Erano giunti ai limiti ultimi della Galassia, dove le stelle dell’orlo estremo si perdevano nel vuoto e gli astri spenti vagavano per sempre in un’oscurità di tomba, dove perfino la memoria della creazione era scomparsa, cancellata da un tempo inimmaginabile. Non vi era alcuna frontiera definitiva ma solo una vaga regione di confine tra il brulichio delle stelle scintillanti e il nero abisso al di là.
Trehearne cercava di ricordarsi quanto tempo era passato da quando erano partiti da Thuvis. Non ci riusciva. Il tempo sembrava stranamente elastico quando si erano perduti tutti i punti di riferimento familiari. Vi rinunciò. Non importava. Scrutava con dolenti occhi arrossati i mari senza luce che si stendevano tra le isole degli universi e cercava di ricordare perché era venuto fin lì. E anche questo si confondeva nella sua mente.
Edri era curvo su un tavolo sistemato sul ponte. Non sembrava più l’Edri di una volta. Pareva che avesse lavorato per un milione d’anni. Arrin gli sedeva accanto. Si teneva la testa tra le mani ossute, simile a una barbuta mummia, a malapena conservando una parvenza di vita. Vi erano carte tra le mani di Edri, interminabili fogli di calcoli e di grafici, interminabili serie di cifre. Joris le studiava, chinandosi accanto a Edri. Le sue larghe mascelle ricadevano flosce sul colletto spiegazzato. Gli occhi si erano infossati profondamente nell’orbita da cui balenavano come dal mondo di due caverne.
Edri parlava con una voce che pareva venire da lontano. Le parole giungevano a Trehearne a ondate confuse come da oltre la nebbia di stanchezza che lo avvolgeva.
«… così l’unico modo che ci restava per individuare la posizione della nave di Orthis era di triangolarla da due direzioni. Una di esse era rappresentata dalla rotta di quella scialuppa che Orthis spedì col suo ultimo messaggio, calcolando le eventuali deviazioni causate dal campo gravitazionale delle stelle. L’altra direzione era la rotta di Orthis nel suo ultimo volo. Non riuscimmo a individuarle finché io non trovai quella parte del manoscritto di Lankar che Arrin non aveva.»
Trehearne udì qualcuno chiedere: «Chi era Lankar?»
«Uno degli ultimi inseguitori di Orthis che lasciò un diario di bordo segreto sull’inseguimento per alleggerirsi la coscienza. Ne è rimasto abbastanza…»
Joris disse: «Al diavolo Lankar.»
«Dovemmo rintracciare le astromappe per riportarle alle condizioni di quel tempo: moto galattico, flusso stellare, un milione di complicati problemi di moto relativo e moto assoluto indietro di cinquecento anni e di altri cinquecento, e infine compararle. Trovandoci di fronte a un numero quasi illimitato di variabili come questo, si poteva raggiungere il risultato prefisso soltanto servendoci delle più grandi macchine di precisione e calcolatrici elettroniche di Llirdis. E ciò significa che si doveva agire segretamente e per gradi. Si è lavorato per lungo, lungo tempo.»
Edri trasse un profondo sospiro a cui si accompagnò uno sbadiglio di stanchezza.
«Le mappe risultanti indicano un’oscura stella sconosciuta che segue la sua orbita qui, fuori dalla corrente principale della Galassia.» Tracciò una linea con un dito. «Queste mappe rappresentanti le stelle del margine estremo della Galassia non sono complete, come sapete. Non c’è nulla che possa guidarci fino a queste regioni abbandonate da Dio che nessuno ha mai veramente esplorato. Ma secondo i nostri calcoli, questa stella oscura, era esattamente qui un migliaio di anni fa e la scialuppa di Orthis si lanciò da essa. Ora la Galassia ha compiuto un movimento di rotazione in questo senso trascinando le stella oscura con sé…»
Posò la mano sull’intersezione di due linee tracciate sulla mappa, osservandole.
«Ecco la nostra destinazione, Joris. Se abbiamo ragione, la nave di Orthis si trova qui. Se abbiamo torto… ebbene, qualcun altro dovrà ritentare tra un migliaio d’anni.»
Rimase ritto e silenzioso, le mani appoggiate al tavolo, troppo stanco per muoversi. Joris si strofinò gli occhi affaticati e cominciò a leggere ad alta voce le coordinate sulla mappa. Meccanicamente il secondo ufficiale riportò la combinazione sul telescopio.
Joris ritornò pesantemente al posto di pilotaggio. Quando il telescopio segnalò con uno scatto secco la nuova rotta, egli vi diresse la Mirzim. Poi parlò attraverso il microfono alla sezione radar. «In che posizione si trova ora il caccia?»
Gli rispose una voce rauca. Ascoltò, poi si volse agli altri. «Più vicino» disse. «Sempre più vicino.»
La mente di Trehearne ricadde nel suo costante dormiveglia d’incubo. Il caccia, lanciato all’inseguimento, incalzante, accanito, persistente, implacabile. Riviveva penosamente ogni manovra, ogni stratagemma per mezzo dei quali Joris aveva cercato di ritardare la corsa dei loro inseguitori, di guadagnare un poco più di tempo, un poco più di distanza.
Ricordava il disperato tuffo in un’oscura nebulosa quando il caccia era così vicino che quasi li raggiungeva. Ricordava come avevano vagato, girandosi e rigirandosi dentro l’oscurità della nebulosa, dove l’impalpabile polvere cosmica annebbiava il radar. Là dentro avevano perduto le tracce del caccia. Ne erano usciti e per un poco avevano sperato. Avevano raggiunto la zona di confine, e allora la scintilla rossa era riapparsa sullo schermo sempre più vicina.
Vi erano momenti in cui Trehearne dimenticava che il caccia era un’entità fisica, un’astronave di comune metallo il cui equipaggio era composto semplicemente di uomini e di ufficiali Vardda. In quei momenti gli sembrava che la Mirzim fosse inseguita da una nemesi demoniaca, una nemesi che aveva il volto di Kerrel e le mani di Kerrel stese a ghermirli.
Talvolta il viso di Shairn appariva accanto a quello di Kerrel, pallido, ermetico, densa nuvola che oscurava le stelle.
La voce rauca dell’addetto al radar si faceva udire a intervalli. L’astronave proseguiva il suo volo verso la stella oscura.
Joris finalmente si mosse. La tavola era stata portata altrove, le mappe e i laboriosi calcoli arrotolati e messi da parte. Arrin giaceva sul ponte accanto alla paratia di prua, addormentato. Non voleva lasciare il ponte finché non avesse saputo se la sua vita e il suo lavoro erano stati spesi invano. Edri sedeva vicino a lui. Non dormiva.
Joris disse: «Non riuscirà.»
Edri non rispose. Aspettava.
Joris proseguì, come se gli ripugnasse parlare ma vi fosse costretto: «Senti. Non appena inizierò la manovra di decelerazione, il caccia comincerà a intralciarci la strada. E hanno un tempo di decelerazione minore di quello che io posso ottenere senza mandare in pezzi la Mirzim. Che cosa accadrà? Piomberanno su di noi prima che possiamo iniziare la nostra ricerca.»
Edri annuì. Si appoggiò contro la paratia e chiuse gli occhi. Disse: «Ora sanno che cosa cerchiamo. Che cosa supponi farebbe Kerrel se trovasse l’astronave di Orthis?»
Nessuno rispose. Non ce n’era bisogno. Seguì un pesante silenzio, durante il quale Trehearne pensò ai messaggi che si erano succeduti per la Galassia, trasmessi dall’ultrasonico del caccia, messaggi calcolati che tradivano nella loro stessa laconicità il carattere disperato di quella missione, richieste urgenti che altri astrocaccia del Consiglio venissero inviati a tutta velocità. Ma questi altri erano ancora troppo lontani per destare preoccupazioni. Qualunque cosa fosse accaduta sarebbe accaduta prima che sopraggiungessero. Kerrel avrebbe finito la sua impresa da solo.
Edri chiese: «Che cosa faremo?»
Joris si passò la grande mano sul volto arido, sbatté gli occhi e disse: «L’unica cosa che ci resta da fare se l’astronave e il segreto di Orthis sono realmente là, è di trasportarvi il nostro equipaggiamento ultrasonico in tempo per fare quanto abbiamo stabilito.» Continuò lentamente: «Penso che la nostra lancia sia in grado di trasportare l’equipaggiamento. Se cariamo la lancia essa potrebbe volare con velocità costante per un certo periodo di tempo prima di dover iniziare la manovra di decelerazione. Nel frattempo io potrei far deviare la Mirzim su un’altra rotta ritornando lungo l’orlo della Galassia, lontano dalla stella oscura. Il caccia seguirebbe me. Esiste la possibilità che concentrando il radar su di me per cogliere l’entità della mia deviazione di rotta, non notino affatto la lancia nel momento in cui inizierà la decelerazione.»
Sospirò. «Ci prenderebbero naturalmente. Ma la Mirzim non potrebbe continuare per sempre dopo la batosta che ha subito. I generatori sono in cattive condizioni, potremmo però resistere abbastanza da darvi tempo.»
Edri meditò. «Non mi va» commentò. «Ma sembra che sia l’unica soluzione possibile.»
Joris stava mormorando qualcosa tra sé riguardo al massimo carico e capacità.
«L’essenziale equipaggiamento ultrasonico» disse «e tre uomini. L’astrolancia può farcela. Noi terremmo naturalmente l’impianto ultrasonico ausiliario a bordo.»
«Di chi puoi fare a meno? Avrai bisogno di tutti i tecnici di volo.»
«Di me» disse Trehearne. «Sono il meno necessario. Posso ancora resistere se ce n’è bisogno.»
Joris annuì. «Sì. Quorn deve andare per azionare l’ultrasonico, naturalmente, e può anche pilotare la lancia.»
«Chi altro?»
«Tu» disse Joris.
Edri guardò Arrin che dormiva. «Dovrebbe andare lui al mio posto. Ha lavorato per questo assai più di me.» Era evidente che Arrin non era in grado di muoversi e Edri sospirò. Si drizzò in piedi. «Benissimo, allora. Andiamo, Trehearne. Cominciamo a caricare.»
La lancia si trovava in una cella apposita, ricavata nel fianco della Mirzim: un’astronave in miniatura con un’autonomia di volo tale da dare all’equipaggio di una nave disarmata la possibilità di mettersi in salvo. Ma superata questa autonomia non c’era speranza di salvezza.
Trehearne chiamò a raccolta tutti gli uomini che erano disponibili e potevano tenersi in piedi. Seguendo gli ordini di Edri liberarono la lancia da tutto quanto non era strettamente necessario. Quorn si occupò di far rimuovere il pesante apparato radio ultrasonico dalla Mirzim e di farlo caricare sulla lancia.
Si dimostrò in questo eccessivamente pedante. Trehearne imprecò e sudò, ma finalmente tutto fu pronto. Poi ritornò sul ponte con Edri e Quorn. Joris studiava i suoi strumenti.
«Tra poco.» Diede a Quorn le istruzioni di volo «Trehearne è ancora un principiante» osservò «ma ormai ne sa abbastanza da darvi una mano se è necessario.»
Edri disse: «Arrenditi appena te lo intimano, Joris.»
Joris rise, un pallido fantasma della sua antica risata sonora. «Certamente. In questo momento sono stanco da morire.» Gettò ancora un’occhiata agli strumenti. «È tempo di muoversi.»
Si guardarono l’un l’altro, questi uomini dagli occhi stanchi, ubriachi di fatica, che un sogno aveva trascinato ai margini dell’Universo, e nel momento della separazione non riuscirono a trovare nulla da dirsi.
«Buona fortuna» mormorò Edri e si volse.
«Siete voi che andate, ad averne bisogno» gridò loro Joris.
Trehearne salì dopo Quorn e Edri nella lancia.
Azionarono la chiusura ermetica e poi Quorn prese i comandi e attese, gli occhi fissi al cronometro. La sua mano toccò lievemente un bottone rosso su cui era scritto LANCIO.
Lo premette.
Ci fu un sibilo e un vibrare di macchine, una sensazione di forze ultraveloci al lavoro, mentre il complicato congegno di lancio compiva il suo lavoro, un attimo di estrema pressione, e la lancia aveva lasciato la Mirzim. Dall’interno non potevano vedere nulla, ma si accorsero che lancia e astronave si erano già separate a incredibile velocità.
Quom teneva gli occhi fissi sugli strumenti mentre Trehearne e Edri sedevano guardando nel vuoto, con il timore di addormentarsi e di non potersi più risvegliare. Rimasero seduti, agitandosi irrequieti ad aspettare, finché Quorn diede finalmente l’avvio al generatore e iniziò la decelerazione.
Trehearne perdette il senso delle cose. Per la maggior parte del tempo che seguì rimase privo di coscienza o pressappoco, per il resto vide svolgersi tutto come in un sogno continuo. Pensava come un tempo era stato posseduto dal selvaggio desiderio di volare tra le stelle. Ma riuscì a eseguire quanto Quorn gli chiedeva.
L’oblò si schiarì, non c’era amplificatore, e funzionava da oblò solo a velocità visive. Ora, Trehearne poté distinguere nel buio un’imponente mole di oscurità solo debolmente illuminata dal riflesso della Galassia.
«Eccoci» dissi Edri. «La stella oscura.» La voce gli tremava un po’.
Vi si avvicinarono, sempre rallentando. «Ha un pianeta» disse Quorn «Eccolo, che si scalda al lume delle stelle…»
«Due» lo corresse Trehearne. «Ne vedo due.»
Due corpi dalla fiacca luminosità, mondi morti stretti attorno a un astro morto da tempo, oltre i confini della Galassia. Il bagliore della Via Lattea li sfiorava, un fantomatico lume di candele, riuscendo solo a rendere anche più evidente la loro tetra oscurità e il loro isolamento.
Edri mormorò: «Ebbene, punta sul pianeta esterno per primo. Dammi una mano, Trehearne.»
Strisciarono a poppa tra i mucchi degli attrezzi in cerca di un rivelatore Geiger proveniente dalla stiva della Mirzim. Edri lo afferrò nervosamente.
«Ai tempi di Orthis usavano combustibile radioattivo, naturalmente» mormorò Edri. «Nei nostri calcoli ne abbiamo dimezzato la durata. Anche supponendo che le riserve fossero quasi finite, ne dovrebbe essere rimasto abbastanza da essere registrato dal contatore. Una manciata sarebbe sufficiente.»
Trehearne aiutò Edri a sistemare la copertura protettiva sul meccanismo finché l’indice si fermò.
«E i depositi radioattivi dei pianeti stessi?» chiese.
«Abbiamo pensato anche a questo. Troppo antichi. L’ultimo elemento radioattivo dovrebbe essersi praticamente esaurito milioni di anni fa.» Alzò la voce. «Tieni la lancia più bassa che puoi, Quorn. Lo strumento ha il massimo raggio in estensione. Fallo funzionare lentamente.»
Si curvò sull’indice indicatore. Trehearne si affacciò di nuovo a guardare.
Il pianeta era piccolo, meno di duemila miglia di diametro. Tra le fitte tenebre e il movimento della lancia, non riusciva a veder nulla se non una nera informe desolazione, rotta qua e là da un biancore che pensò fossero i residui gelati di un’atmosfera. Immaginò che cosa sarebbe stato atterrare laggiù, e rabbrividì.
Perlustrarono e ispezionarono accuratamente il pianeta. L’indice del contatore non si mosse. Edri disse gravemente: «Continueremo. Pregate il cielo che lo troviamo sull’altro pianeta. Pregate che Orthis non sia approdato sulla stella oscura. Ci vorrebbe un’eternità a rintracciarlo là.»
Quom aumentò la potenza di volo e si allontanò. L’oblò si offuscò di nuovo, ed Edri gemette.
«Edri sta per crollare» osservò Quorn. «Sembra che qualunque cosa si faccia, dovremo sfruttare al massimo le nostre forze.»
Il secondo pianeta era più grande del primo circa di tre volte. Non soltanto era informe. Vi si innalzavano catene montuose accidentate e corrose, nudi scheletri di montagne avvolti in gelidi vapori. Vi si stendevano desolate pianure coperte di bianca aria congelata, debolmente balenanti alla luce della grande ruota galattica.
Esso mostrava agli osservatori i fondi vuoti dei suoi oceani scomparsi, riassorbiti fino al golfo più profondo. Rivelava le cicatrici della sua lunga agonia, le ferite brutali dell’esplosione interna, le profonde incisioni della sua crosta contratta. Un mondo orrendo che ancora pareva rammentare l’antica bellezza e risentire la crudeltà della morte.
Edri sussurrò: «Pregate, pregate che questo dannato affare si muova.» Ma invece lanciò un’imprecazione all’indirizzo dell’indice che non si muoveva.
«Continuiamo» disse Trehearne.
Continuarono.
L’indice ebbe una lieve oscillazione.
Edri emise un grido roco. «Rallenta! Rallenta!» Le lacrime cominciarono a scorrergli per le guance. Scoppiò in singhiozzi. L’indice era ancora immobile.
«Voliamo in circoli!» gridò Trehearne a Quorn. «Voliamo in circoli finché non individuiamo il punto esatto.»
Si passò la lingua sulle labbra. Sentì un sapore di sale e si chiese meravigliato che cosa fosse mai.
Quorn fece descrivere alla lancia una spirale restringentesi, finché Edri disse: «Ora scendi.»
Poi si avvicinò all’oblò e vi premette il viso contro cercando di vedere. Quorn accese uno dei fari d’atterraggio. Il bagliore bianco-azzurro illuminò un’area circolare al di sotto, che si staccò netta dalla fitta oscurità. Il fascio di luce perforò nitidamente lo spazio.
Lo seguirono. Era come se la lancia sprofondasse posata su quel guanciale di luce. Si trovavano al di sopra di una superficie planetaria dilaniata e torturata dall’ultima fase diastrofica. Torreggiante da una paurosa altezza, incombeva un possente e accidentato sperone roccioso. Ai suoi piedi si apriva un baratro e, al di là del baratro si stendeva un desolato paesaggio sconvolto, nebuloso, sotto la grande lama di luce della Galassia.
Discesero lungo la parete del titanico sperone. Guardando entro l’abisso, alla sua base, Trehearne cominciò a sentirsi inquieto.
«Non vi sono astronavi qui» osservò. «Il contatore deve aver registrato qualche ultima radiazione proveniente dal fondo di questo baratro.»
Quorn assentì. Ma Edri disse: «No, continua.» Trehearne lo sentiva tremare.
Continuarono a discendere lungo la gigantesca parete minacciosa. D’un tratto Trehearne indicò qualcosa: «Non c’è un ripiano roccioso laggiù?»
Il nitido fascio di luce del faro rivelò un pianoro roccioso che si sporgeva nel vuoto a metà della parete.
Quorn volse la lancia in quella direzione. Qualcosa su quel ripiano balenò lievemente alla luce. Quorn fece scendere la lancia a una velocità vertiginosa. I particolari si rivelarono nitidi: la roccia scheggiata, il magma antico, le bolle di aria gelata nelle cavità. E tra esse una forma ovoidale, simmetrica, liscia, che mandava un lieve riflesso metallico.
Edri disse il nome di Orthis come se stesse pregando.