Samia di Fife era piccolissima di statura, ma tutta la sua minuta persona era in uno stato di esasperazione vibrante. Passeggiava nervosamente per la stanza. Disse: «Oh, no! Non può farmi questo. Capitano!»
La sua voce era imperiosa e piena di autorità. Il Comandante Racety si piegò alla tempesta. «Mia Signora!»
Samia disse: «Non mi si può comandare così a bacchetta. Voglio restare qui.»
Il Comandante rispose cautamente: «Cerchi di capire, Mia Signora, che io eseguo solo gli ordini che mi sono stati impartiti. Nessuno ha chiesto il mio parere.»
La donna ripeté per la terza volta esattamente le stesse parole: «I suoi ordini non m’interessano.»
Si allontanò quindi risolutamente da lui facendo risuonare i tacchi.
Il Comandante le tenne dietro, e disse con voce umile: «Gli ordini che ho ricevuto mi ingiungono, nel caso che lei si rifiutasse di seguirmi, di… trasportarla di peso sulla nave.»
Samia si voltò di scatto. «Non oserà mai farlo!»
Il Comandante rispose: «Se penso a chi m’ha dato quest’ordine, oserei ogni cosa.»
Samia allora mutò tattica; tentò con le arti sottili della civetteria femminile: «Ma, Comandante, non può esserci un pericolo vero. È assurdo il solo pensarlo. La Città è tranquillissima. Tanto chiasso per un pattugliatore assalito ieri pomeriggio nella biblioteca. Francamente!»
«Un altro pattugliatore è stato ucciso oggi all’alba.»
Quella notizia la scosse, ma la sua pelle color oliva s’incupì ancor più, e i suoi occhi neri fiammeggiarono: «Che cosa c’entra tutto questo con me? Io non solo un pattugliatore.»
«Mia Signora, la nave è già quasi pronta e partirà tra poco, ma non senza di lei».
«E il mio lavoro? Le mie ricerche? Non capisce… no, non può capire.»
Il Comandante tacque. La Dama si era scostata da lui. La sua veste scintillante di kyrt color del rame, striata di filamenti di argento lattiginoso, metteva in risalto la straordinaria perfezione delle sue spalle e delle sue braccia. Il capitano Racety la guardò con qualcosa di più della semplice cortesia e dell’umile obiettività che un modesto sarkita doveva a una così gran Dama, e si chiese come mai una creaturina così squisita si ostinasse a sprecare il proprio tempo scimmiottando le ricerche erudite dei vecchi barbogi universitari.
Samia sapeva perfettamente che il suo amore del sapere la rendeva oggetto di bonaria derisione da parte di quelli che erano abituati a giudicare le aristocratiche Dame di Sark come unicamente dedite alle frivolezze della società elegante. Ma a lei la cosa non importava affatto.
Quella sua passione era cominciata sin da quando era una ragazzina, perché era sempre stata innamorata del kyrt, mentre la maggior parte della gente lo accettava come una cosa acquisita e sottintesa. Il kyrt! Il re, l’imperatore, il dio dei tessuti. Non esisteva metafora abbastanza efficace per descriverlo.
Chimicamente non era altro che una varietà di cellulosa. Così giuravano i chimici. Tuttavia, nonostante tutti i loro strumenti e le loro teorie, non erano mai ancora riusciti a spiegare perché su Florina soltanto, in tutta la Galassia, la cellulosa si trasformasse in kyrt. Era una questione di stato fisico, rispondevano. Ma se si chiedeva loro di spiegare in modo esatto in quale modo lo stato fisico variasse da quello della cellulosa normale ammutolivano.
Naturalmente il kyrt non brillava di per sé ma, filato nel giusto modo, scintillava metallicamente nel sole con una grande varietà di colori o meglio assommando in sé tutti i colori. Trattato in modo diverso il suo filato acquistava un luccichio di diamante. Con poco costo lo si poteva rendere resistente al calore di 600 gradi centigradi, e completamente inattaccabile da quasi tutte le sostanze chimiche. Le sue fibre potevano essere filate ancora più finemente delle più delicate fibre sintetiche e quelle stesse fibre avevano una resistenza alla sollecitazione di trazione che nessuna lega d’acciaio riusciva a uguagliare.
Poteva essere destinato a usi diversi, era più versatile di qualsiasi altra sostanza nota all’uomo. Se non fosse stato tanto costoso lo si sarebbe potuto usare per sostituire il vetro, il metallo o la plastica in una infinità di applicazioni industriali. Per il momento era il solo materiale usato nella costruzione delle lenti prismatiche, serviva a fabbricare gli stampi destinati alla fusione degli idrocarburi usati nei motori iperatomici, e costituiva la base di impalcature eterne, leggerissime là dove il metallo era troppo friabile o troppo pesante o l’uno e l’altro insieme.
Attualmente il raccolto del kyrt di Florina entrava nella fabbricazione dei tessuti destinati ai più favolosi capi di abbigliamento di tutta la storia galattica. Florina vestiva l’aristocrazia di un milione di mondi, e il raccolto del kyrt di un unico pianeta, di Florina, per l’appunto, doveva essere filato così fine e sottile proprio per questo. Venti donne su un mondo potevano essere completamente vestite di kyrt, duemila forse potevano vantarne un capo, o al massimo un paio di guanti. Altri venti milioni di donne stavano a guardare da lontano e inghiottivano saliva.
Quando Samia era divenuta più grande si era recata da suo padre.
«Che cos’è il kyrt, papà?»
«È il tuo pane e companatico, Mia.»
«Il mio?»
«Non proprio il tuo soltanto, Mia. È il pane e il companatico di Sark.»
Naturalmente! Non aveva tardato a impararne il motivo. Non c’era un solo mondo della Galassia che non avesse tentato di coltivare il kyrt sul proprio suolo. A tutta prima Sark aveva applicato la pena di morte a chiunque, indigeno o forestiero, fosse stato sorpreso a contrabbandare fuori del pianeta sementi di kyrt. Ciò non aveva impedito molte riuscite evasioni, ma col passare dei secoli, quando la verità era finalmente trapelata su Sark, quella legge era stata abrogata. Gli uomini di ogni parte della Galassia potevano comprarsi tranquillamente sementi di kyrt perché era stato appurato che il kyrt coltivato in qualsiasi altro mondo della Galassia che non fosse Florina era semplicemente cellulosa, bianca, flaccida, fragile e inutile.
Tutto era stato tentato. Erano stati prelevati campioni dell’“humus” floriniano. Erano state costruite lampade ad arco artificiali che riproducevano lo spettro noto del sole di Florina. Ma invano.
Quante cose ancora vi erano da dire sul kyrt che non erano mai state dette! Si trattava di materiale che non era contenuto né nelle relazioni tecniche, né nelle monografie degli studiosi, e neppure nei libri di viaggi. Da cinque anni Samia sognava di scrivere un libro vero sulla storia del kyrt, sulla terra dove cresceva e sul popolo che lo coltivava. Aveva insistito per recarsi su Florina. Aveva deciso di trascorrere una stagione nei campi e vari mesi negli opifici. Aveva deciso di…
Ma che importavano le sue decisioni ormai? Le era stato ordinato di tornare indietro.
Con l’impulsività improvvisa che contrassegnava ogni suo gesto mutò a un tratto parere. Avrebbe proseguito la sua lotta su Sark e promise solennemente a se stessa che sarebbe ritornata su Florina entro una settimana al massimo.
Si volse al Comandante, e chiese con voce impersonale, distante: «A che ora si parte, capitano?»
Samia rimase al portello di osservazione sino a quando Florina fu un globo visibile. Era un mondo verde, primaverile, assai più piacevole di Sark in quanto al clima. Era stata così impaziente di studiarne gli indigeni. I floriniani di Sark non le piacevano, erano uomini senza linfa che non osavano guardarla ma distoglievano il capo al suo passaggio, in conformità alla legge. A detta di tutti però nel loro mondo gli indigeni erano felici e senza pensieri.
Il Comandante Racety interruppe il corso delle sue meditazioni chiedendole: «Mia Signora, le spiacerebbe ritirarsi nella sua cabina?»
Samia lo fissò bruscamente, mentre una sottile ruga verticale le si disegnava tra le ciglia. «Quali nuovi ordini ha ricevuto, Comandante? Sono forse prigioniera?»
«Non lo pensi nemmeno, per carità! Si tratta di una semplice precauzione. L’aeroporto spaziale era stranamente vuoto, prima del decollo. Sembra che sia stato commesso un altro crimine, ancora una volta a opera di un floriniano, e che il contingente dell’aeroporto si sia unito ai pattugliatori in una caccia all’uomo attraverso la Città.»
«E quale rapporto avrebbe, questo, con la mia persona?»
«Date le circostanze, alle quali io avrei dovuto reagire pensando a disporre una mia guardia personale (non intendo affatto di minimizzare il mio errore), può darsi che persone non autorizzate siano salite a bordo della nave.»
«Per quale ragione?»
«Questo non saprei dirglielo, ma certamente non per farci cosa gradita.»
«Lei sta fantasticando, Comandante.»
«Temo di no, Mia Signora. Ho l’impressione che ci sia una radiazione di calore in eccesso ben definita, proveniente dal Magazzino di Emergenza.»
«Dice sul serio?»
La faccia magra, inespressiva del Comandante parve animarsi per un attimo, ma subito tornò impassibile, e l’ufficiale disse: «La radiazione equivale a quella che verrebbe trasmessa da due persone normali. Noi comunque siamo pronti a eseguire le dovute ricerche. Perciò le chiedo soltanto di avere la compiacenza di ritirarsi in camera sua.»
Samia chinò la testa in silenzio e uscì. Due minuti dopo la voce calma del Comandante ordinava attraverso il portavoce: «Irrompere nel Magazzino di Emergenza.»
Se Myrlyn Terens si fosse anche di poco lasciato andare, sarebbe caduto in una crisi isterica. Ci aveva messo un po’ troppo tempo a ritornare nella panetteria. Gli altri già ne erano usciti e solo per un puro caso fortunato li aveva incontrati nella strada. Le sue azioni successive gli erano state imposte; non aveva affatto operato di sua libera scelta, e il Fornaio giaceva morto davanti a lui, orribile a vedersi.
In seguito, con la folla che mulinava, con Rik e Valona che ne erano stati risucchiati, con le aerovetture dei pattugliatori, dei pattugliatori veri, che incominciavano a planare come altrettanti avvoltoi, che cosa poteva fare?
La sua sola speranza di salvezza consisteva nell’organizzazione stessa dei pattugliatori. Per generazioni costoro avevano trascorso un’esistenza invidiabile. Comunque su Florina almeno non si verificavano rivolte vere e proprie da oltre due secoli. I pattugliatori mancavano perciò di quell’esercizio del mestiere che si sarebbe altrimenti affinato in condizioni più difficili.
Gli era stato così possibile entrare all’alba in un posto di pattuglia, dove certamente già doveva essere giunta la descrizione dei suoi dati segnaletici, descrizione che evidentemente non era stata presa in grande considerazione. Il pattugliatore di guardia aveva chiesto a Terens che cosa volesse e Terens l’aveva stordito e si era impadronito delle sue armi e dei suoi abiti.
Per il momento era ancora libero e la rugginosa macchina della giustizia dei pattugliatori sino a quel momento lo inseguiva invano. Ritornò alla panetteria. L’aiuto anziano del Fornaio, il quale si era affacciato sulla soglia nell’inutile tentativo di capire le origini del tumulto, si fece piccolo alla vista dell’uniforme nero-argentea, simbolo della pattuglia, e si ritrasse nel negozio.
Ma il Borgomastro gli fu sopra, afferrò il disgraziato per il collo flaccido, e sibilò: «Dov’era diretto il Fornaio?»
«La prego, la prego, io non so niente, Signore!»
«Se non mi dici dove stava andando, ti ammazzo come un cane.»
«Ma non me l’ha detto, Signore! Aveva prenotato dei posti.»
«Ah, sì? Se sai questo saprai anche il resto. Parla!»
«Mi pare che avesse nominato Wotex. Credo che avesse prenotato dei posti su un’astronave.»
Terens diede una spinta al disgraziato che cadde a terra come un sacco vuoto.
Poteva immaginare quel che avrebbero fatto i suoi compagni. Naturalmente di Rik non si poteva fidare, ma Valona era una ragazza intelligente. Dal modo come li aveva veduti fuggire dovevano averlo scambiato per un pattugliatore vero, e Valona doveva sicuramente pensare che la loro sola salvezza consisteva nel proseguire la fuga che il Fornaio aveva iniziata per conto loro.
Doveva precederli.
Così disperata era la sua situazione che nient’altro importava. Se Terens perdeva Rik, se perdeva quell’arma potenziale contro i tiranni di Sark, la sua vita diventava una cosa trascurabile, senza valore.
Perciò quando se ne andò lo fece senza esitazioni, benché fosse di pieno giorno, benché i pattugliatori dovessero ormai sapere che l’uomo che cercavano vestiva la loro uniforme, e sebbene fossero già visibili a poca distanza due aerovetture. Terens sapeva a quale astroporto dirigersi. Sul pianeta ve n’era uno solo di quel tipo. Nella Città Alta ve n’erano almeno una dozzina, assai più piccoli, destinati agli astro-panfili di uso privato e ce n’erano parecchie centinaia disseminati un po’ ovunque sul pianeta e adibiti esclusivamente al movimento degli sgraziati mezzi da carico che trasportavano su Sark enormi balle di tessuto di kyrt e ne riportavano macchinari e semplici merci di consumo. Ma tra tutti questi vi era un solo astroporto a uso dei viaggiatori normali, dei sarkiti meno abbienti, dei funzionari amministrativi floriniani e dei pochi forestieri che riuscivano a ottenere il permesso di visitare Florina.
Il floriniano addetto al cancello d’ingresso dell’astroporto osservò l’avvicinarsi di Terens col più vivo interesse.
Terens chiese con voce brusca, imperiosa: «Due persone, un uomo e una donna, sono venute qui poco fa, dirette a Wotex?»
Il guardiano lo guardò sbalordito. Rimase per un attimo senza fiato, quindi in tono assai dimesso disse: «Sì, Ufficiale. Circa mezz’ora fa. Forse meno.»
«Che nomi hanno dato?»
«Gareth e Hansa Barne.»
«La loro nave è già partita? Su, parla!»
«N…no, Signore.»
«Dov’è ancorata?»
«Al numero diciassette.»
Un trasvolatore spaziale in uniforme da ufficiale era fermo davanti alla camera di decompressione centrale della nave.
Terens chiese ansante: «Sono saliti a bordo di questa nave due passeggeri rispondenti al nome di Gareth e Hansa Barne?»
«No» rispose, flemmatico, lo spaziale. Era sarkita e per lui un pattugliatore non era che un altro uomo in uniforme.
Terens si allontanò senza altre parole.
Tornato dal guardiano, domandò: «Sono usciti?»
«No, Signore, che io sappia.»
«Quali altre uscite ci sono?»
«Non ce ne sono altre, Signore. Questa è la sola.»
«Cercameli immediatamente, imbecille!»
Il guardiano prese in mano il portavoce di comunicazione in preda a un panico indescrivibile. Poco dopo tornava a posare il tubo, mormorando: «Nessuno è uscito, Signore.»
Terens chese: «Ma nessuna nave ha lasciato l’astroporto da quando quei due sono entrati?»
Dopo aver consultato l’orario, il guardiano rispose: «Oh, sì! Il transplanetario “Coraggio” che è in viaggio speciale per Sark per riportarvi la Dama Samia di Fife.»
Terens ritornò lentamente sui suoi passi. Una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per improbabile che sia, non può che essere la verità. Rik e Valona erano entrati nell’astroporto. Non erano stati arrestati perché in caso contrario il guardiano l’avrebbe certamente saputo. Non stavano aggirandosi per l’astroporto, altrimenti a quell’ora già sarebbero stati acciuffati. Non si trovavano sulla nave per la quale erano stati provvisti di biglietto. Non avevano lasciato il campo, il solo oggetto che avesse lasciato il campo era il “Coraggio”. Pertanto Rik e Valona si trovavano a bordo di quest’ultimo, forse come prigionieri, forse come clandestini.
Ma d’altronde i due termini si equivalevano. Se si erano imbarcati come clandestini non avrebbero tardato a divenire prigionieri. E tra tutte avevano scelto proprio la nave che trasportava la figlia del Signore di Fife.
Il signore di Fife!