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Quel grido lamentoso salì in un crescendo e poi si spense. La Terra era sparita. Se ne erano allontanati. Anche il suo cielo era ormai dietro di loro. Un peso come una montagne opprimeva Trehearne, ed egli aveva terribilmente paura.

Attese che la pressione diminuisse. Le tempie gli scoppiavano, respirare era un’agonia e pensava: non può continuare così, bisogna che finisca. Ma non finiva. Ci fu un mutamento di tono nella vibrazione dei motori. Lo sentì salire, sempre più in alto, finché superò la barriera del suono e, mentre saliva, la pressione aumentava. La cassa toracica gli comprimeva i polmoni. Ogni cosa intorno a lui cominciò a ondeggiare e ad annebbiarsi, a svanire in un crepuscolo rossastro.

E la pressione cresceva.

Qualcosa gli stava accadendo. Qualcosa di strano e di inumano. Era un aviatore, un pilota provetto. Gli era già capitato di sperimentare gli effetti della pressione. Aveva affrontato tutti i rischi che un potente apparecchio può affrontare e non gli era mai capitato di venir meno. Ma questo era diverso. Questo se lo sentiva nelle fibre, negli atomi stessi del suo essere. Questa era una velocità di fronte a cui le velocità dei razzi più rapidi erano nulla. Questa era la velocità di un volo interstellare. Ed egli la sentiva lacerargli le cellule della sua propria carne, strapparle, fendere il tessuto della sua esistenza fisica. Una diversità, una condizione particolare della carne. "Per noi non c’è dubbio, ma per voi…".

L’angoscia divenne terrore, il terrore si mutò in panico cieco. Il suo corpo era sul punto di scindersi, di dissolversi in un’informe rovina, in un mucchio di brandelli sanguinolenti. Quel corpo di cui era stato tanto orgoglioso, questo essere stellare che era solo una beffa, un inganno. La mutazione non era riuscita. Sarebbe morto, avrebbe finito di essere. Sarebbe…

Lontano, lontano una voce, la voce di Shairn gridava: «Io l’ho ucciso. Povero Michael, non volevo che morisse!»

Povero Michael. Un bastardo, un simulacro vivente. Orgoglioso Michael, che pensava di essere così dannatamente in gamba e non valeva nulla. Idiota di un Michael che era corso dietro a una strega. Ed ella non aveva inteso farlo morire. Non si era adirata fino a questo punto perché egli l’aveva trattata da pari; non era stato bello forse, ma l’aveva trattata da pari a pari, benché non lo fosse. Era gentile da parte sua non desiderare realmente che morisse. Incominciò di nuovo a distinguere il suo viso. Non era sicuro se si trattasse di una visione reale o solo del ricordo di come gli era apparsa prima di entrare in agonia. Ma poteva vederla pallida, sconvolta. Era contento di poterla vedere. Sedeva di fronte a lui e non era molto lontana. In qualche modo, pressione o non pressione, l’avrebbe raggiunta. Avrebbe stretto le mani intorno al suo bianco collo e poi avrebbero dimenticato il volo interstellare e non sarebbe importato nulla che lui fosse un bastardo e lei no. Cominciò di nuovo a lottare contro la pressione.

Desiderava così poco! Solo alzarsi e percorrere la breve distanza che li separava e serrare le dita intorno alla nuca di lei premendo i pollici sulle grandi arterie. Così poco. Ed era rabbiosamente deciso a farlo. Lottò. Non aveva nulla con cui battersi se non la forza di volontà e l’istintivo impulso dell’organismo ad aggrapparsi alla vita sinché ne rimaneva anche un solo barlume. Voleva alzarsi, e lottava, una lotta interna senza suoni, né gesti, una cieca battaglia per riconquistare il controllo del proprio corpo. Il suo volto si contorceva come quello di un uomo che sollevi qualcosa di estremamente pesante e il sudore colava su di esso. Lentamente, le sue mani si mossero lungo i braccioli della poltrona, si contrassero, si serrarono a pugno. I muscoli delle braccia si tesero e poi anche i grandi fasci del torace e dell’addome in uno strenuo sforzo di movimento e i polmoni ripresero faticosamente a sollevarsi, inspirando, espirando e inspirando ancora e il debole battito del suo cuore si arrestò per un attimo, riprese vigore e tornò a farsi sentire con maggiore regolarità. La rossa nebbia che l’avvolgeva si dissipò un poco e riuscì a vedere Shairn più distintamente. Ella lo fissava con intensità, la bocca e gli occhi spalancati, comicamente sbalordita. Poi la testa di Edri si frappose tra loro, celandola al suo sguardo, e Edri gridava ma il sangue pulsava così violento nelle orecchie di Trehearne che non riusciva a distinguere le parole. Alzò una mano e cercò di respingere Edri. Non voleva perder di vista Shairn. Una terribile esaltazione lo possedeva. Stava per vincere. Stava per alzarsi e per fare ciò che desiderava. I tendini delle sue gambe si contorsero e si tesero. La pressione non lo opprimeva più così forte e le terribili vibrazioni della velocità non lo sconvolgevano più con tanta violenza. Si piegò un poco in avanti, traendo profondi, affannosi respiri e il suo corpo si irrigidiva e si tendeva…

«Vivrà, ce l’ha fatta. Michael…»

La voce di Shairn sottile e cauta gli giunse attraverso il rombare dei timpani. Per un momento non comprese il significato della frase. Poi lentamente gli si chiarì che cosa avesse inteso dire. E poi, ancora più lentamente, si rese conto che era vero. Sentiva la vita rifluire in lui. Ne riprendeva il controllo, un semplice fatto di tendere i muscoli in un certo modo e l’agonia delle vibrazioni diminuiva, gli atomi del suo corpo erano salvi da quella terribile dissoluzione. Era solo una questione di forza, non quel genere di forza che può sollevare enormi pesi, ma una forza più penetrante, una forza elastica che legava insieme i tessuti del corpo, rendendoli flessibili come l’acciaio. Da bambino se ne era servito senza saperlo, poi per anni nel collaudo di apparecchi a grandi velocità. Ecco perché non era svenuto, né era mai stato atterrito, come gli altri, dallo spettro dell’inerzia che li attendeva alla fine della picchiata. Ora infine aveva scoperto lo scopo cui il suo corpo era destinato. Dimenticò Shairn. Non gliene importava più nulla. Aveva vinto, era vivo, avrebbe vissuto e non era un inganno o un capriccio della natura e neppure un bastardo. La mutazione era riuscita. La vista gli si andava schiarendo rapidamente. Sollevò il capo e si guardò intorno e tutti lo fissavano intensamente, i Vardda, gli Stellari, che si erano dimostrati così sicuri della sua morte. Parlavano tra loro con voci eccitate, si alzavano e gli si avvicinavano ed Edri gli batteva sulle spalle. Li allontanò tutti e si alzò a sua volta.

«Sono uno di voi, ora» dichiarò. «Ho superato la prova.» Improvvisamente si sentì esausto e stremato dall’emozione ma non voleva mostrarlo. Stava eretto di fronte a loro; Shairn lo prese tra le braccia e lo baciò. Trehearne disse: «Siete contenta che non sia morto?»

«Certo. Oh, certo.»

«Vi sareste sentita un po’ colpevole, non è vero?» L’allontanò da sé e la guardò. Era molto bella. La sua gola palpitava bianca. Fissandola pensò a quanto avrebbe voluto fare solo pochi minuti prima, e poi scosse il capo. Disse lentamente: «Vi devo qualcosa, Shairn. Non lo dimenticherò.»

Il tono di lui non le piacque e corrugò la fronte in una linea oscura. Poi si girò e alle sue spalle Trehearne vide Kerrel, intento a fissarlo con uno strano sguardo che ricambiò come una sfida. «Non trovo nessun gusto a condannare un uomo, specialmente se non ho nulla contro di lui. Ma si creano altri problemi. Voi non potete averne un’idea, Trehearne, ma quello che avete compiuto vi mette automaticamente in conflitto con le norme fondamentali della legge dei Vardda, e non so come il Consiglio risolverà la questione.» Volse lo sguardo a Edri e disse con una voce curiosamente piana: «Ne potrebbero derivare le più gravi conseguenze.»

Se era un’esca, Edri non abboccò. Sorrise e osservò: «Non è il momento di preoccuparsi delle conseguenze. Andrò a cercare una cabina per Trehearne e una bottiglia per me e ci apparteremo per una piccola celebrazione. Un uomo non diventa un Vardda tutti i giorni.» Prese Trehearne per il gomito e lo sospinse verso la porta. «Andiamo.»

La nuova forza di Trehearne non l’aveva abbandonato — era in apparenza automatica, una volta in moto, come il battito del cuore — ma le sue risorse naturali gli sfuggivano come acqua da un setaccio. Uscì nel corridoio senza barcollare, ma dopo pochi passi si aggrappò alla parete e disse tristemente: «Penso che non ce la farò.»

Il corridoio gli sembrava lungo un miglio ma infine giunsero a una cabina, piccola e funzionale, e Trehearne si lasciò cadere sulla cuccetta. Edri si allontanò e ritornò dopo un minuto con una bottiglia. Il liquido, qualunque fosse, gli andò giù come fuoco ardente e Trehearne si sentì meglio. Depose il bicchiere e incominciò a guardarsi le mani, girandole e rigirandole come se non le avesse mai viste prima.

«Potrebbero essere le mani di chiunque» mormorò.

«Ma non lo sono. E voi non siete un uomo qualunque. Come Kerrel vi ha detto, non avete ancora idea di ciò che avete compiuto, ma col tempo ve ne renderete conto.»

«È vero, allora, della mutazione?»

«Oh, certo, del tutto vero. La forma e la struttura delle cellule del vostro corpo e del mio sono diverse da quelle degli altri uomini. A causa di questa diversa forma e struttura i vostri tessuti e i miei hanno nell’involucro delle cellule una forza di tensione che può resistere senza collassi all’incredibile pressione dell’accelerazione. E io credo non sappiate quale fortuna sia stata per voi che la mutazione fosse un carattere recessivo che alla fine si è affermato.» Riempì di nuovo i bicchieri lentamente, momentaneamente distratto da qualche suo remoto pensiero, poi aggiunse oscuramente: «Un giorno vi narrerò la storia di Orthis, che scoprì il segreto della mutazione. È una nobile e gloriosa storia ma ha una fine vergognosa. Egli… No. Dimenticate. Meno ne sapete meglio è. Inoltre stiamo celebrando l’avvenimento. Beveteci su.»

Trehearne bevve. La testa gli girava e si sentiva un vuoto dentro. Il bicchiere era pesante nelle sue mani. Chiese: «Vi saranno guai quando giungerò a Llirdis?»

«Abbastanza per allora, Trehearne. Preoccupatevene quando verrà il momento.»

Ma egli già non se ne dava più pensiero. Llirdis: pronunciò ancora quel nome ed esso suonò strano in bocca sua. Llirdis. Un nome e un mondo dei quali nulla aveva mai sentito fino a poche ore prima, e ora… il vuoto dentro di lui si riempì improvvisamente di una nostalgia, di un anelito misto a terrore. Girò lo sguardo sulle pareti di acciaio che lo rinchiudevano, e seppe dov’era, in una irreale astronave, con gente straniera, lanciata a una velocità superiore a quella della luce attraverso il nulla, verso una stella ignota… lo stomaco gli si contrasse, facendogli fluire un sapore amaro che gli bruciò la gola e le sue mani erano fredde come quelle di un morto. La Terra era scomparsa. La sua terra, il cielo, le montagne, l’alba, le vie delle città, le strade di campagna, i volti e le voci della gente, gli uomini con i quali aveva lavorato, le donne che aveva avute o che aveva desiderate, tutte le cose familiari: il traffico, i bar, i nomi delle nazioni i libri, i quadri, la storia; a che gli serviva ora tutta la storia che aveva studiato, dove collocare Cesare tra le stelle? La Terra era scomparsa e pure il Sole con lei e in un certo modo era come se fosse morto; e come ricominciare a vivere poi di nuovo, da straniero? Vi era questa cabina e al di là delle sue pareti non vi era mondo, né luce del Sole, nulla. Nulla.

Nulla…

Edri lo condusse rapido in una cameretta attigua, lasciandolo solo con i suoi pensieri, e poi premette un bottone accanto alla porta della cabina. Immediatamente comparve il medico di bordo. Lo sdraiarono di nuovo sulla cuccetta e un ago balenò nella luce sospingendolo in un mondo dove non vi erano neppure sogni.

Sullo schermo numero Quattro della cabina di comando dell’astronave un piccolo punto che rappresentava un isolato sole giallo, tremolò, impallidì e scomparve.

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