Arthur C. Clarke Le sabbie di Marte

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«Dunque è la prima volta che andate lassù!» disse il pilota appoggiandosi pigramente allo schienale del sedile che la sospensione cardanica manteneva in posizione orizzontale.

«Sì» rispose Martin Gibson, senza staccare gli occhi dal cronometro.

«Me l’ero immaginato. Nei vostri libri, infatti, non avete mai raccontato le cose come sono. Il fatto di svenire durante l’accelerazione è tutta una fesseria. Perché mai scrivere certe assurdità? Pregiudicano gli interessi finanziari, non trovate?»

«Scusatemi, ma credo che stiate parlando dei miei primi racconti» disse Gibson. «Allora il volo interplanetario non era ancora cominciato e io ero costretto a servirmi unicamente dell’immaginazione.»

«Uhm» fece il pilota, degnandosi di dare un’occhiata all’orologio. La lancetta dei secondi aveva ancora un giro da compiere. «Se fossi in voi, non mi aggrapperei a quel modo al sedile: è soltanto un impasto di berillio e manganese, e potrebbe piegarsi.»

Gibson lasciò subito la presa e si rilassò. Si rendeva conto di affrontare la situazione in uno stato d’animo per così dire sintetico.

«Certo non sarebbe molto divertente se dovesse durare più di qualche minuto…» riprese il pilota. «Ah, ecco che si mettono in moto le pompe del carburante. Non preoccupatevi quando il timone direzionale comincerà a fare scherzi strani e lasciate che il seggiolino giri come gli pare. Chiudete gli occhi, se questo può aiutarvi. Sentite? I razzi dell’accensione cominciano a miagolare. Ci vogliono circa dieci minuti per acquistare la velocità di fuga, ma a parte un po’ di baccano, non succede mai niente. Basta abituarcisi.»

Ma Martin Gibson non sentiva più niente. Era già scivolato nell’incoscienza sotto l’effetto di un’accelerazione che pure non aveva ancora superato quella normale di un ascensore ultrarapido.

Rinvenne dopo pochi minuti, e a mille chilometri di distanza, vergognandosi terribilmente della brutta figura fatta.

Osservò il pilota, chino sul cruscotto e tutto intento a scrivere sul giornale di bordo. Il silenzio era totale, di tanto in tanto, però, si udivano come detonazioni stranamente soffocate, quasi scoppi in miniatura, che lasciavano Gibson alquanto disorientato. Tossicchiò, con discrezione, per annunciare il proprio ritorno alla coscienza e chiese al pilota che cosa fossero.

«Contrazioni termiche dei motori» fu la secca risposta. «Si sono riscaldati fino cinquemila gradi e adesso si stanno raffreddando a tutta velocità. Come vi sentite? Meglio?»

«Benissimo» rispose Gibson, ed era sincero. «Posso alzarmi?»

Psicologicamente, aveva toccato il fondo ed era rimbalzato alla superficie, ma si trovava in una posizione molto instabile, per quanto non se ne rendesse conto.

Provò una meravigliosa sensazione di euforia. Il momento che aveva tanto atteso era finalmente giunto. Si trovava nello spazio! Era una vera disdetta aver perduto il decollo, ma quando si sarebbe messo a scrivere avrebbe ritoccato abilmente quel punto con chiose e commenti opportuni.

Lontana mille chilometri, la Terra era ancora molto grossa… e offriva uno spettacolo alquanto deludente. Spiegabile, del resto: aveva già visto centinaia e centinaia di fotografie e di film presi da razzi in volo, e così gli era mancata la sorpresa. Notò le inevitabili fasce mobili di nubi nella loro lenta marcia intorno al mondo. Al centro del disco le separazioni tra terra e mare erano nettamente delimitate, e si potevano scorgere anche mille dettagli minuti, ma verso l’orizzonte ogni cosa si perdeva in una fitta foschia. Persino entro il cono di visuale chiarissima che si apriva, luminoso, verticalmente sotto di lui, quasi tutto era sfuocato e perciò privo di senso. Certo un meteorologo si sarebbe abbandonato a trasporti di gioia nel contemplare l’animata massa di vapori che si snodava là in basso, ma la maggior parte dei meteorologi abitava nelle stazioni spaziali, ormai, dalle quali si godeva una vista anche migliore. Gibson si stancò presto di frugare con gli occhi in cerca di città e altre opere dell’uomo. Era umiliante constatare come tanti millenni di civiltà non avessero prodotto alcun mutamento degno di rilievo nel panorama sottostante.

Di lì a poco si mise a cercare le stelle, ma provò una seconda delusione. Certo ce n’erano a centinaia, ma pallide e come spente, smorti fantasmi delle accecanti miriadi che lui si era aspettato di vedere. La colpa era da imputare al vetro scuro del finestrino: volendo attenuare la luce del sole avevano derubato le stelle de! loro fulgore.

Si sentì vagamente indispettito. Una cosa soltanto si era svolta secondo le sue previsione. La sensazione di essere sospeso a mezz’aria, di potersi sospingere da una parete all’altra col semplice impulso di un dito, questo, sì, era meraviglioso come lui aveva immaginato, benché lo spazio fosse un po’ troppo angusto per tentare esperienze audaci. Adesso che erano state scoperte sostanze nuove che neutralizzavano gli organi preposti al senso dell’equilibrio, e la nausea spaziale era diventata solo un vago ricordo del passato, la mancanza di peso costituiva uno stato fisico delizioso, fatato. Ne fu molto contento. Come avevano sofferto, i suoi eroi!


«Molto strano» osservò in tono di sorpresa l’ufficiale medico, mentre lo scrittore, ormai completamente riavutosi, veniva sospinto attraverso il compartimento stagno. «Ha passato magnificamente tutti gli esami e tutte le prove fisiche, e certamente gli avranno fatte le solite iniezioni, prima di lasciare la Terra. Dev’essere un fatto psicosomatico.»

«I motivi non mi importano» disse, seccatissimo, il pilota, mentre accompagnava il corteo sino al cuore della stazione spaziale numero uno. «Mi interessa una cosa sola: chi ripulirà la mia carretta

Nessuno parve disposto a rispondere alla domanda che pure era stata espressa con tanto calore, e meno di tutti Martin Gibson, il quale era solo vagamente consapevole di uno scivolare di bianche pareti nel suo campo visivo. Subentrò quindi in lui, lentamente, una sensazione di aumento di peso, mentre un tepore carezzevole gli invadeva pian piano le membra. Infine prese pienamente conoscenza di ciò che lo circondava. Si trovava in una corsia d’ospedale, e una batteria di lampade infrarosse lo stava immergendo in un calore calmante che attraverso la pelle gli penetrava sin dentro le ossa.

«Come va?» chiese il medico.

Gibson sorrise debolmente.

«Mi dispiace per quello che è successo. Credete che potrà ripetersi?»

«Non so nemmeno come possa essere successo questa volta. È assolutamente insolito. Si ritiene che i rimedi usati ora siano infallibili.»

«Credo che sia tutta colpa mia» si scusò Gibson. «Vedete, io posseggo un’immaginazione fortissima, e mi ero messo a pensare ai sintomi della nausea spaziale…»

«Allora vi prego di non riprovarci» lo interruppe brusco il medico, «altrimenti saremo costretti a rispedirvi diritto filato sulla Terra. Non si possono tentare questi scherzi, quando si va su Marte. Resterebbe ben poco di voi, in capo a tre mesi!»

La stazione interna, stazione spaziale numero uno, come veniva solitamente chiamata, era situata esattamente a duemila chilometri dalla Terra, e compiva il giro del pianeta ogni due ore. Era stato il primo gradino costruito dall’uomo verso la conquista delle stelle, e benché ormai non fosse più tecnicamente necessaria al volo spaziale, la sua esistenza aveva ancora grande importanza per l’economia dei viaggi interplanetari. Tutte le partenze per la Luna o i pianeti avevano inizio da lì. Le goffe navi nucleari galleggiavano attorno a questo avamposto terrestre, mentre i carichi provenienti dalla madreterra venivano stipati nelle stive. Un servizio di traghetto con razzi a propulsione chimica collegava la stazione al pianeta sottostante, perché per legge nessun mezzo azionato da energia atomica poteva circolare a meno di mille chilometri dalla superficie terrestre. E molti ritenevano che anche questo margine di sicurezza fosse insufficiente.

La stazione spaziale numero uno si era talmente ingrandita col passare degli anni che i suoi primi ideatori non l’avrebbero certo riconosciuta. Intorno al nucleo centrale sferico erano sorti osservatori, laboratori per le comunicazioni, dotati di una fantastica rete di antenne, e veri labirinti di sezioni scientifiche di cui soltanto un esperto avrebbe saputo specificare il significato e l’uso. Ma nonostante tutte le aggiunte la funzione principale di questa luna artificiale consisteva tuttora nel rifornimento delle astronavi con le quali l’uomo sfidava la solitudine sterminata del sistema solare.

«Siete proprio sicuro di stare bene, adesso?» chiese il medico, mentre Gibson non osava ancora muoversi con disinvoltura.

«Mi sembra di sì» rispose Gibson, timoroso di compromettersi.

«Il polso risulta normale» borbottò l’ufficiale medico, come se la cosa gli seccasse. «Adesso vi porteremo nella stanza a gravità zero. Limitatevi a seguirmi e non stupitevi di quello che vi può capitare.»

Dopo questo avvertimento vago, precedette Gibson lungo un ampio corridoio illuminato intensamente che pareva incurvarsi all’insù alle due estremità. Gibson non ebbe il tempo di esaminare più a fondo il corridoio perché il medico aprì una porta laterale scorrevole e si avviò su per una rampa di gradini metallici. Gibson lo seguì automaticamente ma tutto a un tratto si avvide di quanto succedeva dinanzi a lui e si fermò lanciando involontariamente un grido di sorpresa.

Proprio sotto i suoi piedi l’inclinazione della scala era di quarantacinque gradi, ma subito diventava molto più rapida sino a che, dodici metri più in là, si alzava letteralmente in linea verticale. Poi, ed era uno spettacolo che avrebbe emozionato chiunque l’avesse visto per la prima volta, l’aumento del gradiente proseguiva inesorabile finché i gradini cominciavano a penderti sulla testa per scomparire finalmente alla vista al di sopra di te.

Nell’udire l’esclamazione di Gibson il medico si voltò a guardare, poi scoppiò in una risata.

«Non sempre bisogna credere ai propri occhi» spiegò. «Tenetemi dietro e vedrete che non è difficile.»

Gibson obbedì, e mentre avanzava si rese conto del verificarsi di due fenomeni assai caratteristici. Prima di tutto stava diventando gradualmente sempre più leggero, in secondo luogo, nonostante l’evidente irripidimento della scala, l’inclinazione sotto di lui restava costantemente di quarantacinque gradi. La direzione verticale infatti s’inclinava lentamente a mano a mano che lui procedeva, di modo che, malgrado la crescente curvatura, il gradiente di pendenza della scala non mutava mai. A Gibson non ci volle molto per giungere alla spiegazione di questo fenomeno. La gravità apparente era dovuta alla forza centrifuga prodotta dal lento roteare della stazione attorno al proprio asse, e a mano a mano che ci si avvicinava al centro la forza tendeva a zero. Anche la scala stessa si snodava internamente verso l’asse lungo una specie di spirale (una volta forse avrebbe saputo dirne il valore matematico) di modo che, nonostante il campo di gravità radiale, l’inclinazione sottostante rimaneva inalterata. Era un fenomeno al quale chi abitava nelle stazioni spaziali si abituava in fretta.

Al termine della scala non c’era più una sensazione precisa di su e giù. Adesso erano in una lunga stanza cilindrica, tutta attraversata da corde ma per il resto vuota; in fondo un fascio di luce solare entrava fiammeggiando da un finestrino d’osservazione. Sotto lo sguardo sorpreso di Gibson la spera luminosa si mosse rapida lungo le pareti di metallo, simile a un riflettore mobile, scomparve per un attimo, per ricomparire subito accecante a un altro finestrino. Era il primo indice, fornitogli dai suoi sensi, del fatto che la stazione ruotava effettivamente sul proprio asse. Calcolò il tempo impiegato dal fascio di luce solare a tornare nella propria posizione iniziale. Il giorno di quel minuscolo mondo artificiale durava meno di dieci secondi: il che era sufficiente a dare una sensazione di gravità normale in prossimità delle sue pareti esterne.

«Adesso vi lascerò qui per un po’» disse il medico. «Ci sono un sacco di cose da vedere. Ne sarete soddisfatto.»

Parzialmente nascosta dalla massa della stazione, la Terra era una grande falce che attraversava metà firmamento. Andava lentamente aumentando di mole a mano a mano che la stazione sfrecciava lungo la sua orbita: in capo a quaranta minuti circa la vista sarebbe stata piena, per diventare un’ora dopo assolutamente nulla, grande scudo nero che eclissava il Sole, mentre la stazione passava attraverso il suo cono di ombra. La Terra subiva tutte queste fasi, da nuova a piena e inversamente, nello spazio di due ore esatte. Il senso del tempo si deformava totalmente a questo pensiero.

A circa un chilometro dalla stazione, in movimento sincrono lungo la sua orbita ma in quel momento preciso non collegate ad essa in alcun modo, volteggiavano le tre astronavi che attualmente si trovavano in bacino. La prima era il minuscolo razzo a punta di freccia che un’ora prima aveva trasportato Gibson su dalla Terra con tanta sofferenza e disagio. La seconda era un mercantile diretto alla Luna. Doveva stazzare circa mille tonnellate lorde, calcolò Gibson. E la terza naturalmente era l’Ares, abbagliante nello splendore del suo rivestimento di alluminio verniciato di fresco.

Gibson non si era mai rassegnato al sacrificio delle aerodinamiche astronavi che erano state il miraggio dei primi anni del ventesimo secolo. Quello scintillante attrezzo ginnico, formato da due sfere unite da una sbarra, a forma di manubrio, non era il suo concetto di transatlantico spaziale, e anche se il mondo l’aveva accettato, lui ancora non ci si era abituato. Ne conosceva naturalmente le note giustificazioni: non occorreva una linea aerodinamica a un mezzo che non doveva entrare mai in nessuna atmosfera, e la forma quindi era suggerita da considerazioni di carattere puramente funzionale ed energetico. Poiché il congegno di propulsione potentemente radioattivo doveva essere situato il più lontano possibile dagli alloggiamenti dell’equipaggio, la doppia sfera e il lungo tubo di collegamento erano la soluzione più semplice.

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