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Terens si riebbe quasi subito. Disse: «Usciamo! Presto!» E prese a camminare.

Uscirono sulla rampa. Il sole pomeridiano rendeva l’universo caldo e luminoso.

Valona disse con voce ansiosa: «Sbrighiamoci!» Ma Terens l’afferrò per un gomito.

Sorrideva, ma il tono della voce era duro, imperioso. Disse: «Non correre. Cammina con naturalezza, e seguimi.»

Mossero pochi passi, ma avevano la sensazione di avanzare in un mare di colla. Quei rumori alle loro spalle provenivano dalla biblioteca o erano uno scherzo della loro fantasia? Terens tuttavia non osava voltarsi a guardare.

«Entriamo qui» disse. L’insegna sul viale non riusciva a competere col sole di Florina. C’era scritto: “Ingresso all’Ambulatorio.”

Percorsero il viale, infilarono un’entrata laterale, vennero a trovarsi tra pareti di un candore inverosimile che parevano blocchi di un materiale ignoto contro la vetrosità asettica del corridoio.

Una donna in uniforme li stava osservando da lontano. Esitò, corrugò la fronte, incominciò ad avvicinarsi. Terens non stette ad aspettarla. Si volse bruscamente, seguì una ramificazione del corridoio, poi un’altra. Passarono davanti ad altre infermiere in camice e Terens intuiva quale incertezza la loro presenza dovesse suscitare in loro. Era un caso senza precedenti infatti che degli indigeni si aggirassero soli ai livelli superiori di un ospedale. Come ci si doveva comportare in una circostanza simile?

Certo da un momento all’altro sarebbero stati fermati.

Perciò Terens si sentì rincuorare quando notò una porticina sulla quale era scritto: “Ai Livelli Indigeni.” L’ascensore era alla loro portata. Spinse dentro Rik e Valona.

Nella Città esistevano tre tipi di edifici. La maggior parte erano Edifici Inferiori, costruiti esclusivamente al livello inferiore; case operaie, alte tre piani al massimo, fabbriche, panetterie, impianti di distribuzione. Altri ancora erano Edifici Superiori: abitazioni sarkite, teatri, la biblioteca, le arene sportive. Ma pochi altri erano Duplici, con livelli ed entrale tanto inferiori quanto superiori ove erano alloggiate le caserme pattugliatori, per esempio, e gli ospedali.

Ci si poteva pertanto servire di un ospedale per passare dalla Città Alta alla Città Bassa evitando in tal modo l’uso dei grandi ascensori da carico, lentissimi e dove gli addetti alla manovra avevano occhi e orecchi per venti. Per un indigeno questo naturalmente era un metodo del tutto illegale, ma era niente in confronto al gravissimo crimine che avevano compiuto assalendo un pattugliatore.

Uscirono al livello inferiore. Ovunque si levava l’inquieto chiacchiericcio di una sala di aspetto piena di uomini preoccupati e di donne spaventate. Un’unica infermiera tentava, senza troppo riuscirvi, di metter un po’ d’ordine tra tanta confusione.

Terens, Valona e Rik si facevano cautamente strada tra la folla. Valona, come se la presenza di altri floriniani le avesse improvvisamente sciolto la lingua, stava mormorando:

«Ho dovuto venire, Borgomastro. Ero talmente preoccupata per Rik! Temevo che non me lo riportasse più indietro, e…»

«Come hai fatto per salire alla Città Alta?» domandò Terens seguitando a farsi largo tra la folla passiva degli indigeni.

«Vi ho seguiti e vi ho visti prendere l’ascensore da carico. Quando è ridisceso ho detto all’uomo che ero con voi, e lui mi ha condotta su.»

«Così? Semplicemente?»

«Ho dovuto scuoterlo un pochino.»

«Numi di Sark!» gemette Terens.

«Non ho potuto farne a meno» spiegò Valona con l’aria di una bambina colta in fallo. «Poi ho visto che i pattugliatori vi indicavano un edificio. Ho aspettato che se ne fossero andati e vi sono venuta dietro. Solo che non ho osato entrare. Non sapevo che cosa fare, perciò mi sono nascosta finché non vi ho visto uscire insieme al pattugliatore che cercava di fermarvi…»

I tre fuggiaschi già erano usciti nella penombra della Città Bassa ove li accolsero gli odori e il baccano di quello che i sarkiti chiamavano il Quartiere Indigeno, mentre il livello superiore era tornato a essere nuovamente un tetto sulle loro teste. Ma per quanto Valona e Rik si sentissero sollevati nel non vedersi più intorno l’opprimente ricchezza dell’ambiente sarkita, Terens seguitava a essere profondamente preoccupato. Avevano troppo osato e d’ora innanzi per loro non vi sarebbe più stata sicurezza in alcun luogo.

Questo pensiero gli torturava la mente in tumulto, quando Rik gridò: «Guardate!»

Quello era per gli indigeni della Città Bassa lo spettacolo forse più spaventoso che potessero vedere. Pareva che un gigantesco uccello scendesse volteggiando da una feritoia della Città Alta, oscurando il sole e rendendo ancora più cupa la già tetra oscurità di quel tratto della Città. Ma non era un uccello; era un carro armato aero-terrestre dei pattugliatori.

Gli indigeni si diedero a gridare e incominciarono a correre. Non avevano alcuna ragione specifica per temere, ma presero ugualmente a fuggire. Un uomo che si trovava quasi esattamente sul sentiero della macchina si trasse in disparte a malincuore. Stava proseguendo per la propria strada quando l’ombra si era distesa su di lui. Si guardò intorno, simile a una roccia imperturbata in un mare in tempesta. Era di media statura, ma aveva due spalle quasi innaturalmente larghe.

Terens esitò, e senza il suo aiuto Rik e Valona erano completamente paralizzati.

L’uomo dalle enormi spalle si stava avvicinando a loro; sostò per un attimo, come incerto, e disse con voce normalissima: «La panetteria di Khorov è la seconda a sinistra, dopo la lavanderia.»

Quindi girò bruscamente sui tacchi.

Terens disse: «Andiamo.»

Si mise a correre, mentre il sudore gli usciva abbondantemente da tutti i pori. Nel tumulto echeggiavano gli ordini secchi che uscivano dalle gole dei pattugliatori. Due pattugliatori si erano messi a correre nella direzione giusta. Terens non sapeva se lo avessero veduto o meno, ma questo non aveva importanza. Entrambi si scontrarono con l’uomo dalle spalle enormi che aveva appena rivolto la parola a Terens. Terens spinse Valona e Rik oltre l’angolo.

La panetteria di Khorov era riconoscibile da un’insegna semicancellata di plastica luminosa, spezzata in più punti, ma ciò che la rendeva inconfondibile era il meraviglioso odore che filtrava dall’uscio aperto. Non restava che entrarvi e così fecero.

Un vecchio alzò la testa dalla stanza interna entro la quale i tre sopraggiunti notarono la vampa, oscurata da una nuvola di farina, dei forni al radar, ma il vecchio non ebbe la possibilità di domandare loro che cosa volessero.

Terens cominciò: «Un uomo dalle spalle larghe…» Aveva aperto le braccia per meglio illustrare il concetto, quando dall’esterno presero a echeggiare grida concitate di «I pattugliatori! I pattugliatori!».

Il vecchio disse con voce rauca: «Da questa parte! Presto!»

Terens esitò: «Lì dentro?»

Il vecchio disse: «È finto.»

Prima Rik, poi Valona, e infine Terens s’infilarono nella bocca del forno. S’intese uno scatto sommesso, e la parete posteriore del forno si spostò senza rumore rimanendo liberamente sospesa a due cardini sovrastanti. I tre passarono oltre e si trovarono in una minuscola stanza, malamente illuminata.


Attesero. La ventilazione era cattiva, e l’odore di pane infornato aumentava la loro fame senza soddisfarla.

Valona cominciò: «Borgomastro…»

Lui la interruppe con un ordine sommesso ma imperioso: «Non ora, Lona, ti prego!»

S’intese un clicchettio, centuplicato dalla ristrettezza del loro nascondiglio. Terens s’irrigidì, e quasi senza rendersene conto alzò i pugni chiusi. Era lo sconosciuto che cercava di far passare nell’angusta apertura le proprie immense spalle. Guardò Terens e parve divertito.

«Andiamo, amico! Non ci metteremo certamente a fare a pugni, immagino.»

Terens si guardò le mani serrate in una stretta convulsa, e le lasciò ricadere.

Lo sconosciuto era in condizioni anche peggiori di prima. Aveva la camicia strappata e una ecchimosi fresca, rosso-violacea, che gli sfregiava uno zigomo.

L’uomo disse: «Hanno smesso di cercare. Se avete fame, qui non c’è molto, se però vi accontentate… che ne dite?»

Dopo che ebbe mangiato, Rik cominciò a sentirsi meglio. Domandò timidamente: «Le hanno fatto male, signore?»

«Un po’» rispose l’uomo dalle spalle larghe «ma non importa. Nel mio mestiere è roba di tutti i giorni.» Rise, mettendo in mostra i denti fortissimi. «Hanno dovuto ammettere che ero innocente come un agnello, ma siccome gli avevo intralciato la strada mentre stavano dando la caccia ad altri, il modo più semplice per sbarazzarsi di un indigeno che dà fastidio…» La sua mano si alzò e ricadde come se reggesse per il calcio un’arma invisibile.

Rik si ritrasse e Valona tese su di lui un braccio protettore, con gesto ansioso.

Lo sconosciuto disse: «Io sono Matt Khorov, ma tutti mi chiamano il Fornaio. E voi chi siete?»

Terens si strinse nelle spalle: «Ecco…»

Il Fornaio disse: «Capisco. Meno so meglio è. Può darsi. Potreste però fidarvi di me. Non vi ho salvato dai pattugliatori, forse?»

«Sì, e ve ne siamo grati.» Terens non riusciva tuttavia a dare alla sua voce un tono cordiale. Chiese: «Come sapevate, che cercavano proprio noi? Eravamo in tanti a scappare!»

L’altro sorrise. «Nessuno aveva la faccia che avevate voi tre.»

Terens tentò di sorridere a sua volta, ma senza riuscirvi. «Non capisco perché abbiate rischiato la vita per noi. Comunque ve ne ringraziamo.»

Il Fornaio si appoggiò alla parete. «Faccio questo tutte le volte che posso e senza alcun profitto personale. Quando i pattugliatori corrono dietro a qualcuno, io cerco sempre di aiutarlo. Odio i pattugliatori.»

Valona gemette: «E non si caccia mai nei guai?»

«Certo. Ma non crederete che mi fermi per così poco! Ho costruito il forno finto, proprio per non farmi acchiappare dai pattugliatori e per non cacciarmi in guai troppo grossi.»

Valona aveva spalancato gli occhi e nel suo sguardo c’era un’espressione mista di terrore e di meraviglia.

«E perché no?» disse il Fornaio. «Sapete quanti Signori ci sono su Florina? Diecimila. E sapete quanti pattugliatori? Ventimila al massimo. Mentre noi indigeni siamo cinquecento milioni. Se ci schierassimo tutti contro di loro…» Fece schioccare le dita.

Terens disse: «Ci metteremmo contro un muro di fucili disintegratori e di cannoni atomici, Fornaio.»

Il Fornaio replicò: «Già! Il fatto è che voi Borgomastri siete sempre vissuti troppo vicini ai Signori, e ne avete paura. E poi non volete esporvi. È una bella cosa starsene tranquilli, ma non è una bella cosa essere troppo cauti, Borgomastro. Ho l’impressione però che questa volta l’abbia fatta grossa, e ora avrà bisogno di aiuto perché sanno chi è.»

«No, non lo sanno» disse Terens.

«Avranno pure esaminato le sue carte, su nella Città Alta.»

«Chi ha detto ch’io sono stato nella Città Alta?»

«Così! Una mia deduzione, ma scommetto che è giusta.»

«Sì, le hanno guardate, ma non tanto attentamente da ricordare il mio nome.»

«Però sanno che lei è un Borgomastro. Probabilmente a quest’ora tutti i segnali di allarme di Florina saranno in agitazione. Sono convinto che la sua situazione è grave.»

«Può darsi.»

«Sa benissimo che è così. Allora, le serve aiuto?»

Avevano seguitato a parlare a voce bassissima. Rik si era accoccolato in un angolo e si era addormentato. Gli sguardi di Valona si spostavano continuamente dall’uno all’altro dei due interlocutori.

Terens scosse la testa. «No, grazie. Mi… me la caverò da solo.»

Il Fornaio scoppiò a ridere. «Mi piacerebbe sapere come. Senta, stanotte ci pensi su e chissà che alla fine non si decida a chiedermi aiuto.»


Gli occhi di Valona erano spalancati nelle tenebre. Il suo letto era una semplice coperta gettata sul pavimento, ma non vi si trovava molto peggio che negli altri letti ai quali era sempre stata abituata. Rik dormiva profondamente su un’altra coperta, nell’angolo dirimpetto. Nelle giornate di grande emozione, quando i dolori di testa di cui soffriva scomparivano, si addormentava ogni volta di un sonno profondo. Valona non riusciva a prender sonno. Sarebbe riuscita a dormire? Aveva assalito un pattugliatore!

Misteriosamente il suo ricordo tornò a suo padre e a sua madre.

Erano molto confusi nella sua mente. I pattugliatori l’avevano svegliata una notte rivolgendole delle domande che ella non riusciva ad afferrare ma alle quali aveva tentato di rispondere. Dopo di allora non aveva più riveduto i suoi genitori. Erano partiti, così le dissero, e il giorno seguente l’avevano mandata a lavorare quando i ragazzi della sua età avevano ancora due anni di tempo libero da dedicare esclusivamente ai giochi.

Perché la conversazione di quella notte le ricordava i suoi genitori?

«Valona.»

La voce le era così vicina che l’alito le mosse i capelli, e al tempo stesso così soffocata che a stento poté udirla.

Era il Borgomastro. «Non parlare» le disse. «Ascolta soltanto. Io me ne vado. La porta non è chiusa a chiave. Però ritornerò. Hai capito?»

Valona allungò una mano nelle tenebre, prese quella di lui e gliela strinse.

«E bada a Rik. Tienilo sempre vicino a te. E, Valona» seguì una lunga pausa, infine il Borgomastro riprese: «Non ti fidare troppo di quel Fornaio. Non so niente di lui.»

Valona intese un movimento lievissimo, uno scricchiolio lontano ancora più leggero, e si rese conto che il Borgomastro se n’era andato. Strizzò gli occhi nelle tenebre, sforzandosi di pensare. Come mai il Borgomastro l’aveva messa in guardia contro il Fornaio che odiava i pattugliatori e li aveva salvati? Come mai?

Scosse la testa. Tutto ciò le sembrava tanto strano! Se non fosse stato per quello che le aveva detto il Borgomastro non le sarebbe mai venuta in mente una idea simile.

Il silenzio irreale della stanza fu rotto da una domanda fatta a voce alta e in tono insolente: «Ehi? Siete ancora qui?»

Valona s’irrigidì mentre un fascio di luce la colpiva in pieno.

Aveva immediatamente riconosciuto l’interlocutore. La sagoma atticciata, massiccia torreggiò nella mezza luce che traspariva dalla torcia abbassata.

Il Fornaio disse: «Sai, credevo che saresti andata via con lui.»

Valona chiese con un fil di voce: «Con chi, signore?»

«Col Borgomastro. Lo sai bene che se ne è andato. Non sprecare il tempo a fingere.»

«Ma ha detto che tornerà.»

«Davvero? Se ha detto veramente così ha avuto torto perché i pattugliatori lo acciufferanno. Non è troppo furbo il tuo Borgomastro, altrimenti avrebbe capito che quando un uscio rimane aperto lo si lascia aperto per uno scopo ben preciso. Hai intenzione di andartene anche tu?»

Valona disse: «Io aspetto il Borgomastro.»

«Fa’ come ti pare. Ma dovrai aspettare un pezzo. Però puoi anche andartene quando vorrai.»

Improvvisamente il fascio della sua lampadina tascabile si spostò e prese a viaggiare lungo il pavimento, fissandosi poi sulla faccia pallida di Rik. Le palpebre di Rik sbatterono automaticamente sotto l’urto della luce, ma lui seguitò a dormire.

Il Fornaio si fece più pensieroso: «Ti consiglio però di andartene sola. Spero che tu mi capisca. Se decidi di tagliare la corda, la porta è aperta, ma bada che non è aperta per lui.»

«Ma non è che un povero diavolo ammalato…» cominciò Valona.

«Davvero? Be’, io faccio collezione di poveri diavoli ammalati. Che lui non si muova di qui. Intesi?»

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