Rik posò l’alimentatore e balzò in piedi. Si mise a urlare: «Ricordo!»
Gli altri lo guardarono e per un attimo il mormorio degli uomini seduti a colazione cessò. Numerosi occhi conversero su di lui; i volti erano tutti ugualmente puliti e sbarbati; ma quegli occhi non mostravano alcun vero interesse, solo l’attenzione riflessa che provoca ogni grido improvviso e inatteso.
Rik tornò a gridare: «Ricordo quello che facevo! Ricordo la mia occupazione!»
Qualcuno urlò: «Zitto!» E qualcun altro intimò: «Siedi!»
Rik tornò lentamente a sedere e prese tra le mani l’alimentatore, un congegno a forma di cucchiaio, dai bordi aguzzi, con minuscoli denti sporgenti dalla curva anteriore della ciotola, che riuniva pertanto in sé le funzioni di coltello, cucchiaio e forchetta. Per un operaio dell’opificio era abbastanza. Lo rigirò più volte, fissando, senza vederlo, il proprio numero impresso sul dorso del manico. Non aveva bisogno di vederlo. Lo conosceva a memoria. Anche gli altri avevano come lui numeri di matricola, ma gli altri avevano anche dei nomi. Lui no. Lo chiamavano Rik perché questo nel gergo degli opifici dove si lavorava il kyrt significava pressappoco “deficiente”. E spesso anche lo chiamavano “Rik il Matto”.
Forse adesso avrebbe seguitato a ricordare sempre di più. Era la prima volta dacché era giunto all’opificio che ricordava qualcosa di prima. Se fosse riuscito a pensare intensamente! Se si fosse sforzato di pensare tendendo tutta la sua volontà!
A un tratto non ebbe assolutamente più fame. Con gesto improvviso gettò l’alimentatore nel blocco gelatinoso di carne e di verdura che gli stava dinanzi, respinse il cibo lontano da sé e nascose gli occhi nel palmo delle mani, mentre con le dita si tormentava i capelli nel disperato tentativo di seguire la propria mente nell’abisso dal quale essa aveva estratto un’unica cosa… un oggetto fangoso, indecifrabile.
Infine scoppiò in lacrime, proprio mentre la campana annunciava la fine dell’intervallo di colazione.
Quella sera, quando lui lasciò l’opificio, Valona March gli si mise accanto. Dapprima lui non se ne accorse neppure. Poi si fermò e la guardò. Aveva i capelli biondo-castano, e li portava raccolti in due grosse trecce strette da due minuscole spille calamitate e ornate di pietre verdi. Erano spille da poco prezzo e avevano un aspetto usato. Indossava un semplice vestito di cotone più che sufficiente in quel clima mite.
«Ho saputo che all’ora di colazione è successo qualcosa» disse Valona.
Parlava con l’accento spiccato, pesante dei contadini. Il linguaggio di Rik invece era ricco di vocali aperte e aveva un’intonazione nasale.
«Non è successo niente, Lona» mormorò Rik.
Lei insistette: «Ho saputo che hai detto di ricordare qualcosa. È vero, Rik?»
Anche lei lo chiamava Rik. Non vi era altro modo come chiamarlo. Non ricordava il suo vero nome, anche se aveva cercato disperatamente di ricordarselo e Valona lo aveva aiutato. Un giorno era riuscita a ottenere chissà come una vecchia guida cittadina e gli aveva letto tutti i nomi di nascita, ma tutti gli erano sembrati sconosciuti.
Rik la fissò e disse: «Dovrò lasciare l’opificio.»
Valona aggrottò la fronte. «Non credo che tu possa andartene. Non sarebbe giusto.»
«Bisogna che sappia di più su me stesso.»
Valona si morsicò le labbra. «Forse non ti conviene.»
Rik distolse lo sguardo da lei. Sapeva che la sua preoccupazione era sincera. Prima di tutto era stata lei a ottenergli l’impiego all’opificio perché lui non aveva alcuna esperienza di macchine e di meccanismi, o forse sì, ma non se ne ricordava. In ogni caso Lona aveva insistito dicendo che lui era troppo mingherlino per essere adibito alle fatiche manuali e avevano acconsentito a impartirgli un addestramento tecnico gratuito. Prima di questo, nei giorni spaventosi durante i quali non riusciva quasi ad articolare parola e quando non sapeva neppure che cosa fosse il cibo essa lo aveva curato e nutrito.
Era stata Valona a tenerlo in vita.
Disse: «Devo andare.»
«Ti è tornato il mal di testa, Rik?»
«No. Effettivamente ricordo qualcosa. Ricordo qual era il mio lavoro prima… prima!»
Non sapeva se doveva parlargliene. Abbassò gli occhi. Il sole caldo e gradevole era da almeno due ore al di sopra dell’orizzonte. Le monotone file di cubicoli per operai che si stendevano tutt’intorno agli opifici erano brutte, ma Rik sapeva che non appena avessero raggiunto l’erta, il campo sarebbe apparso ai loro sguardi in tutto il suo splendore d’oro e di porpora.
Gli piaceva contemplare i campi. Sin dal principio la loro presenza lo aveva placato e riconfortato. In quei giorni, durante i turni di riposo, Valona si faceva dare in prestito una motoretta diamagnetica e lo portava fuori del villaggio. Circolavano veloci, a pochi centimetri dalla superficie stradale, scivolando sull’imbottita levigatezza del campo antigravitazionale, finché venivano a trovarsi lontani miglia e miglia da ogni abitazione umana e intorno a loro non vi era che il kyrt in fiore. Si mettevano allora a sedere sul ciglio della strada, attorniati di colori e di profumi, finché non giungeva l’ora di rientrare.
Quel ricordo commosse Rik. Disse: «Andiamo nei campi, Lona.»
«È tardi.»
«Per favore! Solo qui vicino! Appena fuori di città.»
Valona toccò il sottile borsellino che teneva sotto la cintura di morbida pelle turchina, il solo lusso che si concedeva nel vestire.
Rik la prese per un braccio: «Andiamo a piedi.»
Mezz’ora dopo lasciavano la strada maestra e imboccavano i sentieri senza polvere di sabbia compressa. Un pesante silenzio li circondava e Valona si sentì attanagliare da una ben nota paura. Che cosa succederebbe se lui la lasciasse? Era piccolo, non più alto di lei. In un certo senso era ancora come un bambino in fasce, ma prima che gli avessero spento la mente doveva essere stato un uomo colto e importante.
Valona non sapeva che leggere e scrivere e quel tanto di tecnologia industriale che le consentiva di manovrare le macchine dell’opificio, ma sapeva pure che non tutti erano così limitati. C’era il Borgomastro, naturalmente, il cui grande sapere era così prezioso per tutti loro. Di quando in quando poi giungevano in visita di ispezione i Signori. Da vicino non li aveva mai visti ma una volta, durante un giorno di festa, aveva visitato la città e in lontananza aveva veduto un gruppo di persone incredibilmente meravigliose. Ogni tanto era concesso ai lavoratori di ascoltare quel che diceva la gente istruita. Parlavano in modo diverso, più scorrevole, con parole più lunghe e intonazioni più dolci. Così aveva incominciato a parlare anche Rik a mano a mano che la memoria migliorava.
Le sue prime parole l’avevano spaventata. Le erano giunte improvvise, dopo che aveva a lungo pianto per un mal di testa. Sin da allora aveva temuto che potesse ricordare troppe cose e che la lasciasse. Lei non era che Valona March. La chiamavano la Grossa Lona. Non si era mai sposata, né mai si sarebbe sposata. Una ragazzona grande e grossa come lei, dalle mani arrossate dal lavoro, non poteva sposarsi. Doveva accontentarsi di guardare scontrosa e risentita i giovani che la ignoravano alle feste, durante i giorni di riposo. Ma quando era venuto Rik le era parso di aver trovato un bambino. Doveva essere nutrito e curato, bisognava portarlo fuori al sole e curarlo quando quegli atroci mali di testa lo torturavano.
I ragazzi solevano correrle dietro ridendo e urlando: «Lona ha trovato un amico! La Grossa Lona ha trovato un amico matto. L’amico di Lona è un Rik.»
Più tardi, quando Rik fu in grado di camminare da solo ed era uscito solo per le strade del villaggio, si erano messi a girargli intorno, strepitando e schernendolo per il piacere meschino di vedere un uomo adulto coprirsi gli occhi impaurito e ritrarsi, incapace di rispondere ai loro insulti se non con piagnucolii. Quante volte Lona era uscita di casa come una furia, minacciandoli coi pugni.
Persino gli uomini temevano quei pugni. Aveva abbattuto con un sol colpo il suo caporeparto, il primo giorno in cui aveva portato Rik a lavorare all’opificio, per via di una osservazione scurrile sul loro conto che l’altro aveva fatta. Il consiglio di fabbrica l’aveva multata per quell’incidente, togliendole una settimana di paga, e l’avrebbero probabilmente mandata in Città, davanti al tribunale dei Signori per essere nuovamente processata, se il Borgomastro non si fosse interposto adducendo l’attenuante della provocazione.
Per questo Valona desiderava che Rik non continuasse a ricordare. Sapeva di non avere niente da offrirgli; certo, era egoista a desiderare che lui restasse per sempre con la mente vuota, incapace di pensare, ma il ritorno alla sua squallida solitudine l’atterriva.
Disse: «Sei sicuro di ricordare, Rik?»
«Sì.»
Si fermarono in mezzo ai campi ancora più ardenti e luminosi sotto la vampa del sole che tramontava. Presto si sarebbe levata la mite, profumata brezza della sera.
Rik disse: «Posso fidarmi dei miei ricordi a mano a mano che mi tornano alla memoria. Tu lo sai che lo posso, Lona. Per esempio non mi hai insegnato tu a parlare. Le parole me le sono ricordate da solo. Non è vero, forse?»
Valona rispose a malincuore: «Sì.»
«E adesso ricordo qualcosa di me di prima. Perché deve esserci stato un prima, Lona.»
Si, doveva esserci stato un prima. Quando ci pensava, sentiva una fitta al cuore. Era un prima diverso, che non assomigliava in niente all’ora in cui vivevano adesso. Era stato su un mondo diverso, anche Valona lo sapeva perché la sola parola che Rik non fosse mai riuscito a ricordare era “kyrt”. Aveva dovuto insegnargliela come la rappresentazione della cosa più importante esistente nell’universo di Florina.
«Che cosa ricordi?» domandò.
A quelle sue parole l’animazione di Rik parve improvvisamente spegnersi. «Ben poco, Lona» rispose, titubante. «Ricordo soltanto che una volta avevo un’occupazione, e ricordo anche quale occupazione fosse, in un certo senso, almeno.»
«Che cosa facevi?»
«Analizzavo il Nulla.»
La donna si voltò bruscamente, fissandolo negli occhi, e per un attimo gli posò sulla fronte il palmo della mano, ma subito lui si scostò, indispettito. Valona domandò: «Non hai mal di testa, per caso, Rik? Sono molte settimane che non ti lamenti più…»
«Sto benissimo. Non mi seccare.»
La donna abbassò gli occhi e Rik si affrettò ad aggiungere: «Intendevo dire soltanto che sto bene e non voglio che ti preoccupi per me.»
Il volto di Valona s’illuminò. «Che cosa significa “analizzavo”?» chiese. Rik sapeva parole che lei ignorava. Si sentiva molto umile, al pensiero di quanto lui doveva essere stato istruito un tempo.
Rik rifletté per un istante: «Significa… significa “separare”. Sai, come quando noi mettiamo da parte un selezionatore per scoprire come mai il cilindro esploratore sia uscito di allineamento.»
«Oh, ma, Rik, che mestiere può essere quello di non analizzare niente? Non è un mestiere.»
«Io non ho detto che non analizzavo niente. Ho detto che analizzavo il Nulla.»
«E non è la stessa cosa?»
«No, non è la stessa cosa.» Respirò profondamente. «Temo di non riuscire a spiegarti la differenza, però. Purtroppo è la sola cosa che ricordo, ma dev’essere stato un lavoro importante; ne ho la netta sensazione. È impossibile che io fossi un criminale.»
Valona ebbe una smorfia di dolore. Questo lei non avrebbe mai dovuto dirglielo. Verso se stessa si era giustificata pensando che lo aveva avvertito unicamente per proteggerlo, ma ora capiva che lo aveva fatto, invece, per tenerlo legato più strettamente a sé.
Era successo quando Rik aveva cominciato a parlare. Era stata colta talmente alla sprovvista da restarne spaventata. Non aveva neppure osato confidarsi col Borgomastro. Il primo giorno di riposo aveva ritirato cinque buoni di credito dal proprio vitalizio — non vi sarebbe mai stato nessun uomo a reclamare in dote quella modesta cifra, perciò la cosa non aveva importanza — e aveva portato Rik da un medico della Città. Si era segnata il nome e l’indirizzo su un pezzetto di carta, ciononostante aveva trascorso due ore spaventose a trovar la direzione giusta tra gli enormi pilastri che tenevano sospesa verso il sole la Città Alta.
Aveva insistito per essere presente: il medico aveva eseguito ogni sorta di paurose esperienze con i suoi strani strumenti. Quando aveva messo la testa di Rik tra due oggetti di metallo e l’aveva fatta luccicare come luccica nella notte una farfalla del kyrt, era balzata in piedi e aveva tentato di frenarlo. Il medico allora aveva chiamato due uomini che l’avevano trascinata fuori, nonostante ella si dibattesse disperatamente.
Mezz’ora più tardi il medico era uscito a sua volta per parlare, alto, severo.
Le aveva chiesto: «Quando hai conosciuto quest’uomo?»
Gli aveva spiegato con cautela le circostanze essenziali, riducendole al minimo necessario e tralasciando ogni accenno al Borgomastro e ai pattugliatori.
«Allora non sai niente di lui?»
Valona aveva scosso la testa.
Il medico le aveva spiegato: «Quest’uomo è stato sottoposto a un sondaggio psichico. Sai che cos’è?»
«È quello che fanno ai matti, Dottore?»
«E ai criminali. Lo si fa per trasformare le loro menti per il loro bene. Le rende sane, o muta quelle parti di esse che li inducono a rubare e uccidere. Capisci?»
Valona aveva capito. Era arrossita e aveva detto: «Rik non ha mai rubato niente né ferito nessuno.»
«Lo chiami Rik?» Il medico pareva divertito. «Ora, ascoltami bene, come puoi sapere quello che ha fatto prima che tu lo conoscessi? È difficile capirlo dalle condizioni attuali della sua mente. Il sondaggio è stato compiuto in modo totale e brutale. Io non posso dire quanta parte della sua mente sia stata permanentemente asportata e quanta parte si sia invece temporaneamente perduta sotto l’effetto del trauma. Ciò che intendo dire è che una parte di essa ritornerà, col passare del tempo, come gli è tornata la favella, ma non in modo completo. Dovrebbe essere tenuto sotto osservazione.»
«No, no. Deve restare con me. Io lo curo bene, sa?»
Il medico aveva corrugato la fronte, ma subito la sua voce si era raddolcita. «Io mi preoccupo per te, figliola. Può darsi che non tutto il male sia uscito dalla sua mente e non vorrei che un giorno ti nuocesse.»
In quel momento un’infermiera aveva condotto Rik. Lo vezzeggiava per calmarlo come si fa coi bambini. Rik si era portato una mano alla testa e guardava fisso nel vuoto finché i suoi occhi avevano riconosciuto Valona; allora le aveva teso le mani chiamando debolmente: «Lona…»
Lei era scattata in piedi e gli aveva stretto la testa contro la propria spalla, accarezzandolo dolcemente, poi si era rivolta al dottore: «Non potrà mai farmi del male, qualunque cosa accada.»
Il medico aveva detto con aria pensosa: «Naturalmente dovrò stendere un rapporto sul suo caso. Non capisco come sia sfuggito sinora alle autorità, date le condizioni nelle quali dev’essere stato trovato.»
«Questo significa che lo porteranno via, Dottore?»
«Ho paura di sì.»
«Oh, la prego, non dica niente.» Si era messa a torcere il fazzoletto in cui luccicavano le cinque monete di lega di credito implorando: «Le prenda tutte, Dottore. Io lo curerò bene. Le assicuro che non farà del male a nessuno.»
Il medico aveva soppesato nella mano le monete: «Lavori all’opificio, vero?»
Valona aveva annuito.
«Quanto ti pagano la settimana?»
«Due ottavi di credito.»
Il medico aveva agitato le monete nel cavo della mano facendole tintinnare, quindi gliele aveva restituite: «Tienle pure, figliola. Questa visita è gratuita.»
Valona le aveva accettate stupita: «Allora non dirà niente a nessuno, Dottore?»
Ma il medico aveva risposto: «Purtroppo non è possibile: è la legge.»
Era tornata al villaggio guidando alla cieca, e stringendo disperatamente a sé Rik.
La settimana successiva il notiziario ipervisivo aveva trasmesso che un medico era morto in uno scontro durante una breve interruzione di corrente lungo il transito locale. Il nome del medico le era parso familiare, e nella sua stanza, quella sera, lo aveva confrontato con quello scritto sul pezzetto di carta. Era lo stesso.
Ne fu rattristata perché, nonostante che fosse un Signore, era stato un brav’uomo. Ma il suo rammarico fu presto sopraffatto da una gioia immensa: il medico non poteva aver avuto il tempo di deferire alle autorità il caso di Rik. Comunque nessuno mai era venuto a fare ricerche.
Più tardi, quando la cerchia delle cognizioni di Rik si era allargata, lei gli aveva spiegato ciò che il medico le aveva detto per indurlo a starsene tranquillo al villaggio.
Rik la scosse, destandola dalle sue fantasticherie.
Le stava dicendo: «Non potevo essere un criminale, dal momento che avevo un lavoro importante.»
«Non può darsi che tu abbia commesso un errore?» disse Valona, esitante.
«Sono certo che è impossibile. Ma non capisci che io debbo saperlo in modo che gli altri possano sentirsi sicuri? Non c’è altro mezzo. Bisogna che lasci l’opificio e il villaggio, e scopra di più sul mio vero essere.»
Valona si sentì invadere dal panico. «Rik! Questo sarebbe pericoloso. E perché vorresti farlo? Anche se tu analizzavi il Nulla, perché è tanto importante che tu ne sappia di più sul tuo conto?»
«Per via dell’altra cosa che ricordo.»
«Quale altra cosa?»
Rik mormorò: «Non te la posso dire.»
«Eppure a qualcuno dovresti dirla. Potresti dimenticartela di nuovo.»
Lui l’afferrò per un braccio. «Hai ragione. Però non ne parlerai con nessuno, vero, Lona?»
«Te lo prometto, Rik.»
Rik si guardò intorno. Il mondo era bellissimo. Valona gli aveva spiegato una volta che vi era nella Città Alta, miglia e miglia al di sopra di essa, una immensa insegna luminosa che diceva: “Di tutti i Pianeti della Galassia, Florina è il più bello.” E mentre si guardava intorno capiva che non era difficile crederlo.
Disse: «È terribile ricordare, ma, quando ricordo, ricordo sempre con esattezza. Mi è venuto in mente questo pomeriggio.»
«Sì?»
Lui la guardò con orrore: «Tutti nel mondo dovranno morire; tutti gli abitanti di Florina.»