20

Quorn era atterrato sul ripiano roccioso. Si erano rapidamente infilati gli scafandri. Avevano dimenticato di essere quasi in fin di vita.

Muovendosi goffamente in quella pesante tenuta, incespicando nelle rocce frastagliate, scivolando sugli strati d’aria gelata, si aprirono un varco verso la meta per giungere alla quale avevano attraversato la Galassia e messo in gioco le loro stesse vite. Sopra di loro lo spaventoso sperone si ergeva nel vuoto. Sotto di loro l’abisso precipitava nel morto cuore di un pianeta. Alle loro spalle si sentiva un’immane desolazione e nel cielo nero il possente orlo della Galassia ardeva come una spada infuocata.

Trehearne avvertiva profondamente il silenzio. Non era mai stato prima in un pianeta senz’aria. S’accorse di urtare col suo stivale metallico contro un frammento di roccia, ma non vi fu alcun rumore. Tutto quel che poteva udire era il roco respiro di Quorn e di Edri trasmessogli dal microfono del casco.

La nave di Orthis si stagliava minacciosa di fronte a loro, senza luci, senza vita. Cullata dalle ceneri della distruzione. Aveva un’aria di paziente attesa. Giaceva là da mille anni, non toccata dal tempo o dalla ruggine, seppellita nel silenzio della notte interminabile, eterna come gli astri spenti che vagano per sempre in uno spazio incorruttibile. Pareva che potesse attendere fino alla fine dell’Universo, alimentando la sua speranza. Un senso di timore reverenziale e con esso un senso di paura invasero Trehearne.

Trovarono la porta di sicurezza. Era spalancata, i battenti ancora lucidi. Non ci poteva essere corrosione qui, dove ogni atomo d’aria e di umidità si congelava nel freddo purificante. La luce della torcia di Trehearne gli rivelò sul pavimento della camera di compressione le orme di uno stivale d’uomo. Avrebbero potuto esservi state impresse solo ieri.

I tre uomini si fermarono fuori da quella porta aperta. Si guardarono l’un l’altro attraverso le visiere di glassite dei caschi e i loro volti erano strani. Poi Trehearne si scostò, e così fece anche Quorn. Edri chinò il capo. Avanzò verso la porta. Lentamente, senza rumore, salì sull’astronave di Orthis.

Gli altri lo seguirono da vicino. Le loro torce fendevano con nitidi fasci di luce l’oscurità priva d’aria. Attraversarono la camera di compressione raggiungendo un corridoio che portava a prua e a poppa. Vi regnava un’assoluta quiete. Il pesante contatto degli stivali con il ponte metallico non produceva il più lieve rumore. Era come camminare in un incubo, e l’assenza di vita a bordo dell’astronave, la nera, inerte, immobile assenza di vita era più opprimente della desolazione che la circondava. Le rocce e i dirupi non si erano mai mossi, non erano stati alterati da mani d’uomini. Nessun pensiero o speranza li aveva mai penetrati. La pelle di Trehearne era percorsa da piccoli brividi di freddo. Poteva udire il battito del sangue nelle orecchie, il rimbombo sordo del suo cuore. Si muoveva con gli altri, figure perdute in una tomba, e trasaliva come un fanciullo a ogni forma che la luce rivelava.

L’intera poppa era adibita a laboratorio. Gran parte della delicata attrezzatura era in pezzi o per le vibrazioni dovute alla velocità o per le conseguenze di un brusco atterraggio. Trehearne non capiva nulla della massa sconvolta di metallo e di cristallo in frantumi, ma Quorn disse: «Stava studiando le radiazioni interstellari. Di gran parte di questo materiale non capisco l’uso, ma fin qui ci arrivo.»

Una sezione del laboratorio conteneva una complicata massa di serpentine e di prismi e un intricato complesso di riflettori sistemati intorno a quello che aveva dovuto essere un gran tubo centrale. Al punto focale del meccanismo vi era una piccola piattaforma fissata con cinghie. Lungo la parete erano ammucchiate delle gabbie per animali da esperimento. Qualcuno di essi c’era ancora. Erano morti, la rapida morte provocata dal freddo e dalla mancanza d’aria, ma i loro corpi erano ancora intatti. Ciò significava che erano sopravvissuti al viaggio. L’ultravelocità del volo interstellare non aveva avuto alcun effetto su di loro.

Gli uomini rovistarono per qualche tempo tra i relitti, poi Edri disse: «Non c’è nulla da fare per noi qui. Inutile tentare di ricostruire il meccanismo. Non vi riuscirono in tutti gli anni in cui la nave ancora in piena efficienza fu tenuta sotto sequestro. Orthis stesso disegnò e costruì la maggior parte degli strumenti.»

Trehearne diede ancora un’occhiata ai piccoli corpi villosi che giacevano nelle gabbie come addormentati. In un certo senso la loro esistenza rendeva doppiamente crudele il tradimento perpetrato contro Orthis: persino le bestie avevano ottenuto la libertà degli spazi stellari che era stata negata a intere generazioni di tante razze di altri mondi.

Ritornarono nel corridoio, lo ripercorsero e si spinsero oltre. Trovarono le cabine, piccole e sobrie, di un nitore monastico. Le coperte delle cuccette erano gualcite e sul cuscino era rimasta l’impronta là dove si era posata la testa di un uomo. Trehearne rabbrividì, poi passarono oltre sul ponte.

Trehearne si rese conto allora di che atto di eroismo fosse stato lanciare questa antiquata astronave fino ai confini della Galassia e oltre. Gli strumenti erano così pochi e così rudimentali. Il sistema di comando così semplificato. Vi era un sistema di bloccaggio, un pilota automatico primitivo che poteva mantenere la rotta senza l’intervento dell’uomo e pensò che soltanto questo aveva reso possibile il solitario volo di Orthis. Ma la scienza astronautica aveva fatto grandi progressi da allora.

La voce di Quorn, in un sussurro, come di chi parli in chiesa, lo raggiunse attraverso il microfono del casco. «È incredibile. Questa astronave non fu neppure costruita per volare, era un vero e proprio laboratorio spaziale. È strano il fatto stesso che sia sopravvissuta.»

Edri trasse un lungo respiro in cui parve tremare un singhiozzo. «Non abbiamo ancora trovato quanto cerchiamo. Pensate che non sia qui? Pensate che dopo tutto…» Non finì la frase.

Ricominciarono le ricerche. Fu Trehearne a trovare la porta nella paratia di poppa della cabina di comando. La spalancò e guardò dentro. Il raggio della sua torcia perforò nettamente l’antichissima oscurità.

Involontariamente Trehearne gridò.

Quorn e Edri accorsero. Era aggrappato alla parete. Sudore freddo gli colava dal viso e gli occhi erano selvaggiamente dilatati. Guardarono al di là, sopra la sua spalla.

La cabina era piccola. Era adattata a biblioteca, stipata di casse metalliche contenenti libri, alcuni dei quali erano volumi in microstampa di tipo antico, alcuni altri grossi taccuini sgualciti. Il fascio di luce tagliente come una lama di coltello li delineava tra luce intensa e ombra nera. C’era una gran tavolo, fissato al piancito e sul tavolo una scatola di metallo. Su di essa posava la mano di un uomo, con le dita aperte, lievemente incurvate sul bordo della scatola, in un’espressione di protezione e di possesso insieme, quasi si trattasse di qualcosa di caro e di prezioso.

«Oh, Dio» bisbigliò Quorn. «Guardatelo…»

Sedeva su una sedia di metallo dietro il tavolo. La testa era alzata, rivolta verso l’oblò della parete esterna attraverso cui si scorgeva il cielo buio solcato dai possenti fuochi della Galassia. La luce cruda ne rivelava chiaramente la figura. Era un vecchio. Gli anni della sua vita erano stati molti e duri. Avevano inciso il suo volto come nel ferro, scavandone profonde rughe, rilevandone precisi i lineamenti, cancellando ogni traccia di gioventù e di speranza e del riso che forse un giorno l’aveva illuminato, per forgiare una maschera di irata amarezza, e di rimprovero e, infine, di disperazione. Pareva a Trehearne di poter legger la storia di tutta una vita in quel viso fissato per sempre nel momento della morte, quando certamente quell’uomo stava gridando al dio che aveva adorato, qualunque esso fosse, una accorata domanda: Perché?

Edri si mise improvvisamente a ridere. «Orthis. È Orthis. Ha aspettato che venissimo…»

Quorn alzò una mano avvolta nel pesante guanto metallico e batté sul casco di Edri con tanta forza che Trehearne udì il tintinnio nel suo microfono. «Taci. Dannazione, Edri, taci.» Edri smise di ridere. Dopo un momento disse: «Per un attimo ho pensato…»

Trehearne mormorò. «Anch’io.»

In quell’assoluto freddo privo d’aria la morte non aveva i segni della decadenza e della trasformazione. Ma non si trattava soltanto di questa mancanza di corruzione fisica. Il fuoco era arso così profondo in quell’uomo che perfino la morte non ne aveva cancellato le tracce. Quando il fascio di luce li investì i suoi occhi aperti parvero ardere di inestinguibili braci.

A lungo i tre uomini ristettero, immobili, sulla soglia, l’uno accanto all’altro. Trehearne disse: «Desiderava, penso, che chiunque lo trovasse guardasse entro quella scatola, là sotto la sua mano.» Il lavoro di tutta la vita di Orthis, il futuro della Galassia contenuti in una piccola scatola. Lo sapevano. Ma ancora non si sentivano pronti a entrare e a togliere dalla mano di Orthis l’oggetto che vi aveva tenuto tanto a lungo. Ed era strano, pensava Trehearne, che in quel momento in cui le loro emozioni avrebbero dovuto toccare l’apice, in cui avrebbero dovuto sentire con più intensità il peso di tutti i secoli di sacrificio e di lotta che li avevano portati in quel luogo e il significato che tutto ciò avrebbe avuto, fossero troppo stanchi per sentire veramente qualcosa; solo un’ombra di rispettoso timore e un’istintiva riluttanza ad accostarsi al morto. Trehearne desiderò andarsene da quella funerea nave. Lo desiderò infine con tanta intensità che entrò e cercò di allontanare la mano di Orthis dalla scatola. Il braccio era rigido e gelato come una sbarra d’acciaio e rinunciò a muoverlo, cercando invece di trarre cautamente la scatola da sotto le dita diacce, con una gran paura che si rompessero.

Gli altri gli si erano avvicinati lentamente. La scatola non era chiusa. Sollevò il coperchio e la torcia rivelò un taccuino legato in tela. Sopra vi era un foglio sciolto vergato da alcune linee di una calligrafia fermissima. Edri lo afferrò, con un goffo gesto delle mani coperte dai guanti metallici e, tenendolo in luce, lesse con una strana voce atona: «"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da…".»

Edri si interruppe e ricominciò, e Trehearne pensò che Orthis ascoltasse.

«"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da scrivere per la prima volta tutta la mia formula, completa e semplificata, così da poter essere compresa e applicata. In essa è la libertà delle stelle. Io, il primo dei nati dalle stelle, fui cacciato dall’avidità e dalle paure dei nati dai pianeti. Ma non sarà sempre così.»

’"Io non vedrò quanto accadrà. La mia astronave è ormai giunta troppo lontano, mi è rimasto poco combustibile e sono vecchio. Così ho sistemato la chiusura ermetica in modo che si apra tra pochi minuti. Una morte veloce è assai migliore di una lenta, mentre le pompe per l’aria compressa s’arresteranno. Dopo ciò, aspetterò. Quanto ho sognato non sarà dimenticato. Un giorno verranno altri che crederanno come io ho creduto, che le stelle sono per tutti gli uomini.’"

Edri tacque. Quorn disse: «Ha contemplato la Galassia per mille anni, aspettando.»

Trehearne si sforzò di muoversi per rompere l’incanto. «Se non ci affrettiamo, il nostro viaggio non gli servirà a nulla.»

Si chinò ad afferrare la scatola, la chiuse e la mise nelle mani di Edri.

«Su, Edri, mi senti? Su! Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione.»

Edri guardò la scatola, poi Orthis che aveva avuto per sé mille anni di tempo. Poi si volse e uscì, e Quorn lo seguì, e così fece Trehearne, giù per il buio corridoio e fuori dalla nave silente. Trehearne alzò lo sguardo all’ardente fiume delle stelle e pensò a che sogno possente il primo degli Stellari aveva portato con sé nella lunga notte.

Un improvviso panico, l’ansia di fare in fretta lo invasero. Orthis aveva affidato loro il messaggio con le sue stesse mani. Se proprio ora per essere troppo lenti o troppo sfiniti ora, alla fase conclusiva non fossero riusciti a compiere quel che bisognava compiere… Cominciò a correre verso la lancia, dando una voce agli altri, incitandoli, esortandoli ad affrettarsi finché essi pure si diedero a correre, barcollando tra le sporgenze della roccia. Li spinse dentro, come impazzito, parlando insistentemente della necessità di affrettarsi. Quorn eseguì la manovra di partenza: la lancia si librò dal ripiano roccioso. Non volevano essere vicino alla nave di Orthis quando avessero fatto quanto intendevano fare ora. Quorn illuminò con il faro quel mondo morto in cerca di un luogo d’atterraggio.

«In fretta» ripeteva Trehearne. «Bisogna fare in fretta!»

Quorn imprecò con violenza contro di lui. «Faccio tutto il possibile. Tacete e ascoltate. Tutti e due tenete indosso gli scafandri e tenete pronti i caschi.»

Trehearne smise di parlare. Si sedette, le mani strette tra le ginocchia, tremando tutto. Edri era curvo sul taccuino contenuto nella scatola metallica, intento a leggere.

«C’è tutto, qui» disse. La sua voce era rauca dalla stanchezza, carica dell’emozione che egli era troppo intontito per avvertire. «Le equazioni, le formule, le istruzioni per costruire gli strumenti, le istruzioni per usarli. Io non li capisco, ma altri vi riusciranno.» Guardò Trehearne con gli occhi cerchiati di rosso. «Orthis fa precedere una breve introduzione. Egli fu il primo degli stellari. La mutazione si verificò spontaneamente durante quel primo lungo viaggio. Le costanti vibrazioni della velocità, non della velocità che ci è familiare, ora, ma di una velocità superiore comunque a quella a cui il corpo umano era assuefatto, una velocità assai vicina a quella della luce, e gli effetti prodotti dalle radiazioni interstellari sulla cellula: ecco che cosa la produsse. Orthis fu il prodotto finale di quattro generazioni vissute in queste condizioni. Fu il primo tentativo della natura di creare l’uomo galattico, di adattare il corpo umano alle nuove esigenze. E il suo grande lavoro consistette nel ridurre quel lungo processo naturale a una formula applicabile che potesse compiere il mutamento in una sola generazione invece che in quattro. Dio, sono stanco di ripetere tutte queste cose come un pappagallo con le parole di Orthis. Quel che si deve fare è, naturalmente, alterare il corredo genico dei cromosomi di entrambi i genitori prima del concepimento e… comunque, tutto è qui.»

Quorn disse bruscamente: «Questo posto può andare. Se non altro ci offrirà un po’ più di riparo.»

Fece planare cautamente la lancia verso l’antico letto piatto di un fiume. Il fondo era ora coperto d’aria gelata, ma in tempi remoti l’acqua aveva scavato un profondo canyon nella roccia lasciandovi cavità d’erosione e sporgenze. Quorn fece atterrare la lancia in uno di questi luoghi corrosi dalle onde, sotto la parete del canyon.

Edri continuava ad accanirsi sul libro, accertandosi di alcuni passaggi, abbagliato dallo stordimento della stanchezza e preoccupato dalla necessità di non sbagliare. Non si permetteva incertezze o errori neppure nella lettura di una singola cifra. Non ci sarebbe stato tempo per correzioni o controlli. Il peso della responsabilità era così grave in lui che sembrava contrarsi fisicamente sotto di esso. Le sue labbra continuavano a muoversi. Trehearne non gli invidiava il suo compito.

Quorn brontolò qualcosa al suo indirizzo e insieme andarono a poppa ad arrabattarsi con l’apparecchio ultrasonico. Trehearne era posseduto dal demone dell’urgenza e non aveva la più pallida idea di che cosa stesse facendo. Quorn dava ordini ed egli obbediva ciecamente, talvolta a ragione, talvolta a torto. I loro nervi erano logorati oltre ogni umana resistenza e prima di essere riusciti nell’intento si trovarono a digrignare i denti l’uno contro l’altro come cani. Inserire i conduttori di energia nei generatori della lancia fu il compito più arduo, ma in un modo o nell’altro lo portarono a termine. Fecero alzare in piedi Edri per farlo sedere di nuovo, sempre con il libro in mano, davanti alla trasmittente. Quorn si curvò sulle leve di comando. I generatori fremettero fornendo l’energia necessaria. Edri continuava a fissare il libro. Trehearne lo scosse. «Avanti» esclamò «parla.»

Edri sbatté gli occhi e corrugò la fronte, guardandoli da sotto in su come avesse dimenticato completamente quel che doveva fare. Quorn prese il volto di Edri tra le mani e gli parlò, battendogli leggermente le guance mentre gli diceva: «Ascolta, mi sono messo sull’onda di emergenza che include tutte le linee. Ogni apparecchio ultrasonico compreso entro la sua portata la riceverà, compresi i centri di comunicazione non-vardda. Edri, mi capisci? Il momento in cui la intercetterà Kerrel sarà in grado di individuare la nostra posizione e di interferire. Così devi far presto. Presto!»

Edri sbatté gli occhi di nuovo e tremò. «Benissimo. Tenterò.» Guardò Trehearne nervosamente. Quom sistemò l’ultima leva e poi parlò nel trasmettitore.

«G-Uno! G-Uno! Emergenza. Sgombrate tutte le linee. Usate registratori. Usate registratori! G-Uno! Sgombrate tutte le linee…»

Fece un cenno energico a Edri che si curvò in avanti. «Forse non potrò ripetere. Abbiamo trovato la nave di Orthis. Seguono le formule per la mutazione vardda.»

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