Myrlyn Terens non era un uomo d’azione. Si andava ripetendo questo come una scusa verso se stesso perché dal momento in cui aveva lasciato l’astroporto si sentiva la mente paralizzata.
Non aveva quasi più la forza di proseguire. Forse non era un uomo d’azione, però aveva pure agito e con prontezza per un giorno e una notte e parte di un altro giorno, dando così fondo alla propria riserva nervosa. Purché potesse pensare. Questo era l’importante.
Si addentrò nella grata penombra della Città Bassa. Camminava con passo rigido, come aveva veduto camminare i pattugliatori, facendo dondolare con sicurezza la frusta neuronica. Le strade erano vuote. Gli indigeni si acquattavano nei loro tuguri. Tanto meglio.
Il Borgomastro scelse con cura la casa che gli serviva. Era prudente che fosse una delle migliori, di quelle fabbricate con mattonelle di plastica colorata e che avevano alle finestre riquadri di vetro polarizzato. Gli ordini inferiori erano solitamente più ostili. Avevano meno da perdere. Un “arrivato” si sarebbe fatto in quattro per aiutarlo.
Si avviò per un breve sentiero. La casa sorgeva isolata dalla strada, il che indicava ancora un altro segno di benessere. Sapeva che non avrebbe dovuto né picchiare all’uscio né abbatterlo. Aveva osservato, mentre saliva la rampa, un notevole movimento accanto a una finestra. L’uscio si sarebbe certamente aperto.
E si aprì, infatti.
Si trovò di fronte a una ragazza che lo guardava con occhi spalancati.
Il Borgomastro le fece cenno di chiudere la porta. «C’è tuo padre?» chiese.
La ragazza urlò: «Papà!» Poi con voce più sommessa, balbettando: «Sì, Signore!»
Il padre stava arrivando da un’altra stanza, a piccoli passi lenti.
«Come ti chiami?» domandò il Borgomastro.
«Jacof, per servirla, Signore.»
L’uniforme che il Borgomastro indossava recava in tasca un minuscolo taccuino. Il Borgomastro lo aprì, vi diede una breve occhiata, fece un rapido segno con la matita e disse: «Jacof! Infatti! Raduna subito tutti i membri della famiglia. Svelto!»
Entrarono in fila indiana: una donna magra, dal viso angosciato, la quale stringeva tra le braccia un bambino di circa due anni, la ragazza che lo aveva fatto entrare e un fratello minore.
«Non c’è nessun altro?»
«No, Signore» rispose Jacof umilmente.
«E adesso a te, Jacof!»
«Sì, Signore.»
«Tu sei un uomo responsabile, vero?»
«Sissignore.» Gli occhi di Jacof si illuminarono, e lui s’impettì leggermente. «Sono impiegato al centro alimentari. Ho studiato matematica, e so usare i logaritmi.»
Sì, pensò il Borgomastro, ti hanno mostrato come si usa una tavola di logaritmi e ti hanno insegnato a pronunciare la parola. Conosceva il tipo. Quell’uomo era più orgoglioso dei suoi logaritmi di quanto avrebbe potuto esserlo un figlio di un Signore del suo primo panfilo.
«Tu credi nella legge, vero, e nella bontà dei Signori?» chiese il Borgomastro, seguitando a fingere di consultare il taccuino che aveva in mano. «Adesso stammi a sentire, amico, voglio che ti sieda qui e faccia quello che ti dico. Mi serve un elenco di tutte le persone che conosci in questo quartiere, coi nomi, gli indirizzi, quello che fanno, che tipi sono. Insisto su quest’ultimo punto. Ho bisogno di sapere se sono degli attaccabrighe perché stiamo per fare un repulisti totale. Ci siamo intesi?»
«Sì, Signore. Sì, Signore. Prima di tutti c’è Husting…»
«Non così. Prendi un pezzo di carta… Ecco, adesso scrivi tutto per benino, e adagio, perché le vostre orribili calligrafie io non riesco mai a decifrarle.»
«Non so scrivere molto bene, Signore…»
«Prova un po’.»
Jacof si applicò al proprio compito con mano lenta, impacciata.
Terens si rivolse alla ragazza che lo aveva fatto entrare: «Tu va’ alla finestra e fammi sapere se arrivano da questa parte altri miei colleghi. Ho bisogno di conferire con loro; ma non chiamarli. Avvertimi soltanto.»
Finalmente poteva pensare.
Prima di tutto il suo travestimento da pattugliatore non andava più. Certo dovevano aver messo blocchi stradali a tutte le uscite della città, e sapevano perfettamente che il solo mezzo di trasporto di cui egli potesse servirsi non andava più in là di una motoretta diamagnetica.
Avrebbero indubbiamente iniziato il rastrellamento dalla periferia procedendo via via verso l’interno. In tal caso quella abitazione sarebbe stata tra le prime a essere perquisita, perciò il tempo a sua disposizione era assai limitato.
Doveva cessare di essere un pattugliatore.
E questo era un punto. Inoltre si rendeva conto che d’ora innanzi Florina non gli avrebbe più offerto alcun rifugio sicuro. Doveva dunque abbandonarla. Come?
Si alzò.
Jacof sollevò la testa dal foglio. «Non ho ancora finito, Signore. Cerco di scrivere meglio che posso.»
«Fammi un po’ vedere.»
Diede un’occhiata al pezzo di carta che l’altro gli tendeva, e disse: «Basta così. Se dovessero arrivare degli altri pattugliatori non stare a far perder loro del tempo spiegando che hai già compilato una lista. Avranno fretta, e può darsi che ti affidino altri incarichi. Fa’ come ti diranno loro. Non vedi nessuno in questo momento?»
La ragazza di fazione alla finestra rispose: «No, Signore. Vuole che esca in strada a guardare?»
«È inutile. Vediamo un po’. Dove si trova l’ascensore più vicino?»
«A circa un quarto di miglio di qui, a sinistra. Può…»
«Sì, sì. Fammi uscire.»
Una squadra di pattugliatori sbucava nella strada proprio nel momento in cui la porta dell’ascensore si chiudeva alle spalle del Borgomastro. Terens sentì un tuffo al cuore. Probabilmente il rastrellamento sistematico si stava iniziando in quell’istante e quelli gli erano già alle calcagna.
Un minuto più tardi, col cuore più che mai in tumulto, uscì dall’ascensore, nella Città Alta. Qui non vi erano ripari, né pilastri o legacemento che lo nascondessero dall’alto.
Si sentì come un mobile puntino nero tra lo splendore chiassoso degli edifici multicolori. Non si vedevano però pattugliatori all’orizzonte. I Signori che lo incrociarono non lo degnarono di un’occhiata. Se un pattugliatore era oggetto di paura per un floriniano, per un Signore non rappresentava proprio nulla, meno di uno zero.
Le sue nozioni sulla topografia della Città Alta erano molto vaghe. Sapeva però che in quel settore doveva trovarsi il Parco Cittadino. Il passo più logico sarebbe stato di chiedere informazioni, ma la cosa era inattuabile perché nessun pattugliatore aveva mai bisogno di informazioni.
Si limitò ad avviarsi nella direzione che gli indicava la sua memoria, basata sulle piante della Città Alta che aveva avuto qualche volta occasione di consultare. Fu fortunato. Quello infatti era senza possibilità di dubbio il Parco Cittadino.
Il Parco Cittadino era un appezzamento di verde artificiale che copriva un’area di cento acri circa. Persino su Sark godeva di una fama esagerata che andava da una pace bucolica a misteriose orge notturne. Su Florina coloro che ne avevano inteso vagamente parlare lo immaginavano cento volte più vasto del reale e mille volte più splendido.
Era tuttavia pur sempre un luogo gradevole. Grazie al clima mite di Florina si conservava verde per tutto l’anno. Era diviso in prati, zone boscose e grotte di pietra.
Si diresse a una scalinata incassata tra due pareti di roccia e prese a scendere nella conca circondata di piccole caverne, appositamente create per poter accogliere le coppie sorprese dalla pioggia notturna.
E a un tratto vide quel che andava cercando. Un uomo! O meglio, un Signore.
Non c’era nessun altro nella conca. Era un luogo fatto per l’attesa e per la notte. Evidentemente il Signore aspettava qualcuno. Terens si guardò intorno. Nessuno l’aveva seguito lungo le scale.
Si avvicinò al Signore il quale non lo notò, naturalmente, finché Terens non gli ebbe chiesto: «Voglia perdonarmi?»
La frase era rispettosa, ma un Signore non era abituato a farsi prendere in giro da un pattugliatore, sia pure con tutte le scuse possibili e immaginabili.
«Che diavolo ti viene in mente?» protestò.
Terens seguitò con voce più che mai rispettosa, ma non per ciò meno incalzante: «Da questa parte, Signore. Si tratta del rastrellamento che stiamo facendo nella Città per cercare quell’assassino indigeno.»
«Ma di che cosa vai cianciando?»
«Sarà questione di un momento.»
Senza farsi accorgere Terens aveva estratto la frusta neuronica. Il Signore non la vide neppure. Lo strumento emise un lieve ronzìo, e il Signore si irrigidì e cadde riverso.
Il luogo era sempre deserto. Trascinò il corpo inanimato, dallo sguardo fisso, vitreo, sino in fondo alla più vicina grotta.
Quindi lo svestì, non senza difficoltà poiché le gambe e le braccia erano già irrigidite dal “rigor mortis”. Si tolse quindi l’uniforme di pattugliatore ormai tutta sudicia di sudore e di polvere, e indossò le vesti del Signore. Per la prima volta sentì contro la propria pelle il delicato contatto di una stoffa kyrt.
Si pose infine in capo lo zucchetto. Quest’ultimo indumento era particolarmente necessario. I giovani non ne portavano più molto spesso, ma quello, fortunatamente, sì. Per Terens quello zucchetto era indispensabile, altrimenti i suoi capelli chiari lo avrebbero subito tradito. Se lo calcò giù fino alle orecchie.
Poi regolò l’inceneratore al massimo della dispersione e lo puntò sul cadavere. In capo a dieci secondi rimase solo un mucchietto di cenere.
Sempre servendosi dell’inceneratore ridusse l’uniforme del pattugliatore a un mucchio di polvere bianca. Ebbe però cura di toglierne i bottoni e la fibbia d’argento che la vampa distruggitrice aveva soltanto anneriti.
E ora doveva andarsene al più presto. Stava discendendo la gradinata quando fu incrociato da una giovane donna. Per un attimo, vinto dalla forza dell’abitudine, abbassò gli occhi. Era una Dama. Li alzò in tempo per notare che era giovane e molto bella, e che aveva fretta.
Serrò la mascella. Non lo avrebbe trovato, naturalmente. Però era in ritardo, altrimenti l’uomo non avrebbe seguitato a consultare con tanta impazienza il proprio orologio. Avrebbe forse pensato che il compagno si era stancato di aspettare e se n’era andato. Affrettò il passo.
Uscì dal Parco, e prese a camminare senza meta. Trascorse un’altra mezz’ora.
Adesso non era più un pattugliatore ma un Signore.
Si fermò a una piccola piazza al centro della quale sorgeva, in mezzo a un’aiuola, una fontana nella cui acqua era stata aggiunta una certa dose di detergente perché spumeggiasse e ribollisse con variopinta iridescenza.
Si appoggiò alla balaustra, voltando la schiena al sole calante e lentamente, a uno a uno, lasciò cadere nella fontana gli ornamenti di argento annerito. Con movimenti metodici, e sforzandosi di apparire indifferente, incominciò a frugarsi nelle tasche.
Il loro contenuto non presentava nulla di particolarmente insolito. Un mazzo di chiavi, poche monete, un documento d’identità.
Constatò che il suo nuovo nome era Alstare Deamone. Si augurò di non dovere mai usarlo. Nella Città Alta, tra uomini, donne e bambini, vi erano in tutto diecimila abitanti, perciò era più che probabile che egli incontrasse qualcuno che conosceva Deamone personalmente.
Aveva ventinove anni. Di nuovo si sentì assalire da un rigurgito di nausea al pensiero di quel che aveva lasciato nella grotta, e dovette lottare per soffocarlo. Un Signore era un Signore. Quanti floriniani ventinovenni erano stati uccisi per le loro mani o dietro loro istruzioni? E quanti floriniani ancora più giovani?
Possedeva pure un indirizzo, che però non aveva per lui alcun significato, date le sue rudimentali nozioni della topografia della Città Alta.
Proseguì nell’inventario del contenuto delle tasche. Vi era tra l’altro una licenza di pilota di panfilo. Non vi fece caso. Tutti i ricchi sarkiti possedevano dei panfili che pilotavano personalmente. Era la moda del secolo. Trovò finalmente alcune strisce di ricevute di credito sarkita. Queste sì che almeno temporaneamente avrebbero potuto essergli utili.
Si ricordò a un tratto che non aveva più mangiato dalla notte prima e si sentì affamato.
Ma subito si diede a meglio osservare la licenza di pilotaggio. Ma certo, nessuno doveva usarlo in quel momento, e quello era il suo panfilo, Portava il numero di rimessa 26, ed era ancorato al Porto 9. Ebbene…
Ma dov’era il Porto 9? Lui non ne aveva la più pallida idea.
Appoggiò la fronte contro la fresca liscia balaustra che attorniava la fontana. Che doveva fare?
Una voce lo riscosse.
«Salve! Non si sente male, vero?»
Terens alzò la testa. Era un Signore anziano.
Il Borgomastro disse: «Mi stavo riposando. Avevo deciso di fare una passeggiata, e ho perduto la nozione del tempo. Temo di essere ormai in ritardo per un certo appuntamento che avevo.»
L’altro chiese: «Ci sentiamo perduti senza una zanzara, eh?»
«Infatti» ammise Terens.
«Usi pure la mia» fu l’offerta immediata. «È parcheggiata proprio qui fuori. Può regolare i controlli e rimandarmela indietro quando non le servirà più. Posso farne benissimo a meno per un altro paio d’ore.»
Per Terens quella proposta sarebbe stata pressoché ideale. Le zanzare erano velocissime e potevano superare in velocità e in manovra qualsiasi vettura aeroterrestre della pattuglia. Purtroppo però si presentava per lui una difficoltà insormontabile: Terens infatti non era capace di guidare una zanzara.
«Di qui a Sark» disse. Conosceva quell’espressione idiomatica che tra i signori significa “grazie”, e si affrettò a usarla. «Preferisco camminare. Tanto il Porto 9 non è lontano.»
«No, non è lontano» ammise l’altro.
Questo non aiutava certo Terens. Ritentò: «Certo, preferirei trovarmici più vicino. La passeggiata sino alla via Kyrt è già di per sé piuttosto faticosa.»
«La via Kyrt? E che c’entra?»
Terens ebbe l’impressione che l’altro lo stesse guardando in modo strano. Si affrettò ad aggiungere: «Un momento! Devo essermi confuso camminando. Mi faccia un po’ pensare.» Si guardò intorno con aria vaga.
«Guardi, questa è la via Recket. Basterà andare giù fino a Triffis e girare a sinistra: troverà subito il porto.» Automaticamente il suo interlocutore gli aveva indicato la direzione.
Terens sorrise. «Ma sì! Ha ragione. Bisognerà che la smetta di sognare e cominci a pensare. Di qui a Sark, Signore.»
Terens si allontanò un po’ troppo in fretta, agitando la mano in segno di saluto. Il Signore gli tenne dietro con lo sguardo, perplesso.
Forse l’indomani, quando i resti del cadavere fossero stati trovati tra le rocce, e la ricerca si fosse iniziata, avrebbe ripensato a quel colloquio e avrebbe detto: «Aveva qualcosa di strano, quell’uomo. Si esprimeva in maniera curiosa e mi ha dato la sensazione di non sapere dove si trovasse. Scommetto che era la prima volta che sentiva nominare il viale Triffis.»
Ma questo sarebbe successo soltanto l’indomani.
Il Porto 9 brulicava di giovani in costume da crocieristi, le cui caratteristiche principali erano rappresentate da berretti a visiera pronunciatissima e brache rigonfie. Terens si sentì terribilmente appariscente, nel contrasto, ma nessuno si curò di lui.
Trovò la Cabina 26 ma attese vari minuti prima di avvicinarsi. Non voleva nessun Signore attorno a sé, nessun Signore che possedesse un panfilo attraccato in una cabina attigua, il quale potesse conoscere di vista il vero Alstare Deamone e chiedersi che cosa stesse a fare intorno alla sua nave uno sconosciuto.
Quando finalmente gli parve di essere al sicuro si avvicinò. Il muso del panfilo affiorava fuor della rimessa, sporgendo entro il campo aperto intorno al quale erano sistemate la cabine. Allungò il collo per meglio osservarlo.
Ebbene?
Aveva ucciso tre uomini, in quelle ultime dodici ore. Da Borgomastro floriniano era salito al rango di pattugliatore, e da pattugliatore a Signore.
Dalla Città Bassa si era spinto nella Città Alta e da questa a un astroporto. Era possessore di un panfilo, cioè di un mezzo spaziale sufficientemente dotato per trasportarlo con le più assolute garanzie di sicurezza su uno qualsiasi dei mondi abitati di quel settore della Galassia.
Purtroppo però c’era un solo piccolo inconveniente.
Egli non sapeva pilotare un panfilo.
Si sentiva stanco morto, e affamato come un cane. Era giunto ormai allo stremo delle proprie forze, e non era più capace di andare oltre. Era arrivato ai limiti dello spazio ma non disponeva dei mezzi per poter varcare quei limiti.
Trentasei ore innanzi aveva avuto tra le mani la più straordinaria occasione che gli fosse mai capitata in vita sua. Ora questa occasione si era dileguata e i suoi minuti erano contati.