Myrlyn Terens stava togliendo dal suo posto sullo scaffale un libro-film quando suonò il segnale della porta d’ingresso. La sua faccia gonfia era assorta in meditazione, ma immediatamente ogni traccia di concentrazione sparì. Il Borgomastro si passò una mano sui capelli radi, rossicci, e gridò: «Un momento.»
Ripose il film e premette il contatto che faceva tornare automaticamente a posto il pannello di copertura rendendolo indistinguibile dal resto della parete. Per gli umili contadini e operai dell’opificio con i quali aveva a che fare era oggetto di vago orgoglio che uno di loro, per nascita almeno, possedesse dei film.
Ma la loro vista avrebbe guastato le cose, avrebbe raggelato le loro lingue già non troppo articolate. Potevano vantarsi dei libri del loro Borgomastro, ma l’effettiva presenza di essi sotto i loro occhi avrebbe fatto troppo assomigliare Terens a un Signore.
Vi erano naturalmente anche i Signori. Era molto improbabile che qualcuno di loro lo venisse a trovare socialmente in casa sua, ma se uno di costoro fosse entrato per una ragione o per l’altra sarebbe stato poco prudente lasciare esposta una serie di film. Egli era un Borgomastro e la consuetudine gli consentiva alcuni privilegi, ma non era opportuno ostentarli.
Infine Terens spalancò la porta. «Entra, Valona. Siedi. Dev’essere certamente passata l’ora del coprifuoco. Spero che i pattugliatori non ti abbiano vista.»
«Non credo, Borgomastro.»
«Be’, speriamo. Purtroppo, come sai, hai dei pessimi precedenti.»
«Sì, Borgomastro, e le sono molto grata per quanto ha fatto per me in passato.»
«Lascia perdere. Su, siedi. Vuoi qualcosa?»
Valona sedette, impettita, sull’orlo di una seggiola e scosse la testa. «No, grazie, Borgomastro» disse. «Ho già mangiato.»
Terens le domandò: «Che cosa c’è, Valona? Si tratta un’altra volta di Rik?»
Valona annuì ma sembrava ammutolita e incapace di fornire ulteriori spiegazioni.
«Ha avuto dei guai all’opificio?» domandò Terens.
«No, Borgomastro.»
Terens attese, mentre i suoi occhi chiari si rimpicciolivano e assumevano un’espressione severa. «Insomma, Valona, parla, altrimenti non potrò aiutarti. Perché vuoi che io ti aiuti, immagino.»
Valona disse: «Sì, Borgomastro» quindi proruppe «ma come posso dirlo, Borgomastro? Mi sembra così assurdo.»
«Qualunque cosa sia, ti ascolto.»
«Ricorda, quando sono venuta a riferire della mia visita al dottore della Città e le ho ripetuto quel che lui mi aveva detto?»
«Sì, ricordo, Valona. E ricordo soprattutto di averti raccomandato di non fare mai più una cosa simile senza prima consultarmi. Questo lo ricordi?»
«Non oserei mai più fare una cosa del genere, Borgomastro. Solo voglio ricordarle che allora mi aveva detto che avrebbe fatto di tutto per aiutarmi a conservare Rik.»
«Ed è quello che farò. Dunque, i pattugliatori hanno chiesto di lui?»
«No. Oh, Borgomastro! Potrebbero farlo?»
«Sono convinto di no.» Terens cominciava a perdere la pazienza: «Su, andiamo, Valona, raccontami che cosa è successo.»
Gli occhi di lei si velarono. «Borgomastro, Rik dice che mi deve lasciare. Io voglio che glielo impedisca.»
«Perché ti vuole lasciare?»
«Perché, dice, comincia a ricordare molte cose.»
Un vivo interesse si dipinse sul volto di Terens. Si protese in avanti, e si trattenne a stento dal prenderle la mano. «Comincia a ricordare molte cose? Quali cose?»
Terens rammentò il giorno in cui Rik era stato trovato. Aveva veduto alcuni ragazzini stretti intorno a uno dei canali d’irrigazione che scorrevano appena fuori del paese. Essi lo avevano scorto e avevano alzato le loro voci stridule per chiamarlo.
«Borgomastro! Borgomastro!»
Si era messo a correre. «Che cosa c’è, Rasie?» Si era prefisso, appena era giunto al villaggio, d’imparare a memoria i nomi di tutti i ragazzini. Questo era piaciuto alle madri e aveva facilitato il suo compito, durante quei primi mesi.
Rasie era pallido come se stesse per dare di stomaco. Disse: «Guardi laggiù, Borgomastro.»
Rasie, un ragazzino dodicenne, nerissimo di capelli, aveva sentito i lamenti e si era avvicinato cautamente, aspettandosi di avere a che fare con un animale, magari un topo campagnolo che avrebbe fornito loro il pretesto per una allegra caccia, e così aveva scoperto Rik.
Uno dei ragazzi era scoppiato a ridere. «Guardi, Borgomastro! Si succhia le dita.»
L’improvvisa risata aveva disturbato la figura prona la cui faccia si era arrossata contorcendosi. A quella vista Terens si era scosso dallo stupore. Aveva detto: «Va bene, sentite, ragazzi, non dovreste essere qui a correre in un campo di kyrt. Filate via subito, e non dite niente di quello che avete visto. Tu però, Rasie, corri dal signor Jencus e digli di venire qui al più presto.»
Ull Jencus era quel che di più prossimo a un medico poteva offrire il villaggio. Aveva seguito un certo apprendistato negli ambulatori di un dottore vero e in base a questo era stato dispensato dal lavorare nelle fattorie e negli opifici. Sapeva misurare la febbre, somministrare pillole, fare iniezioni e quel che più importava sapeva capire quando una malattia era abbastanza grave per autorizzare il trasporto dell’infermo all’ospedale cittadino.
Jencus aiutò Terens a sollevare l’infelice, a montarlo su una motoretta e a trasportarlo in città nel modo più discreto possibile. Insieme lo lavarono e lo ripulirono del sudiciume che gli si era accumulato addosso. Jencus lo rapò a zero e fece quanto era in suo potere per visitarlo dal punto di vista clinico. Infine concluse: «Per conto mio non è contagiato da nessuna malattia infettiva, Borgomastro. Per nutrito è nutrito. Le costole non gli escono poi tanto in fuori. Proprio non so che diavolo abbia. Come crede che sia capitato qui, Borgomastro?»
Terens rispose: «Francamente non lo so.»
«Non può camminare, non può muovere un passo. Qualcuno deve averlo messo qui. Per quel che ne capisco io potrebbe essere un bambino appena nato. Sembra che non ricordi proprio niente di niente.»
«C’è una malattia che produce questo effetto?»
«No, che io sappia. Però potrebbe essere un’alterazione mentale, ma di queste cose io non m’intendo. Quando si tratta di casi di alterazione mentale io li mando subito alla Città. Lei quest’uomo non lo conosce proprio, Borgomastro?»
Terens sorrise e rispose con dolcezza: «Io sono arrivato da un mese soltanto.»
Jencus sospirò e si tastò in cerca del proprio fazzoletto. «Già. Il vecchio Borgomastro, che brav’uomo! Come si occupava di noi! Io sono qui da quasi sessanta anni, invece, ma questo tipo non l’ho mai visto prima. Dev’essere di un’altra città. Non so proprio che cosa raccontare ai pattugliatori.»
I quali vennero, naturalmente. Era impossibile evitarli. I ragazzi avevano parlato coi loro genitori; i genitori si erano consultati tra loro. La vita della cittadina era sempre così tranquilla. Si trattava di un avvenimento troppo insolito perché restasse segreto e perciò era impossibile che non giungesse all’orecchio dei pattugliatori.
I pattugliatori, così erano chiamati, appartenevano alla Squadra di Sorveglianza floriniana. Non erano nativi di Florina e d’altra parte non erano neppure compatrioti dei Signori abitatori del pianeta Sark. Erano semplici mercenari sui quali si poteva contare per mantenere l’ordine, lautamente pagati com’erano, senza che venissero spronati a mal fare per simpatia nei riguardi degli abitanti di Florina attraverso legami di sangue o di nascita.
Erano in due e li accompagnava un caposquadra dell’opificio.
I pattugliatori si mostrarono seccati e indifferenti. Uno di loro disse al caposquadra: «Be’, quanto ti ci vuole per eseguire una identificazione? Chi è quest’uomo?»
Il caposquadra scosse energicamente il capo: «Io non l’ho mai visto, Ufficiale. Non è uno di qui!»
Il pattugliatore si era rivolto a Jencus : «Non aveva qualche documento addosso?»
«Nossignore. Indosso non aveva che uno straccio che ho bruciato per impedire un possibile contagio.»
«Ma che cos’ha?»
«È senza cervello, a quel che ho capito.»
A questo punto Terens aveva preso in disparte i pattugliatori, che in quella circostanza imbarazzante si mostrarono condiscendenti. Il pattugliatore che aveva rivolto le domande ripose il proprio taccuino e disse: «Va bene, non vale la pena di stendere un rapporto per così poco. È una storia che non ci riguarda. Se ne sbarazzi come meglio crede.»
Quindi se ne erano andati.
Ma il caposquadra era rimasto. Era un uomo tutto efelidi, rosso di capelli, con due gran baffi a punta. Era un caposquadra di rigidi principi e teneva il proprio posto da cinque anni, il che significava che la responsabilità del raggiungimento della quota, per quanto riguardava l’opificio, poggiava in gran parte sulle sue spalle.
«Senta un po’» disse brusco «che cosa facciamo? La gente non fa che parlare e non lavora più.»
«Lo mandi all’ospedale della Città» disse Jencus manovrando affannosamente il proprio fazzoletto.
«Mandarlo alla Città?» Il caposquadra lo aveva guardato inorridito. «E chi pagherà le spese? Mica è uno di noi, vero?»
A questo punto era intervenuto Terens. «Stammi un po’ a sentire. Che cosa intendi fare, di preciso?»
Il caposquadra aveva risposto: «È come se fosse morto. Sarebbe un’opera di misericordia.»
«Ma non si può ammazzare una creatura che è ancora in vita.»
«Consigli lei allora quel che conviene fare.»
«Qualcuno del paese non se ne può occupare?»
«E chi si prende una briga simile? Lei, per caso?» Terens ignorò l’atteggiamento apertamente insolente. «Io ho altro da fare.»
«E nelle stesse condizioni sono tutti quanti. Non posso permettere che la gente trascuri il proprio lavoro all’opificio per occuparsi di questo disgraziato privo di cervello.»
Terens sospirò e disse senza rancore: «Stammi a sentire, Caposquadra, cerchiamo di essere ragionevoli. Se non raggiungi la quota durante il trimestre in corso posso imputare la cosa al fatto che uno dei tuoi operai si occupa di questo povero diavolo, e in tal caso parlerò io ai Signori in tua difesa. In caso contrario dirò semplicemente che non so per quale motivo tu non abbia raggiunto la quota, ammesso che questo effettivamente si verifichi.»
Il caposquadra era furibondo. Quel Borgomastro era al villaggio da un mese soltanto e già si intrometteva negli affari di chi ci abitava da tutta una vita; ma purtroppo possedeva una tessera recante il timbro dei Signori, e sarebbe stato poco prudente osteggiarlo apertamente.
Si limitò a chiedere: «Ma chi vuole che se lo prenda?» Improvvisamente un orribile sospetto lo colpì. «Io no, eh? Io non posso! Ho tre figli a carico e la moglie ammalata.»
«Non ho detto affatto che te lo debba prendere tu.»
Terens si era affacciato alla finestra. Ora che i pattugliatori se n’erano andati la folla inquieta e sussurrante si era assiepata intorno alla sua casa. Erano quasi tutti ragazzi, troppo giovani ancora per lavorare, altri invece erano contadini delle vicine fattorie. Pochi altri ancora erano operai, appena smontati dal turno.
Terens notò, ai margini della folla, quella ragazza alta. L’aveva osservata spesso nel mese che era trascorso. Era forte, capace, instancabile sul lavoro, e sotto la sua espressione malinconica si nascondeva una discreta intelligenza naturale.
Chiese: «Se lo affidassimo a quella?»
Il caposquadra si affacciò a guardare, e subito tuonò: «Maledizione! Dovrebbe essere al lavoro.»
«D’accordo» lo placò Terens «ma come si chiama?»
«Valona March.»
«È vero; adesso mi ricordo. Falla entrare.»
Da quel momento Terens si era autonominato tutore ufficioso dei due. Aveva fatto tutto il possibile per procurar loro razioni supplementari di cibo, tagliandi di vestiario extra e tutto ciò che era necessario per consentire a due adulti (di cui uno non immatricolato) di vivere delle entrate di uno solo. Si era adoperato per aiutarla a fare accettare Rik alla scuola di addestramento presso la manifattura di kyrt. Era intervenuto per impedire una punizione più grave quando Valona aveva litigato con un caporeparto. La morte del medico aveva reso inutile ogni suo eventuale tentativo di impedire che il rapporto di quest’ultimo giungesse in alto loco, però si era tenuto pronto a entrare in azione.
Era perciò naturale che Valona venisse da lui per consiglio e aiuto, e lui aspettava ora che la ragazza rispondesse alla sua domanda.
Valona esitava ancora. Infine mormorò: «Rik dice che tutti nel mondo dovranno morire.»
Terens la guardò sbalordito: «E non dice come?».
«Non lo sa. Ricorda soltanto di sapere questo da prima; da prima cioè di adesso. E dice anche di ricordare che aveva un’occupazione importante, ma io non riesco a capire di che si tratti.»
«Come te l’ha descritta?»
«Dice che an… analizzava il Nulla.» Valona lo guardò ansiosamente: «Lei sa cosa vuoi dire, Borgomastro?».
«Forse, Valona.»
«Ma, Borgomastro, come si può fare qualcosa col Nulla?»
Terens si alzò sorridendo. «Ma come, Valona, non lo sai che tutto ciò che si trova nella Galassia è pressoché Nulla?»
Nessuna luce di comprensione illuminò la faccia di Valona, ma la ragazza accettò supinamente la spiegazione: il Borgomastro era un uomo molto istruito. Con una inattesa punta d’orgoglio la ragazza ebbe la subitanea certezza che il suo Rik lo fosse ancora di più.
«Andiamo.» Terens le tese una mano. «Dov’è Rik?»
«A casa. Dorme.»
«Ti ci riconduco, dunque. Vuoi che i pattugliatori ti trovino per strada, sola?»
A quell’ora tarda il villaggio sembrava completamente svuotato di vita. Le luci lungo l’unica strada che divideva in due la zona delle baracche degli operai splendevano senza diffondere chiarore.
Valona non si era mai trattenuta fuori così tardi durante una sera feriale e aveva paura. Cercava di attutire il più possibile il suono dei propri passi, mentre tendeva l’orecchio nel terrore di udire l’approssimarsi dei pattugliatori.
Terens le disse: «Smettila di camminare in punta di piedi, Valona. Ci sono io con te.»
Nel grande silenzio la sua voce rimbombò come un colpo di tuono e Valona trasalì, quindi, obbedendo alle sue esortazioni, affrettò il passo. La capanna di Valona era al buio come le altre, quando essi vi entrarono. Terens era nato e cresciuto in una capanna identica a quella e benché in seguito fosse vissuto su Sark e occupasse attualmente una casa di tre stanze dotata di impianti sanitari, provava tuttora davanti allo squallore di quella misera abitazione un senso di vaga nostalgia. Era formata di un’unica stanza comprendente un letto, un cassettone, due seggiole, un pavimento di cemento e un gabinetto situato in un angolo.
Le installazioni di cucina erano inutili, giacché tutti pasti venivano consumati all’opificio, né serviva un bagno, poiché nello spazio dietro le capanne era sistemato tutto un complesso di bagni e docce comuni. Dato il clima mite e costante non esistevano finestre a protezione del freddo e della pioggia. Le quattro pareti erano forate da aperture schermate e le gronde sul tetto costituivano un riparo sufficiente contro le leggere pioggerelle notturne. Rik dormiva dietro un paravento.
Accennò con la testa nella sua direzione: «Sveglialo, Valona.»
Valona batté con le nocche contro il paravento: «Rik! Rik, ehi!»
Si sentì un grido soffocato.
«Sono io, Lona» disse subito la ragazza. Passarono al di là del paravento e Terens diresse il fascio della lampadina sulla faccia di Rik.
Rik alzò un braccio per proteggersi gli occhi. «Che c’è?»
«Rik» disse Terens. «Valona dice che tu cominci a ricordare molte cose.»
«Sì, Borgomastro.» Rik era sempre molto umile nei confronti del Borgomastro, il quale era la persona più importante che lui ricordasse di aver mai conosciuta.
Terens domandò: «Hai più ricordato altro dopo quanto hai detto a Valona?»
«No, Borgomastro.»
Terens congiunse le dita e disse: «Va bene, Rik. Rimettiti a dormire.»
Valona lo seguì sulla soglia della casa. Cercava disperatamente di non mostrare la propria ansietà ma non seppe trattenersi dal chiedere: «Dovrà lasciarmi, Borgomastro?»
Terens le prese le mani e disse con voce grave: «Tu sei ormai una donna adulta, Valona. Dovrà venire con me per un po’ di tempo, ma te lo riporterò, sta’ sicura.»
«E dopo?»
«Dopo, non so. Cerca di capire, Valona. Per il momento la cosa più importante è riuscire a sapere di più sui ricordi di Rik.»
Valona chiese all’improvviso: «Crede davvero, dunque, che tutti gli abitanti di Florina dovranno morire, come sostiene Rik?»
La stretta delle mani di Terens si fece quasi violenta: «Non rivelare quello che sai a nessuno, Valona, altrimenti i pattugliatori potrebbero portarti via Rik per sempre.»
Se ne andò e tornò lentamente verso la propria casa senza neppure accorgersi che gli tremavano le mani. Tentò invano di addormentarsi, e dopo un’ora d’insonnia decise di ricorrere al narcocampo. Era una delle poche cose di S?rk che aveva portato con sé quando era tornato su Florina per diventare il Borgomastro. Era un congegno che si adattava al cranio come una leggera calotta di feltro nero. Regolò i controlli su cinque ore e chiuse il contatto.
Ebbe appena il tempo di adagiarsi comodamente nel proprio letto che il contro-impulso ritardato trasmise il cortocircuito ai centri coscienti del suo cerebro avvolgendolo in un sonno senza sogni.