La mente di Trehearne si schiarì con uno sforzo quasi fisico. I fumi del vino e la fitta oscurità, succeduta al colpo, si diradarono. Il dolore rimase, ma riusciva a pensare. Riusciva a ricordare. Il pianeta della stella variabile.
L’uomo vestito di scuro, che diceva: "Delitto".
Delitto. Yann.
"Non ringraziare me, è Yann che ti ha salvato. Lui ha riavvitato il tuo respiratore…"
Pazzie. Non poteva essere stato Yann.
Ecco com’era. Lui li aveva seguiti docilmente nella trappola e si era seduto docilmente a bere mentre Yann e Kurat parlavano allegramente di come farlo fuori, precisando i particolari.
Il latrato della muta era vicino.
Non volevano che il suo corpo rimanesse nella casupola o in città. Non volevano che la cosa avesse l’aspetto del delitto. Lo avrebbero portato nella foresta, e poi gli avrebbero aizzato contro i segugi, lasciandoli a compier l’opera. Chi si poteva accusare se un Vardda ubriaco si era spinto fin là dove non aveva nulla da fare ed era stato assalito da una muta di segugi? Si chiese se Yann e Kurat stessero seguendo la caccia. Si chiese perché Yann volesse sopprimerlo.
Yann. Quello sporco traditore figlio di un cane…
Trehearne cominciò a correre.
Le viti che si arrampicavano in un groviglio su per gli alberi di cristallo erano come lacci tesi a imprigionargli i piedi. Cadde e si alzò e si mise a correre di nuovo e il terreno melmoso affondava morbido sotto i suoi piedi come sabbia. Aveva caldo, e si sentiva pesante, pesante dell’impaccio di quel pesante pianeta.
Dietro di lui, nitido e acuto, era l’yap-yap-yaaahh! delle gigantesche donnole di Kurat lanciate su una pista fresca. I rami di cristallo scintillavano e balenavano le punte lucenti al chiarore delle stelle aguzze come lance. Trehearne si fermò e tentò di spezzarne una ed era come tentare di spezzare una sbarra di acciaio con le mani nude. Vi rinunciò e fuggì via, senza sapere dove fosse e dove stesse andando, con l’unica volontà di tenersi il più lontano possibile dagli agili demoni bianchi che lo inseguivano. Si trovò dinanzi un piccolo fiume, nero e tiepido. Vi entrò a guado, seguendo la corrente, immergendovisi fino alla vita, nuotando nelle pozze più fonde. L’aspro sapore del vino gli aveva messo sete e bevve. L’acqua aveva un disgustoso sapore di pece e calcina e la sputò, ansimando. Udì il latrato dei segugi mutarsi in un guaito lamentoso mentre esploravano le rive, là dove egli si era tuffato. Si adagiò sul fondo e li ascoltò correre avanti e indietro. Gli parve di udire una voce d’uomo gridare, ma non ne era sicuro. Proseguì, abbandonando il fiume e addentrandosi nella foresta. Le grandi stelle gli incombevano sul capo e il suo corpo era oppresso dal peso della gravitazione.
Invocò di poter trovare un ramo caduto, ma non ce n’erano. Invocò di ritrovare il villaggio, ma anche questo gli era impossibile. Corse pesantemente sotto gli alberi scintillanti e alle sue spalle gli animali emisero d’improvviso un latrato sonoro, pieno, più lontano ora, ma ugualmente raccapricciante. Non ci sarebbe voluto molto perché lo raggiungessero.
Misurò gli alberi con uno sguardo per arrampicarvisi e cercarvi rifugio. Erano vitrei, deformi, e bassi. Ricordò i lunghi corpi scattanti delle bestie simili a donnole. Pensò che avrebbero potuto spiccar salti alti quanto bastava per gettarlo a terra. Proseguì barcollando e ogni volta che cadeva era più difficile rialzarsi. Un’ira terribile era in lui, ira contro Yann. Non era leale. Non era leale obbligare un uomo a fuggire così per salvarsi la vita in un mondo in cui non era possibile fuggire. L’ululato della muta si avvicinava.
D’un tratto, da chissà dove, più avanti, rispose il latrato di altri segugi. Non aveva senso proseguire. Inghiottì l’amaro nodo di paura che gli attanagliava la gola e cercò un’arma, qualcosa, qualunque cosa da tener in mano con la quale colpire almeno un poco prima di esser sbranato.
Si avvide che i latrati degli animali più avanti provenivano sempre dallo stesso luogo. Erano di irritazione. Non stavano cacciando. Erano alla catena. Trehearne trasse un profondo respiro. Ricominciò a correre.
C’era una radura. La vide davanti a sé, indistinta, tra il lume delle stelle e gli alberi. Fece uno sforzo per raggiungerla e la muta tumultuava alle sue spalle. Inciampò e cadde bocconi e ne fu quasi contento perché andò a finire su un groviglio di rami, accumulatisi quando gli alberi di cristallo erano stati abbattuti. Ne raccolse uno. Non era lungo, ma era acuminato e pesante. Era meglio che niente. Si lanciò con esso verso l’orlo della radura e là i segugi lo aggredirono.
Veloci e flessuosi, bianchi come ghiaccio al chiarore delle stelle, giunsero balzando leggeri tra gli alberi scintillanti. Ulularono una volta, tutti insieme, e poi s’acquetarono, poi scattarono come frecce, lanciati verso di lui attraverso l’aria. S’appoggiò col dorso a un tronco vitreo e vibrò il ramo di cristallo spezzato. Ne colpì qualcuno. Ma le loro zanne gli s’immergevano nella carne come ferri roventi.
Nel mezzo della radura sorgeva una capanna. Quattro segugi erano legati, lì accanto. Si trattava di quelli che avevano risposto con i loro latrati alla muta di Kurat. Ora digrignavano i denti, guaivano e cercavano di liberarsi dalla catena. Un uomo, una donna e un ragazzo alto uscirono dalla capanna. Il ragazzo si diede a correre verso Trehearne gridando. L’uomo lo trattenne. Gli disse qualcosa e lo costrinse a quietarsi. Rimasero là, a guardare.
Trehearne uccise uno dei segugi e ne azzoppò un altro con il suo bastone di cristallo. Gli altri sei tumultuavano intorno a lui, un mobile groviglio di corpi che balzavano e saltavano, avventandosi con i bianchi coltelli dei denti. Il sangue cominciò a scorrere sul corpo di Trehearne. Colpì e colpì ancora e chiamò aiuto invocando l’uomo e la donna che contemplavano la scena con aria ottusa.
Non si mossero. Il ragazzo tentò di correre verso di lui, ma l’uomo lo acciuffò. Trehearne emise un suono rauco e lasciò cadere il ramo. Uno dei mostri lo aveva avvinghiato a un polso. Il peso dell’animale lo fece cadere sulle ginocchia e comprese che era la fine, l’ultimo dei suoi viaggi tra le stelle. Si liberò dalla presa delle robuste mascelle serrate sulla sua carne e scagliò il mostro come una catapulta sul muso dei suoi compagni e poi non poté dominare la situazione più a lungo e la muta si strinse intorno a lui.
Il ragazzo era sgusciato nell’ombra della capanna. Ora, improvvisamente, si lanciò avanti e sciolse la catena dal collo dei segugi legati.
Essi attraversarono la radura balzando oltre i monconi dei rami e si avventarono sulla muta di Kurat.
Per un momento le belve dimenticarono Trehearne. Egli si liberò a fatica dal groviglio ringhiante e si diresse verso la capanna. L’uomo gli passò accanto di corsa urlando. Raccolse un ramo e cominciò a battere i segugi in lotta, tentando disperatamente di separarli. La donna lamentandosi corse ad aiutarlo. Il ragazzo si avvicinò a Trehearne.
Doveva avere poco più di sedici anni, era alto e ben fatto. Passò un braccio intorno alla vita di Trehearne, lo condusse nella capanna e lo fece sedere. Trehearne si lasciò cadere su una panca. La camera vacillò e si oscurò intorno a lui. Quando la vista gli si schiarì, il ragazzo aveva portato delle bende e un unguento bruciante ed era intento a medicargli le ferite.
«Come ti chiami?» chiese Trehearne nella lingua franca.
«Torin.»
«Mi hai salvato la vita, Torin. Non lo dimenticherò.»
«Farei qualunque cosa per i Vardda.» Invece di odio vi era in quel viso di non-Vardda un’ammirazione come per un eroe. Era evidente che agli occhi del ragazzo Trehearne era una figura gloriosa. Trehearne ne fu colpito.
Torin lo fissava attonito, dimenticando la fasciatura. E fece la domanda, la vecchia e immutabile domanda che era sempre sulle labbra dei ragazzi. «Che cosa si prova, che cosa si prova esattamente a volare tra le stelle?»
Trehearne posò una mano sull’esile spalla del ragazzo e mentì. «È lungo e faticoso e neppure la metà avventuroso come la caccia. Scommetterei che sei un buon cacciatore come tuo padre.»
«Non ancora» disse Torin. «Un giorno…» Si chinò di nuovo sulle bende. Le sue dita passavano sulla carne di Trehearne, toccando i muscoli, spalmando leggermente le ferite con il denso unguento. Si accigliò, assorto in qualche suo problema. «Al tatto è come la mia» disse. «Sanguina come la mia. Qui vi è una vecchia cicatrice e ve ne saranno delle nuove. Non è una carne diversa, fatta di ferro o di qualche altra cosa.»
Balzò su. «Guardate» gridò. «Io sono forte, molto forte. Guardate, la mia carne è dura come la vostra. Certo non è vero che solo i Vardda possono volare nelle grandi astronavi! Certo io sono forte abbastanza per avventurarmi tra le stelle.»
Trehearne evitava d’incontrare i suoi occhi ansiosi. Disse:
«Ci vuole un tipo diverso di forza.» Tentò di spiegargli e vi rinunciò. Poté solo dire: «Mi dispiace.»
Si alzò. «Vorresti farmi strada fino alla base, Torin? E pensa a che cosa ti piacerebbe avere di tutte le cose che sono là. Tu mi hai salvato la vita e io voglio darti qualcosa in cambio, un piccolo regalo tra amici.»
Torin sussurrò: «Voglio vedere l’astronave.»
Trehearne aggrottò la fronte e nell’intervallo di silenzio che seguì, udì rumori provenire dalla radura, il brontolio lamentoso dei segugi e l’improvviso levarsi di voci umane.
«Sono i tuoi genitori?»
«No» disse Torin. «Stanno ancora cercando di rintracciare i nostri segugi nella foresta.»
«Da’ un’occhiata fuori per vedere chi è venuto, Torin.»
Si rintanò nell’angolo dietro la porta, il ragazzo l’aprì e sbirciò fuori.
«Due uomini» bisbigliò. «Un cacciatole a nome Kurat, e un Vardda.» Tornò dentro e gettò un’occhiata a Trehearne. «Vi davano la caccia?»
Trehearne annuì. Il suo viso si era teso in un’espressione crudele. «Dammi un coltello.» Torin gli tese un coltello per la concia delle pelli dalla lama di cristallo affilata come quella di un rasoio. Trehearne disse: «Va’ a dir loro che io sono morto sbranato dai segugi. Di’ al Vardda di venire ad aiutarti a portar fuori il mio corpo.»
Torin esitò, poi si mosse. Trehearne lo udì dare una voce per la radura. Il chiacchiericcio si fece più litio ed echeggiò la familiare risalta di Yann. Il ragazzo stava narrando i particolari della morte di Trehearne.
Yann entrò nella capanna.
Avanzò sicuro. Non aveva nulla da temere. E poi il braccio di Trehearne gli fu intorno alla gola e la punta del coltello gli penetrò tra il collo e la mascella.
«Non muoverti» sibilò Trehearne «non muoverti!»
Yann rimase immobile. Il sangue gli colava lungo il collo. «Reciderai la vena» mormorò. «Non di più, ti prego, non di più.»
Non aveva raccolto per via altre armi. Non ne aveva infilate alla cintura e neppure in mano. Trehearne estrasse la punta del coltello dalla gola di Yann e poi lo colpì. Yann cadde bocconi sul pavimento. Cominciò a lamentarsi e Trehearne gli sferrò, con tutta la forza dei suoi piedi nudi, due calci nelle costole, per udire le ossa frantumarsi. Il respiro di Yann era affannoso. Da sopra la spalla Trehearne disse a Torin attonito sulla soglia: «Stai in guardia e dimmi se viene qualcuno.»
«Sono affaccendati intorno ai segugi e stanno chiacchierando» disse il ragazzo. E poi: «Lo ucciderete?»
«Mi piacerebbe.» Trehearne colpì ancora Yann con un piede. «L’avevi già tentato anche l’altra volta non è vero? Dannazione, rispondimi! Non è vero?»
Tossendo, il viso contro il pavimento Yann mormorò: «Sì.»
«Mi seguisti strisciando tra quei funghi. Svitasti il mio respiratore e scomparisti prima che potessi voltarmi. Ti sei preso tanta pena. Perché mi hai salvato la vita?»
Yann mugolò e si contrasse in un accesso di vomito. «Sto male.»
«Starai anche peggio.» Trehearne lo afferrò per i capelli pronto a prevenire qualsiasi mossa improvvisa e lo sollevò a metà da terra. «Siediti e parla come un uomo. Perché mandasti a monte tutto il tuo lavoro? Avresti potuto lasciarmi morire là.»
Yann scosse il capo. «Ti dirigevi alla cieca proprio verso gli altri. Qualcuno ti avrebbe salvato comunque e pensai che tanto valeva lo facessi io. Se tu avessi avuto qualche sospetto l’avresti rivolto a qualcun altro. Così la prossima volta sarebbe stato più facile.» La bocca gli si contorse nel grottesco tentativo di un ghigno. «E lo fu veramente.»
Trehearne disse: «Sei un accidente di ragazzo in gamba.» Mosse la mano e la luce balenò sul coltello di cristallo. Gli occhi di Yann caddero su di esso.
«Non fu un’idea mia» si giustificò. «Non facevo che eseguire un incarico. Non devi uccidere me.» Pronunciò il pronome con enfasi.
«Non è che io lo debba. La questione è se lo voglio o no. Di chi fu l’idea, Yann?»
«Promise di darmi un’astronave» mormorò Yann. «Un’astronave tutta mia. Qualunque uomo farebbe quello che ho fatto io per una simile posta. Lo faresti tu stesso, Trehearne. È una questione di senso comune.»
Trehearne insistette: «Chi ti offrì l’astronave?»
«Kerrel. Veditela con lui. Io non ho nulla contro di te, Trehearne. Kerrel mi spiegò che sopprimerti non era un assassinio, ma un servizio reso all’intera comunità dei Vardda e che questo era l’unico modo in cui poteva renderlo. Ma a me la politica non interessa. Questo per me era solo un affare. Una vita, un’astronave.»
«Kerrel non è ricco. Come avrebbe fatto a procurarsi un’astronave da dare a un altro?»
«Penso che avesse in mente un piano. Forse la cosa dipendeva anche dal tuo mancato ritorno. Non lo so. Comunque, posso provare che è stato Kerrel. Ecco, ho tutto scritto qui. Non sono un idiota. Agente del Consiglio o no, un uomo è un uomo.» Continuando a parlare con lo stesso sguardo torvo, Yann affondò una mano nella tasca della tunica. Un attimo dopo, un attimo troppo tardi, Trehearne si rese conto che era assolutamente impossibile che Kerrel avesse mai messo cose simili per iscritto. Si mosse, rapido.
Dalla tasca di Yann uscì un disgregatore, l’arma che non faceva vedere perché Kurat se ne sarebbe adontato, l’arma che non aveva lasciato al centro. Trehearne lo colpì prima che l’estremità prismatica dell’arma sbucasse dalla seta della tunica di Yann. Lo colpì con tutte e due le mani e non è che si fosse dimenticato del coltello da caccia dalla lama sottile di rasoio, ma non ci pensava ora, non voleva cadere stordito e privo di sensi sotto la fatale radiazione cosicché Yann potesse avere la sua astronave e Kerrel potesse avere Shairn e i segugi potessero saziarsi di carne. Lo colpì con forza e lo fece rotolare e rotolò con lui. L’arma saltò via urtando contro la parete con un secco suono metallico. Trehearne arrancò affannosamente per alzarsi in piedi per primo, ma non c’era bisogno che si affrettasse. Yann non si sarebbe alzato in piedi mai più. Il lucente manico del coltello spuntava dal petto di Yann, che si sollevò e ricadde un paio di volte per poi irrigidirsi. Non c’era molto sangue intorno.
Torin ruppe il silenzio. «Ucciderete anche l’altro?» Accennò con il capo alla porta.
Al di là di essa, nella radura, Kurat chiamava a gran voce i suoi segugi latranti.
Trehearne rifletté rapidamente e chiaramente, ed era strano perché sentiva un malessere allo stomaco e una specie di tremito in tutta la persona. Dopo un momento disse: «No. C’è un modo migliore.»
Andò a raccogliere il disgregatore che era appartenuto a Yann. Poi si curvò e con la mano libera afferro Yann per il colletto e lo trascinò fuori. Era molto pesante e la testa ricadeva contro il polso di Trehearne.
Kurat si voltò e si avvicinò alla capanna. C’era un’espressione allegra sul suo viso. Era un uomo felice. Aveva fatto un bel lavoro per una buona paga. E poi vide Trehearne e il disgregatore e Yann che giaceva sul terreno dove Trehearne l’aveva lasciato cadere. Qualcosa di strano e di grottesco si dipinse sul viso di Kurat.
Trehearne fece segno con un dito. «Ha un coltello da cacciatore infisso nel cuore. Tu l’hai ucciso, Kurat. Ti ho visto.»
Kurat emise un suono come di un animale che abbia messo il piede in una trappola e la senta richiudersi. «Non è vero. Menti. Io so che…»
«Hai ucciso un Vardda» disse Trehearne. «Discutevate, ubriachi e tu l’hai colpito con il coltello, a questo modo. È stato un errore, Kurat. Penso che agli altri Vardda la cosa non piacerà. Me ne andrei, se fossi in te. Prenderei i miei segugi e la mia famiglia e me ne andrei lontano nella foresta.»
Kurat fissò per un momento lo sguardo negli occhi di Trehearne. Poi lo volse a Yann. Infine si girò e chiamò i segugi sanguinanti, senza pronunciare parola, ma urlando con una curiosa nota stridula nella voce, e si allontanò con essi di corsa nella foresta.
Non era uno stupido, pensò Trehearne, sapeva che cosa sarebbe stata la vendetta dei Vardda e sapeva che valore avrebbe avuto la sua parola contro quella di un Vardda. Era convinto che per un bel numero di anni, Kurat non si sarebbe fatto vedere alla base, e ne era contento. La scomparsa di Kurat avrebbe evitato a Trehearne molte spiegazioni. Non intendeva per ora rivelare ad alcuno la verità su come e perché Yann era morto. Non voleva parlarne con nessuno eccetto che con una persona.