Non capitava spesso alla Dama Samia di Fife di sentirsi umiliata, ed era senza precedenti, e addirittura inconcepibile, che lei si sentisse umiliata da molte ore, ormai.
Il Comandante dell’astroporto si stava comportando tale e quale come il capitano Racety. Alla fine lei si vide costretta più che a impartire degli ordini a reclamare dei diritti come una sarkita qualsiasi. Disse: «Immagino che come cittadina avrò il diritto di attendere una qualsiasi nave in arrivo se questo mi va.»
Il Comandante si schiarì la voce, e l’espressione di rincrescimento che gli alterava la faccia rugosa divenne ancora più intensa. Infine disse: «Per essere esatti, Signora, non abbiamo alcun desiderio di tenerla lontana. Solo che abbiamo ricevuto ordini specifici dal Signore suo padre d’impedirle di accostarsi alla nave.»
Samia chiese con voce gelida: «In poche parole mi sta ordinando di lasciare il porto?»
«No, Signora.» Il Comandante era felice di poter giungere a un compromesso. «Non abbiamo ricevuto l’ordine di allontanarla dal porto. Se desidera rimanere può farlo. Ma, con tutto il dovuto rispetto, dovremo impedirle di avvicinarsi alle rampe.»
Dopodiché scomparve, e Samia restò chiusa nel futile lusso della sua vettura aeroterrestre privata, a trenta metri dall’ingresso più periferico del porto. L’avevano aspettata e ora la stavano sorvegliando, e probabilmente avrebbero continuato a sorvegliarla. Se avesse fatto tanto da mandare avanti una sola ruota, pensò con sdegno, quasi certamente le avrebbero bloccato la macchina.
Strinse i denti. Non era giusto che suo padre la trattasse a quel modo. Era sempre la stessa storia. Tutti la trattavano come se lei non capisse nulla. Eppure aveva avuto l’impressione che suo padre almeno l’avesse compresa.
Si era alzato dal suo scanno per venirle incontro. L’aveva baciata e abbracciata, aveva per lei interrotto il suo lavoro.
Le aveva detto: «Mia piccola, ho contato le ore. Non avrei mai immaginato che il viaggio da Florina a qui fosse così lungo. Quando ho saputo che quegli indigeni si erano nascosti sulla tua nave non so come non sono impazzito per l’angoscia.»
«Ma papà! Non era il caso che tu ti preoccupassi.» Aveva chiesto poi con tono di finta indifferenza: «Che cosa farai di quei due clandestini, papà?»
«Perché vuoi saperlo, Mia?»
«Non credi che abbiano in mente di assassinarti, vero?»
Fife sorrise: «Ma certamente no.»
«Bene! Perché io ho parlato con loro, papà, e non credo nel modo più assoluto che possano essere delle creature pericolose come vorrebbe far credere il capitano Racety.»
«E come vorresti che li trattassi?»
«Prima di tutto, l’uomo non è un indigeno; proviene da un pianeta che si chiama Terra, è stato sottoposto a sondaggio psichico e non è responsabile.»
«Be’, di questo si occuperà il Ministero degli Interni. Lascia fare a loro.»
«No, è cosa troppo importante perché altri se ne occupino. Non capirebbero. Nessuno ne capisce niente, tranne me!»
«Davvero, Mia?» aveva domandato Fife in tono indulgente.
Samia aveva ripetuto con energia: «Sì, sì, è così! Chiunque altro crederà che quell’uomo è pazzo, ma io sono sicura che non lo è. Lui sostiene che un pericolo gravissimo incombe su Florina e su tutta la Galassia. È uno Spazio Analista, e tu sai che quella gente è specializzata in cosmogonia. Perciò non può sbagliarsi.»
«Come sai che è uno Spazio-Analista, Mia?»
«Lo dice lui.»
«E in che cosa consisterebbe, esattamente, questo pericolo?»
«Non lo sa. È stato sondato psichicamente. Non capisci che questa è la prova più evidente? Sapeva troppe cose. Qualcuno aveva interesse a impedirgli di parlare. Non capisci che se le sue teorie fossero state false non vi sarebbe stato alcun bisogno di psicosondarlo?»
«Perché non l’hanno ammazzato, allora?»
Samia aveva pensato per un attimo, senza esito, quindi aveva risposto: «Se tu darai ordine al Ministero degli Interni di lasciare che gli parli, riuscirò a saperlo. Quell’uomo ha fiducia in me. Ne sono sicura. Riuscirò certamente a ottenere più io da lui che non tutti gli Interni riuniti. Ti prego, papà, di’ agli Interni che me lo lascino vedere. È molto importante.»
Fife aveva sorriso. «Abbi pazienza, Mia. Non è ancora venuto il momento. Tra poche ore avremo in mano nostra anche il terzo personaggio. Dopo, forse.»
«Il terzo personaggio? Sarebbe per caso l’indigeno che ha ammazzato tutta quella gente?»
«Appunto. La nave che lo trasporta atterrerà tra un’ora circa.»
«E mi prometti che sino a quel momento non prenderai nessuna misura contro la ragazza indigena e lo Spazio-Analista?»
«Te lo prometto.»
«Molto bene! Vado subito incontro alla nave.» Così dicendo si era alzata.
«Dove vai, Mia?»
«Al porto, papà. Ho molte cose da chiedere a quell’indigeno.»
Ma Fife aveva detto con voce grave: «Preferirei che tu non ci andassi.»
«E perché no?»
«È importantissimo che l’arrivo di quest’uomo si svolga nel modo più discreto, mentre la tua presenza al porto farebbe troppo spicco.»
«Ma perché?»
«Non posso spiegare a te la ragion di Stato, Mia.»
«Quante storie!» Si piegò verso di lui, gli diede un rapido bacio in mezzo alla fronte e scomparve.
Ed ecco che adesso era costretta a sedere quasi prigioniera nella propria macchina, in prossimità del porto, mentre in lontananza un puntolino nel cielo, scuro contro la luminosità del pomeriggio inoltrato, si andava rapidamente ingrossando.
Premette il pulsante che apriva lo scomparto-armadio e ne tolse un paio di lenti polarizzate.
Perlomeno ne avrebbe veduti i passeggeri quando fossero sbarcati, li avrebbe studiati in lontananza, avrebbe fatto in modo di fissare un colloquio con loro in seguito.
Sark riempiva il visischermo. Un continente e un mezzo oceano, parzialmente oscurati da una fitta coltre di nubi, si stendevano in basso.
Genro disse: «L’astroporto non sarà molto sorvegliato. Sono stato io stesso a chiederlo. Ho suggerito che un insolito spiegamento di forze all’arrivo della nave avrebbe potuto mettere Trantor sul chi va là. Mi servirò della fossa di atterraggio che si trova in prossimità della Porta Orientale. Tu uscirai dall’uscita di sicurezza di poppa non appena io atterrerò. Dirigiti in fretta, ma senza correre, verso quella porta. Ho dei documenti che possono permetterti di passare senza noie, ma lascio a te di agire se incontrassi degli ostacoli. Appena fuori del cancello troverai una macchina pronta che ti starà aspettando per portarti all’Ambasciata. Questo è tutto.»
«E tu?»
Genro rispose con un sorriso freddo, senza gioia: «Tu preoccupati di te stesso e basta. Quando si accorgeranno che sei scomparso può darsi che mi fucilino come traditore. Se tuttavia mi ritroveranno in stato di incapacità fisica a impedirti la fuga, posso sperare che si limitino a radiarmi come imbecille. Penso che quest’ultima soluzione sia preferibile, e perciò ti prego, prima di andartene, di usare su di me una frusta neuronica.»
Il Borgomastro disse: «Lo sai cosa significa?»
«Certo.» Lievi gocce di sudore gli bagnavano le tempie.
«Come puoi essere sicuro che io non ti faccia fuori, dopotutto? Lo sai che sono un ammazza-Signori.»
«Lo so» disse Genro. «Ma ammazzandomi non faresti nulla di positivo. Ti servirebbe solo a sprecare del tempo prezioso. Ho corso rischi anche peggiori. Voglio sperare che tu non ti metta in testa di agire per conto tuo. Sark non è il posto adatto per iniziative individuali. Si tratta di scegliere tra Trantor o i Signori. Ricordatelo. Se Trantor non ti avrà in capo a un’ora, cadrai nelle mani dei Signori prima di sera. Non ti posso garantire quel che ti farà Trantor, ma posso garantirti quel che ti farà Sark.»
Il porto appariva ora visibilissimo sul visischermo, ma Genro non lo guardava più. Si occupava unicamente degli strumenti, preparandosi alla manovra di atterraggio. La nave si volse lentamente nell’aria, a un miglio di altezza, e si librò a coda in giù.
Genro disse: «Prendi la frusta. Svelto. Ogni secondo è essenziale. La camera di emergenza si chiuderà alle tue spalle. Passeranno cinque minuti prima che si chiedano come mai non apro la camera centrale, altri cinque perché facciano irruzione qui dentro, e ancora altri cinque perché ti trovino. Hai quindici minuti in tutto per uscire dal porto e salire sulla macchina»
Il panfilo s’inclinò maestosamente e piano piano si coricò su un fianco.
Genro disse: «Muoviti!» Aveva l’uniforme bagnata di sudore.
Terens avvertì immediatamente l’aria frizzante dell’autunno sarkita. I giorni che aveva spesi nell’Amministrazione Civile gli tornarono bruscamente alla memoria come se non si fosse mai allontanato da quel mondo di Signori.
Solo che adesso era un fuggiasco, marcato a fuoco dal più nero dei delitti, l’omicidio di un Signore.
Cercava di soffocare nel rumore dei propri passi il battito greve del suo cuore. Si era lasciato alle spalle la nave e in essa Genro irrigidito nell’agonia della frusta.
Lo avevano veduto uscire dalla nave?
Certamente no, altrimenti a quest’ora l’inseguimento avrebbe già avuto inizio.
Si portò rapidamente una mano al berretto che aveva tuttora calcato sino alle orecchie, e il medaglioncino che vi era ora attaccato gli parve stranamente liscio, sotto il contatto delle sue dita. Genro aveva detto che gli sarebbe servito come documento di identificazione. Gli uomini di Trantor ne avrebbero veduto il luccichio nel sole. Odiava e temeva Trantor, ma sapeva che in ogni caso non poteva e non doveva assolutamente cadere in mano a Sark.
«Ehi! Laggiù!»
Terens s’irrigidì. Alzò la testa spaventato. L’uscita era ancora parecchio lontana. Se si fosse messo a correre… ma non avrebbero mai lasciato uscire un uomo di corsa.
La giovane donna era sporta dal finestrino di una macchina quale Terens non aveva mai veduta, neppure in tutti i quindici anni in cui era rimasto su Sark. Scintillava metallica in un barbaglio di gemmite translucida.
La donna disse: «Venga qui.»
Terens si avvicinò lentamente alla vettura. Genro gli aveva detto che all’uscita dal porto avrebbe trovato ad aspettarlo una macchina di Trantor. Ma come mai avevano mandato una donna per un simile incarico? Una ragazza, anzi, per essere più esatti. Una ragazza bruna, bellissima.
La sconosciuta disse: «È arrivato con la nave che ha atterrato poco fa, vero?»
Terens non rispose.
La sconosciuta si spazientì. «Andiamo, l’ho vista mentre lasciava la nave!»
Terens mormorò: «Sì, sì».
«Salga, dunque.»
Gli aveva aperto lo sportello.
«Fa parte dell’equipaggio?» gli domandò.
Lo stava mettendo alla prova, evidentemente. Terens rispose: «Sa benissimo chi sono» e alzò meccanicamente una mano a indicare il medaglione.
Silenziosamente la macchina fece marcia indietro e girò.
Al cancello Terens si ritrasse, rannicchiandosi sul morbido sedile ricoperto di kyrt, ma fu una precauzione inutile. La ragazza disse con voce imperiosa, perentoria: «Quest’uomo è con me. Io sono Samia di Fife.»
Ci vollero parecchi secondi perché quelle parole filtrassero nello stanco cervello di Terens. Quando si riebbe la macchina era già lanciata a centinaia di chilometri all’ora lungo l’autostrada speciale.
Fuori del porto uno dei due uomini che si trovavano seduti in una vettura aeroterrestre chiese seccato: «È salito su una macchina con una ragazza? Quale macchina? Quale ragazza?» Nonostante il costume sarkita il suo accento era spiccatamente quello dei mondi arturiani dell’Impero di Trantor.
Il suo compagno era sarkita, e assai competente in fatto di notiziari visitrasmessi. Non appena la macchina in questione uscì maestosamente dal cancello e andò acquistando rapidamente velocità, si alzò a metà sul sedile ed esclamò: «Ma quella è la macchina della Dama Samia. Non c’è n’è un’altra uguale in tutto Sark. Santa Galassia, che cosa facciamo?»
«Seguiamola» disse l’altro seccamente.
«Ma la Dama Samia…»
«Per me non è niente, e non dovrebbe esserlo neppure per te. Altrimenti, che cosa ci stai a fare qui?»
Il sarkita gemette: «Non riusciremo mai a raggiungere quella macchina. Non appena si accorgerà di essere seguita mollerà tutta la resistenza.»
«Per il momento va ancora abbastanza adagio» disse l’arturiano.
Dopo qualche minuto aggiunse: «Comunque una cosa è certa: non è diretta agli Interni.»
E dopo qualche altro minuto riprese: «Non è diretta nemmeno al Palazzo di Fife.»
Il sarkita osservò: «Come possiamo sapere se è l’assassino che cerchiamo, quello? Potrebbe anche essere un trucco per portarci fuori strada. Non sta affatto tentando di squagliarsela e se non volesse essere seguita non si servirebbe di una macchina come quella che chiunque riconoscerebbe a due miglia di distanza.»
«Lo so, ma Fife non avrebbe mai mandato sua figlia a trarci in inganno.»
«Può anche darsi che non sia la Dama Samia, dopotutto.»
«È quello che dovremo scoprire, amico. Sta rallentando. Accelera e fermati vicino a una curva!»
«Ho bisogno di parlarle» disse la ragazza.
Terens comprese di non essere caduto nella trappola che a tutta prima aveva immaginata. Quella doveva essere effettivamente la Signora di Fife. Doveva esserlo per forza, poiché sembrava che non le passasse nemmeno lontanamente per il cervello che qualcuno potesse intromettersi nei suoi movimenti.
Non si era mai neppure una sola volta girata indietro per vedere se la seguivano. Tre volte, invece, a Terens non era sfuggita la macchina che teneva loro dietro.
Disse: «Sono a sua disposizione.»
Samia chiese: «Era sulla nave che trasportava l’indigeno di Florina ricercato per tutti quegli omicidii?»
«L’ho già detto: sì.»
«Benissimo. Adesso, io l’ho condotta qui in modo che nessuno ci disturbi. L’indigeno è stato interrogato, durante il viaggio a Sark?»
Tanta ingenuità non poteva essere finta, rifletté Terens. La ragazza doveva effettivamente ignorare la sua identità. Rispose cautamente: «Sì.»
«Lei è stato presente all’interrogatorio?»
«Sì.»
«Bene. Me l’ero immaginato. Perché ha lasciato la nave, a proposito?»
Disse: «Dovevo portare un messaggio speciale a…» esitò.
La ragazza fu pronta a colmare quella sua esitazione: «A mio padre, vero? Non si preoccupi. Penserò io a proteggerla nel modo più completo. Dirò che è venuto con me per mio ordine.»
Terens mormorò: «Come crede, Signora.»
La parola «Signora», affondò profondamente nella sua coscienza. Era una Dama, la prima Signora del pianeta, mentre lui non era che un floriniano. Un uomo capace di uccidere dei pattugliatori imparava facilmente a uccidere dei Signori, e per la stessa ragione un uccisore di Signori poteva benissimo guardare una Dama in faccia.
E poiché era la prima Signora del Pianeta, lei non avvertì neppure il suo sguardo. Disse: «Voglio che mi riferisca tutto quello che ha sentito durante l’interrogatorio.»
«Posso chiederle perché quell’uomo le interessa tanto, Signora?»
«No» rispose Samia seccamente.
«Come vuole, Signora.»
Terens non sapeva che cosa dire. Metà della sua coscienza aspettava che la macchina inseguitrice li raggiungesse; l’altra metà era sempre più consapevole del volto e del corpo della bellissima donna che gli sedeva accanto.
I floriniani dell’Amministrazione Civile e i Borgomastri erano teoricamente costretti al celibato. In pratica però la maggior parte di costoro si sottraeva, ogni qualvolta lo poteva, a tale restrizione. Anche Terens aveva fatto del suo meglio in questo senso, ma le sue esperienze non lo avevano mai soddisfatto.
Lei attendeva la sua risposta: i nerissimi occhi luminosi, fiammeggianti di curiosità, le rosse labbra semiaperte, la splendida figura ammantata di kyrt, e soprattutto era assolutamente ignara che un uomo, qualsiasi uomo, potesse osare d’innalzare pensieri poco riguardosi nei confronti della signora di Fife.
Quella metà della coscienza di Terens che attendeva gli inseguitori si assopì.
A un tratto lui comprese che neppure l’uccisione di un Signore rappresentava il delitto supremo, in definitiva.
Non avrebbe mai saputo dire lui stesso come avesse osato. Si accorse soltanto che il piccolo corpo di lei era tra le sue braccia, rigido, contratto, che per un attimo lei gridò, e che quel grido fu soffocato dalle sue labbra…
Si sentì afferrare per le spalle mentre una corrente di aria fredda lo investiva di schiena attraverso lo sportello aperto della vettura. Tentò d’impugnare la propria arma ma troppo tardi; già gli era stata strappata di mano.
Il sarkita mormorò con orrore: «Hai visto che cosa ha fatto?»
L’arturiano rispose: «Non sono affari nostri!» Si cacciò in tasca un piccolo oggetto nero e disse: «Portalo via.»
Il sarkita trascinò Terens fuori della macchina con l’energia che può dare solo la furia, mentre borbottava: «E Lei glielo ha permesso!»
«Ma chi siete, voi due?» gridò Samia, la quale si era ripresa.
L’arturiano disse: «Niente domande, per favore.»
«Lei è forestiero» ribatté Samia irata.
Il sarkita disse: «Per Sark, dovrei schiacciargli la testa.» E fece l’atto di mollare un pugno al prigioniero.
«Fermo» urlò l’arturiano, afferrando il polso del sarkita.
Il sarkita borbottò furibondo: «C’è un limite a tutto. Posso capire che si ammazzi un Signore. Ne ammazzerei anch’io volentieri qualcuno, ma dover assistere da lontano allo spettacolo di un indigeno che fa quel che ha fatto questo disgraziato proprio adesso, è un po’ troppo persino per me.»
Samia ripeté con voce innaturale, stridula: «Un indigeno?»
Il sarkita, con gesto maligno, strappò il berretto dalla testa di Terens. Il Borgomastro impallidì ma non si mosse. Tenne lo sguardo orgogliosamente fisso sulla ragazza.
Samia si ritrasse nel fondo della vettura, poi con un rapido movimento delle mani si coprì la faccia.
Il sarkita disse: «Che cosa facciamo della ragazza?»
«Niente.»
«Ma ci ha visti! Ci scatenerà addosso tutto il pianeta prima ancora che noi si sia a un miglio da qui.»
«Hai intenzione di far fuori la Signora di Fife?» domandò l’arturiano in tono sarcastico.
«No, certo. Però possiamo sfasciarle la macchina, e quando riuscirà a trovare un radiotelefono noi saremo al sicuro.»
«Non sarà necessario.» L’arturiano si affacciò all’interno della vettura. «Mia Signora, voglia scusare solo un attimo. Mi ascolta?»
Samia non si mosse.
L’arturiano proseguì: «Le consiglio di starmi a sentire. Mi rincresce di averla interrotta in un momento romantico, ma per buona sorte sono riuscito a sfruttare questo momento a mio uso e consumo. Ho potuto agire con prontezza registrando la scena in trifotografia. Trasmetterò la negativa in luogo sicuro appena via di qui, dopodiché ogni interferenza da parte sua mi costringerà a comportarmi in modo poco simpatico. Sono sicuro che mi capisce.»
Così detto, si allontanò. «E adesso stai certo che non parlerà. E tu vieni con me, Borgomastro.»
Terens lo seguì passivamente, senza più osar di guardare la faccia pallida e tesa della donna rimasta nella vettura.
Qualunque cosa fosse accaduta da quel momento in poi, lui aveva compiuto un miracolo. Per un breve attimo aveva baciato la più orgogliosa Dama di Sark, aveva sentito sulla sua bocca il contatto fuggevole delle sue dolci labbra fragranti.