3

Trehearne prese a nolo una macchina con il suo autista che, per una somma esorbitante, lo condusse a Keregnac. Il primo giorno trovarono strade praticabili e le percorsero a una discreta velocità. Il secondo giorno la piccola vettura dovette arrancare faticosamente lungo piste segnate da carri. Il mare era lontano alle loro spalle e il guidatore si lagnava continuamente dei pazzi desideri degli americani. Perché uno doveva desiderare di recarsi a Keregnac, un luogo che persino i bretoni avevano dimenticato?

Trehearne era di uno strano capriccioso umore. Aveva negli orecchi il suono del nome di Shairn e rimuginava nella sua testa tutto quello che ella aveva detto e fatto, e più vi pensava più cresceva il suo odio per lei, e più la desiderava. E più odiava Kerrel, che l’aveva in suo potere e che non era estraneo a quella sua vita segreta. Ma Shairn e tutto ciò che la riguardava non erano che una parte dei suoi pensieri. Era giunto quasi al termine delle sue ricerche. Era stato sul punto di trovare quanto cercava e all’ultimo ciò gli era stato negato dal volubile impulso di una donna. Non l’avrebbe più permesso. Shairn aveva dato inizio a qualcosa che non si poteva fermare, non importa dove conducesse.

L’autista si smarrì tra le piste fangose e i borghi selvaggi di pietra.

Quando chiedeva indicazioni, i contadini guardavano Trehearne, chiudendosi in un ostinato silenzio, né si poteva costringerli a rispondere.

Era impossibile persino riuscire a sapere se altri prima di loro avessero percorso lo stesso cammino.

Trehearne lo aveva previsto. Aveva incontrato già simili difficoltà in Cornovaglia. Si era procurato una carta geografica e aveva chiesto informazioni a Saint-Malo e ora spronava il disgraziato autista a proseguire con un incalzarsi di raccomandazioni. Era già notte quando si trovarono in una piazza melmosa, selciata solo a metà di antiche pietre, e scorsero le luci di una mezza dozzina di case raggruppate attorno a essa.

«Portatemi là, alla casa più grande. Domandate se questo è Keregnac e dite al padrone che lo pagheremo bene se ci darà alloggio.»

L’autista, che ormai era anche lui di umor nero, eseguì l’ordine e nel giro di pochi minuti Trehearne si trovò in una casupola a tre stanze di pietra sgretolata, le pareti tutte annerite dal tempo e dal fumo. Un magro fuoco ardeva nel caminetto e due candele di rozza fattura erano l’unica fonte di luce. Bastò che il viso di Trehearne apparisse in quella casa.

Stranamente, il contadino dalle mani incallite cui apparteneva la casa non mostrò né timore né ostilità. E non parve neppure sorpreso. Una certa espressione astuta incrinò la cupa staticità del suo volto, ma fu tutto.

«Vi daremo il letto migliore monsieur» disse in cattivo francese e indicò un monumentale lit-clos incavato nella parete. «Ho anche un buon cavallo. Gli altri sono andati avanti nelle landes. Immagino desidererete raggiungerli.»

Trehearne cercò di celare la sua eccitazione. «Monsieur Kerrel e mademoiselle Shairn?»

Il contadino si strinse nelle spalle. «Voi dovete sapere meglio di me i loro nomi. Io non sono un tipo curioso. Io godo buona salute e me ne sto contento.»

Chiamò qualcuno a gran voce in bretone e una donna venne a preparare la cena. Aveva un viso pesante e stolido. Gettò un’occhiata di traverso a Trehearne e poi si guardò bene dal rivolgergli uno sguardo o una parola. Non appena ebbe servito una cena frugale si affrettò a nascondersi nella stanza attigua.

La vecchia che sferruzzava accanto al camino non era così intimidita. Come se l’età l’avesse messa al di sopra di ogni complicazione, teneva i suoi occhietti brillanti fissi su Trehearne con un misto di ostilità e di interesse.

«Che cosa pensate, ma vieille?» le chiese egli, sorridendo.

Ella rispose in un francese a lui quasi inintelligibile. «Penso, monsieur, che Keregnac è altamente onorato dal diavolo.»

L’uomo le urlò qualcosa in gaelico imponendole di tacere, ma Trehearne scosse il capo.

«Non abbiate paura, grand-mère. Perché dite questo?»

«Ogni tanto egli ci invia i suoi figli e le sue figlie. Mangiano il nostro cibo, prendono a prestito i nostri cavalli, e ci pagano bene. Oh molto bene! Non avremmo da vivere se non fosse per loro.» La sua cuffia bianca si agitò significativamente. «Ma è pur sempre denaro del diavolo!»

Trehearne rise. «E io sembro figlio del diavolo?»

«Voi siete sangue del suo sangue.»

Trehearne si chinò per avvicinarlesi di più e disse: «Un tempo la mia famiglia viveva qui. Si chiamavano Cahusac.»

«Cahusac» ripeté la vecchia lentamente, e gli aghi tintinnanti si arrestarono tra le due dita nodose. «Eh, fu molto tempo fa, e Keregnac ha dimenticato i Cahusac. Furono cacciati…»

«Perché?»

«Avevano una figlia unica, che sposò uno di quei bei figli del Malanno…»

Tacque e lo guardò, come rinsavita. «Ma dimenticate: la mia vecchia lingua non ha ancora imparato la prudenza.»

Trehearne s’inginocchiò accanto a lei, così da poterne scorgere più distintamente il viso. Il cuore gli martellava. «No, no, grand-mère! Non interrompetevi: è per sentire queste cose che sono venuto dall’America. Questa figlia dei Cahusac aveva un figlio?»

«Sì, e gli abitanti del villaggio l’avrebbero voluta lapidare a morte, lei e il bambino. Ma lei lo venne a sapere e fuggì.» La vecchia si drizzò; i suoi occhi erano smorti e cupi.

«Noi prendiamo il loro denaro e questo è un peccato abbastanza grave. E io ho parlato troppo e non dirò altro.»

«No, vi prego!» disse Trehearne. «Chi sono questi stranieri, questi Vardda? Dovete saperlo. Dovete dirmelo!»

Ma la vecchia sedeva, simile a un’immagine intagliata in un legno scuro, il capo chino sulla lana chiara sparsa nel suo grembo. Trehearne si alzò, dominando l’impulso di scuoterla fino a farla parlare e poi uscì. Percorse il breve tratto che lo separava dalla fine della viuzza fangosa e si sporse a contemplare la landa immota e desolata sotto le stelle. Rimase a lungo assorto quel luogo a fissare la brughiera deserta con gli occhi socchiusi.

In quella desolazione, le landes, Shairn se n’era andata con Kerrel. Perché, a quale scopo, non riusciva a immaginare non più di quanto potesse indovinare la soluzione degli altri enigmi, e non sapeva far di meglio che interrogare la sua ospite. Il silenzio si faceva beffe di lui, saturo di segreti.

Egli aveva fatto qualche progresso. Aveva ritrovato le tracce della sua famiglia a Keregnac e ora sapeva le ragioni della loro partenza. Un ibrido Vardda strappato dalla morte che gli si preparava per mano di adirati campagnoli: una storia romantica, ma ancora misteriosa. La soluzione all’enigma della sua nascita andava ricercata più lontano.

Quanto, non poteva prevedere.

All’alba pagò l’autista, saldò il conto con il suo ospite, montò sul cavallo pronto per lui e si lanciò nella brughiera. Non aveva idea su che direzione prendere. In ogni modo la landa non poteva avere un’estensione illimitata e se avesse insistito nelle sue ricerche era quasi certo che avrebbe trovato quanto cercava. Se Kerrel e Shairn e altri figli e figlie del diavolo usavano venire nelle landes, dovevano avere un rifugio.

Ma cavalcò tutto quel giorno tra paludi e pietraie, tra ginestre, rovi e alberelli stenti, senza vedere una casa o un gregge solitario e neppure una lontana nuvola di fumo che indicasse l’esistenza di una dimora umana. Solo qua e là un picco solitario si levava contro il cielo basso come un druido a sentinella.

Calava il crepuscolo. Il vento soffiava e cominciò a piovere, una pioggerella penetrante che prometteva di continuare tutta la notte. E la landa ancora si stendeva tutt’attorno a lui, informe, senza segni di speranza o di conforto.

Non c’era altro da fare che andare avanti. Lasciò che il cavallo procedesse a suo capriccio, curvo sulla sella, inzuppato d’acqua, affamato come un lupo, disgustato del mondo intero.

Con lo svanire della luce il suo umore divenne più nero. Il cavallo avanzava faticosamente in un buio pesto. La landa presentava ora notevoli ondulazioni e Trehearne se ne accorgeva dal sobbalzare della sella quando il suo cavallo precipitava giù per una china per poi arrancare su per il versante opposto, scivolando e inciampando tra il fango e le ginestre grondanti di pioggia. Fu dalla cresta di una di queste basse ondulazioni del terreno che egli scorse un barlume di luce, davanti a lui a sinistra.

Disse forte: «Sarà la capanna di un contadino» e non si sarebbe permesso di sperare di più. Ma spronò il cavallo con impazienza. Anche così, gli sembrò passassero delle ore prima di raggiungere quel lume.

Dovette avvicinarsi alla costruzione per poter rendersi conto della sua grandezza e della sua forma nel buio fitto. Poi tirò le redini, del tutto deluso. Non era la capanna di un contadino, né un castello, né una comune casa di abitazione. Vide una diroccata mole cilindrica di pietra che doveva essere stata un tempo una rozza torre merlata, e ai suoi piedi rovine di mura e di rimesse. Era molto antica, pensò Trehearne; probabilmente risaliva al Medioevo e forse si trattava dell’antica fortezza di un brigante di nobili natali.

Una rovina sperduta in un deserto. Eppure era abitata. La gialla luce di una lanterna pioveva dalle feritoie del torrione. Nel cortile vi erano dei cavalli. Si udiva un suono di voci, e nelle cadenti rimesse si vedevano luci, c’era un brusio, un fervore di attività. Trehearne stette fermo per un po’ tentando, senza riuscirvi, di dare un significato qualunque a ciò che vedeva. Poi scese da cavallo e lasciò che l’animale sfinito raggiungesse i suoi compagni, mentre egli si dirigeva verso le rimesse dove vi erano uomini al lavoro. Aveva in tasca una piccola pistola automatica. Non aveva paura, ma era contento di averla con sé. Vi era una sconcertante singolarità in quel luogo, nel suo aspetto e nella ragione, qualunque essa fosse, che ne giustificava lo stato attuale. Le rimesse di legno non erano in rovina come sembrava a prima vista. In realtà, a Trehearne balenò la bizzarra idea che fossero state costruite in quel modo di proposito. Erano stipate di ceste di vimini e di casse da imballaggio, non di legno, notò Trehearne, ma leggere, di solido materiale plastico, segnate con simboli sconosciuti. Altre casse venivano portate su attraverso fenditure nella pietra che immettevano evidentemente nei locali sottostanti il torrione. Gli uomini che se le passavano tra alte risa e un sonoro vociare, erano per lo più giovani e tutti di ceppo vardda, avvolti in abiti strani quanto la loro lingua. Trehearne non riusciva a pensare ad alcun costume nazionale costituito da quel tipo di tunica stretta sopra ampi pantaloni, né da quel particolare tipo di sandali. Un rapido brivido lo percorse ed egli si fermò proprio all’orlo della pozza di luce della lanterna. Gli uomini non l’avevano ancora visto e improvvisamente non fu più sicuro di desiderare che lo vedessero. La singolarità del luogo cominciò a colpirlo non più nel suo insieme, ma in piccoli particolari casuali che lo rendevano reale ed ebbe paura, razionalmente, non fisicamente. Dalla pioggia e dall’ombra, accanto a lui, uscì una voce. «Dovete essere Trehearne.»

Un puro riflesso dei nervi tesi indusse Trehearne ad afferrare la pistola e a girarsi rapidamente. Chi aveva parlato, dovette vedere il suo gesto, perché disse con calma: «Non ce n’è bisogno. Venite con me, voglio parlarvi.»

«Chi…?»

«Abbassate la voce! Venite.»

Trehearne seguì l’indistinta figura dell’uomo in tunica gialla e pantaloni scuri. Anche nell’oscurità riusciva a vedere che la cintura intorno alla vita dell’uomo era incastonata di gemme e i fermagli dei sandali scintillavano come lucciole nell’erba umida. Un rapido brivido contrasse di nuovo i nervi di Trehearne ed egli tenne la mano in tasca sopra la confortante solida massa dell’arma.

Aveva dapprima pensato che l’uomo fosse Kerrel, ma era troppo piccolo e aveva una voce diversa. Non parlarono più finché ebbero raggiunto un angolo deserto del torrione, ben fuori di vista dalle rimesse. Allora l’uomo si fermò e si volse a Trehearne che disse: «Come fate a conoscermi?»

La debole luce di una feritoia cadde sul viso dello straniero. Era il volto di un Vardda, ma era privo di bellezza. Era brutto e senile, gli occhi pieni di malizia e una bocca astiosa, che non era realmente allegra neppure quando rideva. Stava sorridendo, appunto.

«La vostra fama vi ha preceduto.» Fece un cenno verso le mura e quel che vi era al di là. «Kerrel dice che non verrete, Shairn dice di sì. Stanno tutti facendo scommesse su di voi, là dentro.» Esaminò Trehearne da vicino alla luce fioca e scosse il capo. «Non ci avrei mai creduto se non l’avessi visto. Siete davvero straordinario.»

«Mi è già stato detto» replicò Trehearne acidamente e gettò una occhiata al muro di pietra, ricordando ciò che Shairn gli aveva detto nella baia. Gli occhi gli balenarono d’ira. «È sicura di se stessa.»

«Shairn è sicura di tutto, e di se stessa più di ogni altra cosa.» L’uomo doveva aver bevuto, ma non era affatto ubriaco. Il suo tono era serio.

«Ora ascoltatemi, amico. Me ne sono stato in giro a lungo sotto la pioggia ad attendervi mentre avrei dovuto badare ai fatti miei, e proprio ora sto infrangendo una legge molto importante. Nessun altro vi ha visto. Prendete il vostro cavallo, andatevene al galoppo lontano di qui e io dimenticherò di avervi visto.» Pose una mano sulla spalla di Trehearne come incitandolo. «Può esservi difficile crederlo, ma sto offrendovi di salvarvi la vita.»

Le voci degli uomini giungevano portate dal vento e Trehearne pensò alle ceste e alle casse che stavano portando su dal sotterraneo come se si preparassero a caricarle, e improvvisamente gli si formulò una spiegazione.

«Contrabbando» disse. «Potreste atterrare qui con degli aeroplani e nessuno ne verrebbe mai a sapere nulla.»

«Si tratta proprio di contrabbando. Ora ve ne andrete? Non ho alcun diritto di comportarmi in questo modo, ma mi ripugna vedere un uomo andare incontro alla morte per il piacere di una donna.»

«Perché siete così sicuro che io morirò?»

«Perché voi non siete un vero Vardda e più di questo non posso dirvi. Per amor di Dio, andatevene.»

Trehearne pensò: "È sincero, sa quello che dice e il contrabbando non spiega tutto, questi non sono criminali comuni. Vi è qualcosa di strano, di molto strano e forse ha ragione…". Il senso di paura che lo aveva assalito prima, si rinnovò in lui, ed era fisica e razionale insieme, un gelido presagio del disumano. Esitò e l’uomo dal brutto viso disse piano: «Bene! Mi occuperò del vostro cavallo.»

Ci fu un cigolio, un rimbombo e un colpo secco, mentre la imponente porta di quercia della torre si spalancava. Lo straniero spinse Trehearne contro il muro. L’ingresso non si vedeva, ma Trehearne udiva distintamente le voci. Parlavano la loro strana lingua, così che non comprendeva quel che dicevano, ma capì che parlavano di lui. Udì il suo nome e la voce che lo pronunciava era quella di Shairn. Poi ella rise. Non era necessario che ridesse. Il suono della sua voce sarebbe stato sufficiente. Trehearne sfuggì alla stretta dello straniero e si allontanò dal muro.

«Idiota!» sussurrò l’uomo, rabbioso, e fece per trattenerlo, ma Trehearne ricordava cose, parole, sguardi e il furore bruciava in lui la paura. Avanzò nella luce che dalla porta filtrava nel cortile. Kerrel e un gruppo di altre persone, per lo più donne, erano là, ma l’unica che vide fu Shairn, avvolta in una tunica color della fiamma, fermata alla cintura da gioielli, con in mano un calice colmo di vino. Cadde il silenzio e lo sguardo di Shairn era fisso su di lui. Neppure così poteva leggerlo.

Ella sorrise e disse: «Grazie, Michael. Ho vinto la mia scommessa.»

Загрузка...