti i dipendenti dell’Amministrazione andavano in quel locale? L’obiezione più grave era stato il ricordo della pessima figura fatta il giorno precedente. Comunque Jimmy si fece coraggio ricordando una certa citazione che gli pareva facesse al caso suo e in cui si parlava di cuori teneri e di belle dame.

Tutti i suoi scrupoli si rivelarono inutili. Attese fino a quando il bar non fu nuovamente vuoto, ma né la ragazza né la sua compagna si fecero vive. Forse erano andate da un’altra parte.

Per un giovane pieno di risorse come Jimmy, quello era soltanto uno scacco temporaneo. La ragazza doveva certo lavorare nel Palazzo dell’Amministrazione, dove era facilissimo entrare con una scusa qualsiasi. Pensò di andarci a chiedere informazioni sul suo stipendio, per quanto questo motivo difficilmente l’avrebbe portato nei meandri dell’archivio dove quasi sicuramente la ragazza doveva lavorare in qualità di stenografa.

La cosa migliore sarebbe stata di tenere d’occhio l’edificio all’ora in cui il personale entrava o usciva, anche se non sarebbe stato facile mettersi lì di guardia senza farsi notare. Ma prima ancora di aver pensato uno stratagemma qualsiasi, ecco che entrò nuovamente in gioco il destino, ancora una volta travestito da un Martin Gibson sbuffante e affannato.

«Ti ho cercato dappertutto, Jimmy. Ti consiglio di correre subito a cambiarti. Lo sai che c’è uno spettacolo stasera? Bene, siamo stati tutti invitati a cena dal Presidente, prima del teatro, cioè fra due ore.»

«Che cosa si indossa su Marte per i pranzi ufficiali?» domandò Jimmy.

«Pantaloncini neri e cravatta bianca» rispose Gibson incerto. «O il contrario? Comunque ce lo diranno all’albergo. Spero che riescano a scovare qualcosa che si possa infilare senza scoppiarci dentro.»

Ci riuscirono, giusto per un pelo. L’abito di società su Marte, dove per il calore e l’aria condizionata i vestiti erano ridotti al minimo, consisteva in una camicia di seta bianca con due file di bottoni di madreperla, una cravatta nera a farfalla, e un paio di pantaloncini di raso nero guarniti di una larga cintura a maglia, di alluminio, cucita su un sostegno elastico. L’effetto era tutt’altro che inelegante, ma quando fu vestito Gibson si sentì qualcosa a metà tra un boy-scout e il Piccolo Lord. Norden e Hilton invece stavano benissimo, Mackay e Scott un po’ meno. In quanto a Bradley se ne infischiava altamente, come al solito.

La residenza del Capo era la più vasta abitazione privata esistente su Marte, anche se sulla Terra sarebbe stata considerata una casa meno che modesta. Prima della cena si riunirono nel soggiorno a fare due chiacchiere e bere uno sherry, sherry autentico. Era stato invitato anche il maggiore Whittaker, seconda autorità dopo Hadfield, e nell’ascoltarli mentre parlavano con Norden, Gibson capì per la prima volta con quanto rispetto e ammirazione i coloni considerassero quegli uomini che rappresentavano il loro unico legame con la Terra. Hadfield stava facendo il panegirico dell’Ares con veri e propri accenti lirici per la sua velocità e il suo carico utile, e per i risultati che se ne sarebbero tratti a favore dell’economia marziana.

«Prima di passare in sala da pranzo» disse poi, quando ebbero terminato lo sherry «desidero presentarvi mia figlia. È di là a occuparsi che tutto sia in ordine. Scusatemi un attimo che vado a chiamarla.»

Tornò di lì a pochi secondi.

«Questa è Irene» disse con un tono che rivelava l’orgoglio paterno. La presentò agli ospiti, lasciando Jimmy per ultimo.

Irene guardò il giovane, poi gli disse col più dolce dei sorrisi: «Credo che noi due ci conosciamo già.»

Jimmy diventò rosso, ma si riprese subito e le restituì il sorriso.

«Lo credo anch’io» rispose.

Era stato un vero imbecille a non averci pensato. Se soltanto avesse riflettuto un po’, avrebbe capito chi era la ragazza del bar. L’unico che poteva infrangere le regole, su Marte, era chi le aveva istituite. Jimmy aveva effettivamente inteso dire che il Presidente aveva una figlia di diciott’anni, ma non aveva collegato le due cose. Adesso tutto combaciava perfettamente: quando Hadfield e sua moglie si erano trasferiti su Marte avevano portato con sé la loro unica figlia. Era stato specificato appositamente in una clausola del contratto, e a nessun altro era stato poi concesso di fare altrettanto.

La cena fu ottima, ma per quel che riguardava Jimmy fu completamente sprecata. Non aveva esattamente perso l’appetito, sarebbe stato impossibile, ma mangiava distratto, svogliato. Poiché era seduto all’estremità della tavola, riusciva a vedere Irene solo se allungava il collo in un modo che non poteva affatto essere definito elegante e distinto. Fu soddisfatto quando la cena, come Dio volle, ebbe termine e tutti passarono nell’altra stanza per il caffè.

Gli altri due componenti della famiglia del Presidente marziano erano già in salotto in attesa degli ospiti, e naturalmente avevano occupato i posti migliori. Si trattava di una splendida coppia di gatti siamesi che scrutarono i visitatori con i loro occhi insondabili. Vennero presentati come Topazio e Turchese, e Gibson, il quale adorava i gatti, si mise subito ad accarezzarli per cattivarsene l’amicizia.

«A voi piacciono, i gatti?» chiese Irene a Jimmy.

«Oh, sì» mentì Jimmy che li odiava. «Da quanto tempo sono qui?»

«Da un anno circa. Pensate, sono gli unici animali di Marte! Chissà se apprezzano questo privilegio.»

«Marte comunque l’apprezza. Ma non sono un po’ viziati?»

«Non si lasciano viziare, sono troppo indipendenti. Non credo che vogliano veramente bene a nessuno, neppure a mio padre, per quanto lui si ostini a sostenere il contrario.»

Con grande diplomazia, sebbene a uno spettatore estraneo sarebbe apparso evidente, Jimmy riuscì a portare la conversazione su un terreno più personale. Scoprì così che Irene lavorava nella sezione contabile, ma era informatissima su tutto quello che si svolgeva al reparto amministrativo dove sperava di occupare un giorno un importante posto di direzione. Jimmy pensò che forse, in un certo senso, l’alta posizione del padre le era di ostacolo. Anche se per certi versi questo doveva averle reso la vita più facile, per altri invece doveva averle creato svantaggi innegabili, perché Porto Lowell era molto democratica.

Ma era molto difficile mantenere Irene sull’argomento Marte: la ragazza era assai più desiderosa di parlare di Terra, del pianeta che aveva lasciato bambina e che quindi aveva nel suo ricordo una irrealtà di sogno. Jimmy fece del suo meglio per rispondere a tutte le domande in modo esauriente, ben felice di discorrere di qualsiasi cosa che potesse tenere desto l’interesse della ragazza. Le parlò delle grandi metropoli terrestri, delle montagne e dei mari, dei cieli azzurri solcati di nubi, dei fiumi e degli arcobaleni… di tutte le cose insomma che Marte non aveva. E mentre parlava si sentiva sempre più preso dal fascino degli occhi ridenti di Irene. Ridenti. Non c’era altro modo per descriverli. Pareva che la ragazza condividesse con l’interlocutore una misteriosa allegria segreta.

A un certo punto Jimmy si accorse, che intorno a loro si era fatto un gran silenzio. Tutti guardavano lui e Irene.

«Se voi due avete finito di chiacchierare» disse il Presidente, «sarà meglio muoversi. Lo spettacolo comincia tra dieci minuti.»

Tutto Porto Lowell sembrava essersi pigiato nel minuscolo teatro. Il maggiore Whittaker, che li aveva preceduti per fissare i posti, li aspettava all’ingresso, e li accompagnò alle rispettive poltrone, un blocco di posti che occupavano quasi tutta la prima fila. Gibson, Hadfield e Irene erano al centro, fiancheggiati da Norden e Hilton, con grande dispiacere di Jimmy, al quale non restò altra alternativa che ammirare lo spettacolo.

Come tutte le rappresentazioni dilettantistiche anche quella era buona solo in parte. I pezzi musicali erano ottimi e c’era una mezzo soprano che avrebbe potuto dare dei punti a qualsiasi collega professionista terrestre. Gibson perciò non rimase sorpreso quando lesse accanto al suo nome, sul programma: "Ex artista del Teatro Reale dell’Opera del Covent Garden".

Seguiva quindi un intermezzo drammatico, con la classica eroina in pericolo e il solito cattivo che alla fine veniva punito. Al pubblico piacque, e i vari interpreti furono applauditi e fischiati a turno, a seconda della parte che interpretavano, e non mancarono i consigli e gli epiteti di rito a questo e a quello.

Si presentò quindi alla ribalta il più formidabile ventriloquo che Gibson avesse mai udito, finché verso la fine, giusto un attimo prima che l’attore rivelasse spontaneamente il trucco, si accorse che si trattava in realtà di un registratore nascosto dietro le quinte.

Il pezzo successivo era una satira bonaria di vita cittadina, talmente zeppa di allusioni locali che Gibson poté apprezzarla solo in minima parte. Comunque i lazzi del personaggio principale, un funzionario in preda a un continuo esaurimento nervoso, evidentemente ricalcato sul modello del maggiore Whittaker, strapparono al pubblico scoppi frenetici di risa, che aumentarono ancora quando il personaggio cominciò a essere assediato da un tale che lo tempestava di. domande idiote, segnandosi le risposte in un libriccino misterioso (che perdeva continuamente), e che tra una domanda e l’altra si affannava a fotografare tutto quello che vedeva.

Ci. volle un po’ prima che Gibson capisse a chi volevano alludere, e quando finalmente lo capì, diventò rosso come una roccia marziana, poi si rese subito conto che c’era una sola cosa da fare: ridere più forte degli altri.

Lo spettacolo si concluse con un coro generale, tipo di divertimento per il quale Gibson non aveva molte simpatie. Lo trovò però meno insopportabile di quello che si sarebbe aspettato, e mentre univa la sua voce a quelle degli altri nei ritornelli, si sentì prendere da un’improvvisa onda di emozione che gli impedì di continuare. Per un attimo rimase così, unico in silenzio fra tutta la folla cantante, a chiedersi che cosa diavolo gli fosse successo.

Ma le facce che vedeva intorno gli diedero subito la risposta: erano facce di uomini e di donne uniti da una causa comune, che andavano verso una comune mèta, e ognuno dei quali sapeva che la sua opera e il suo impegno erano essenziali per la vita della comunità. Quella gente provava un senso di pienezza che pochi sentivano sulla Terra, dove da tempo tutte le frontiere erano state raggiunte e superate. Era un sentimento ingigantito e reso ancor più intimo dal fatto che Porto Lowell era ancora talmente piccolo che i suoi abitanti si conoscevano uno per uno.

Fu forse in quell’attimo che Martin Gibson rinunciò alla Terra per Marte. Nessuno lo seppe mai. Anche quelli che aveva vicini, se pure si accorsero di qualcosa, notarono forse soltanto che lui aveva smesso di cantare ma per tornare subito a unirsi al coro con raddoppiata energia.

A gruppi di due o tre, chiacchierando, ridendo e cantando, il pubblico si disperse lentamente nella notte. Gibson e i suoi amici, dopo aver salutato il Presidente e il maggiore Whittaker, tornarono verso l’albergo. I due uomini che virtualmente governavano Marte lì accompagnarono con lo sguardo finché li videro sparire nelle anguste strade, poi Hadfield si rivolse alla figlia.

«Adesso corri a casa» le disse con dolcezza. «Io e il maggiore Whittaker andiamo a fare due passi. Rientreremo tra mezz’ora.»

Rimasti soli i due uomini attesero ancora per un po’, rispondendo ai saluti che venivano loro rivolti dai passanti. Infine la minuscola piazza restò deserta. Il maggiore che aveva intuito di che cosa Hadfield voleva parlargli, aspettava con un po’ di apprensione.

«Ricordami di congratularmi con George per lo spettàcolo di stasera» cominciò Hadfield.

«Già» disse Whittaker. «Niente male la botta rivolta al nostro comune rompiscatole, Gibson. Immagino che aprirai subito un’inchiesta sulla sua ultima prodezza.»

A un’allusione talmente diretta il Presidente rimase alquanto sconcertato.

«Veramente è un po’ troppo tardi… e in fondo non ci sono prove che ne sia venuto un gran guaio. Però sto pensando a quello che bisogna fare per impedire che in futuro succedano altri incidenti del genere.»

«Non si può neppure farne una colpa al conducente. Era completamente all’oscuro del Progetto ed è stato per pura e sfortunata combinazione che è andato a ficcare il naso dove non doveva.»

«Credi che Gibson sospetti qualcosa?»

«Francamente non lo so. È un tipo piuttosto astuto, che sa dissimulare con molta abilità.»

«Guarda un po’ se mi doveva capitare tra i piedi un giornalista proprio adesso. E lo sa il cielo quello che ho fatto per tenermelo alla larga!»

«È probabile che non ci metta molto ad accorgersi che qui sta maturando qualcosa. Secondo me c’è un’unica soluzione.»

«Quale?»

«Parlargli schiettamente. Non dirgli tutto, magari, ma qualcosa sì. L’essenziale, almeno.»

Proseguirono in silenzio per alcuni metri. Poi Hadfield disse: «Mi sembra una decisione drastica. Questo presuppone una fiducia completa in Gibson.»

«L’ho seguito parecchio in queste ultime settimane. Sostanzialmente è dalla nostra parte. Noi stiamo facendo proprio quello di cui Gibson ha scritto per tutta la vita, anche se non ne è del tutto convinto. Sarebbe invece deleterio lasciarlo tornare sulla Terra con un sospetto. Molto meglio dirgli almeno in parte di che cosa si tratta.»

«Ci penserò» disse Hadfield tornando sui propri passi. «Naturalmente molto può dipendere dalla rapidità con cui si attuerà il progetto.»

«Non si sa ancora niente di preciso?»

«No, maledetti loro! Questo è il guaio con gli uomini di scienza, non si riesce mai a cavargli di bocca una data precisa.»

Passarono due innamorati, stretti l’uno all’altro, completamente ignari della loro presenza. Whittaker fece un risolino.

«A proposito» disse, «ho l’impressione che quel giovanotto abbia fatto colpo su Irene. Come si chiama… ah, sì, Spencer.»

«Può darsi. Certo fa piacere vedersi intorno una faccia nuova. E poi i viaggi interspaziali sono molto più romantici del mestiere noioso che siamo costretti a fare noi quassù.»

«A tutte le belle ragazze piacciono i marziani, vero? Be’, non dirmi poi che non ti avevo avvertito!»


Che qualcosa d’insolito fosse accaduto a Jimmy, Gibson lo capì quasi subito, e gli ci volle poco per arrivare alla spiegazione del brusco cambiamento avvenuto nel ragazzo. Approvò in pieno la scelta di Jimmy. Dal poco che aveva potuto capire, Irene doveva essere una gran brava ragazza, molto semplice, il che non guastava, ma soprattutto con un carattere allegro, anche se Gibson l’aveva sorpresa un paio di volte con espressione malinconica. Ma anche questo poteva essere motivo di fascino. Inoltre Irene era estremamente graziosa. Gibson aveva ormai raggiunta l’età in cui si capisce che la bellezza non è sempre essenziale, ma era giusto che a questo proposito Jimmy avesse opinioni diverse.

A tutta prima decise di non parlare della cosa e aspettare che fosse Jimmy a intavolare il discorso. Molto probabilmente il ragazzo s’illudeva ancora che nessuno si fosse accorto di niente. Ma la sua decisione venne meno quando Jimmy gli annunciò che aveva intenzione di cercarsi un’occupazione temporanea a Porto Lowell. In fondo era una cosa abbastanza normale. Gli equipaggi spaziali lo facevano spesso. Tra un viaggio e l’altro gli astronauti si stancavano presto di non avere niente da fare. Mackay, per esempio, aveva già avviato un corso serale di matematica, mentre il povero dottor Scott non aveva più avuto un minuto di respiro dal momento in cui aveva messo piede a Porto Lowell perché l’ospedale locale l’aveva requisito immediatamente per suo uso e consumo.

Ma Jimmy, a quanto sembrava, aveva voglia di cambiare completamente mestiere. Nella sezione contabile erano a corto di personale, spiegò, e lui riteneva che con le sue cognizioni di matematica avrebbe potuto essere d’aiuto. In appoggio alla sua tesi portò un’argomentazione talmente convincente che Gibson lo stette ad ascoltare con vero piacere.

«Mio caro Jimmy» disse, quando il ragazzo ebbe concluso, «perché dici tutto questo proprio a me? Non c’è niente che te lo può impedire, se tu lo desideri veramente.»

«Lo so» rispose Jimmy, «ma voi vedete spesso il maggiore Whittaker, e se gli parlaste questo faciliterebbe molto la cosa.»

«Se proprio ci tieni posso parlarne col Presidente.»

«Oh, no… preferirei…» Jimmy s’interruppe. Poi, cercando di rimediare a quello scatto d’impulsività proseguì: «Non mi sembra il caso di disturbarlo per simili sciocchezze.»

«Senti un po’, Jimmy» disse Gibson, decidendo di andare al punto. «Perché non parli schietto? L’idea è tua, o è stata Irene a mettertela in testa?»

La faccia di Jimmy assunse un’espressione talmente singolare da rivelare in pieno la sua sorpresa.

«Oh» balbettò infine, «non sapevo che sapeste. Ma non lo direte a nessuno, vero?»

Gibson stava per fargli notare che una simile precauzione era assolutamente inutile quando qualcosa nello sguardo del ragazzo lo fece desistere da qualsiasi commento ironico. La ruota aveva finalmente compiuto il suo giro: lui era tornato a quella sua lontana ventunesima primavera. Comprendeva pienamente ciò che Jimmy sentiva in quel momento, e sapeva inoltre che qualsiasi cosa gli avesse riserbato l’avvenire, niente avrebbe uguagliato le emozioni che il ragazzo stava scoprendo ora, e che erano per lui nuove e fresche come lo erano state per il primo uomo nel primo mattino del mondo.

«Te lo prometto» rispose quasi con commozione.

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