Il centro di raccolta era vasto e quasi completamente vuoto eccetto che per un edificio aperto da tutti i lati come un padiglione da fiera, che sorgeva a un’estremità. Non vi erano fabbricati, solo il centro adiacente a un campo d’atterraggio fuori della città. Una gran folla era raccolta al di là delle basse mura, assai simile a qualsiasi folla della Terra, con gente che rideva, si spingeva, indicava l’astronave, in un incessante vocio. Ma dentro il centro non vi erano che poche dozzine di uomini. Se ne stavano all’interno del padiglione, in attesa, e Trehearne assistette incuriosito all’insolito spettacolo dato dal capitano vardda e dai suoi ufficiali che avanzavano umilmente a chiedere il permesso di commerciare.
«Avvicinati un poco di più» gli bisbigliò Yann. «Vedi quei due uomini alti in abiti scuri, seduti là in fondo? Sono Hedarin. Guarda.»
Gli ufficiali vardda si rivolsero ai due uomini e ne ebbero una secca risposta.
«Ci concedono due giorni» disse Rohan. «Generoso da parte loro.» Trehearne spinse con curiosità lo sguardo al di sopra delle mura. Vi erano macchie d’alberi là fuori, e doveva essere l’inizio dell’autunno perché le foglie cadevano già. Il cielo era di un azzurro intenso con una lieve foschia bassa sull’orizzonte, e l’aria era fresca. Se non si guardavano troppo i particolari, pareva di essere nell’Ohio in ottobre, ed egli avrebbe voluto andare da qualche parte a passeggiare solo, ricordando. Non sapeva perché. La Terra era dietro di lui e non la rimpiangeva. Ma avrebbe voluto andare a passeggiare tra gli alberi.
Invece tirò fuori i listini dei prezzi e le bollette doganali e se ne rimase al suo posto, mentre si iniziavano le contrattazioni. Merci e campioni di merci, da gioielli a medicinali e macchinari leggeri, venivano scaricati dall’astronave e il trasporto era effettuato dai Vardda stessi. Trehearne aiutava, e tutto il bestemmiare che si faceva lo si faceva sottovoce. «Troppo maledettamente orgogliosi per fare i facchini» disse qualcuno. «Alla gente in genere non importerebbe, ma gli Hedarin pensano che sia degradante. Non la fatica fisica, capite?, ma perfino il fatto di farsi vedere lavorare per noi. Io li manderei all’inferno piuttosto che commerciare con loro.»
«Il Vecchio non la pensa a questo modo, falla finita, vuoi? Questa cassa è pesante.»
Nel padiglione fervevano le contrattazioni. Solo gli Hedarin, seduti in disparte, avevano un’aria ostile. I loro visi davano a Trehearne un sentimento particolare. Piuttosto minuti per le loro teste massicce, benché non tanto da essere deformi, i loro lineamenti avevano una specie di terrea forza che era quasi agghiacciante come se il loro spirito avesse dominato tutte le debolezze della carne. I loro occhi, profondamente infossati e di colore chiaro, parevano chiusi al mondo; non nel solito atteggiamento di ottusa contemplazione di gente che rifletta sui propri pensieri, ma come fossero rivolti a una visione chiara e luminosa, dove nulla fosse oscuro e incerto, dove non potessero esistere trivialità, turbamenti emotivi, impulsi capricciosi. Erano uomini splendidi a vedersi. Si sentiva costretto ad ammirarli. Ma quanto a piacergli neppure da pensarci. Osservavano il traffico e Trehearne notò che ogni articolo veniva sottoposto alla loro approvazione prima che l’affare fosse concluso. Il più delle volte veniva accettato, ma di tanto in tanto uno di loro scuoteva il capo e l’articolo veniva respinto. I mercanti si rammaricavano, ma non protestavano.
«Si danno una terribile aria di importanza» disse Trehearne sottovoce a Yann.
Il primo ufficiale, un uomo appena brizzolato che conosceva la costellazione come il proprio giardino, era lì accanto e lo udì. «Sareste così anche voi» disse «se poteste scrutare entro la mente di un uomo fino a vederne i pensieri, e dentro il suo corpo fino a seguire il groviglio delle sue viscere, semplicemente servendovi del potere della vostra mente.»
«Gente temibile, come governanti.»
«Non governano, in senso vero e proprio. Essi sono i medici, i giudici, gli scienziati: gli intellettuali puri, una casta separata. Non si abbasserebbero a qualcosa di fisico come il governare. Vivono interamente dentro e per lo spirito. Negli affari temporali non fanno che dare il loro consiglio.»
Ricordando un certo dottor Rhine, Trehearne chiese: «Possono fare qualunque cosa, intendo levitazione, telecinesi, telepatia, tutti questi giochetti?»
«Non ne hanno mai parlato con me, ma penso siano in grado di fare tutto questo e anche più…»
«Bastardi insolenti» brontolò il giovane Perri accigliato. Il suo orgoglio di Vardda era ferito. Rohan gli sferrò un calcio. «Tienlo per te. E cerca di non pensarci neppure.» Trehearne si agitava irrequieto. Per il momento non vi era nulla da fare, ed egli se ne stava con gli altri, sei o sette, in attesa Infine bisbigliò: «Che cosa acquistiamo qui che valga la pena di venirci?»
«Pietre preziose» rispose Yann. «Favolose. E i gioiellieri sono tra i migliori della Galassia.» Accostò il capo a quello di Trehearne e sussurrò: «Malgrado ciò, sono d’accordo con Perri. Guarda questi mercanti. Mi farei dannare piuttosto che lasciarmi dire da qualcuno che cosa comperare e che cosa no.»
Dal loro posto gli Hedarin non erano in grado di udirli e neppure un sussurro avrebbe potuto raggiungerli al di sopra del brusìo e del vociare delle contrattazioni che si svolgevano davanti a loro. Pure, all’improvviso volsero il capo e Trehearne si trovò a guardar dritto nella luce di quei limpidi occhi chiari. Sentì che Yann trasaliva suo malgrado e poi qualcosa come un vento freddo gli attraversò la mente, invadendone ogni angolo più remoto con una strana facilità che lo terrorizzò, e abbandonandolo immediatamente dopo, con un inconfondibile disprezzo che lo irritò profondamente. Scosse il capo in un inutile tentativo di liberarlo da quell’invadente presenza e avanzò in una furia cieca, dimenticando completamente gli ordini. Il primo ufficiale lo afferrò bisbigliandogli seccamente: «Zitto!» benché non avesse detto ancora una parola. Quel freddo qualcosa svanì dalla sua mente come una luce che si spenga. Con la coda dell’occhio scorse i visi turbati e stupiti dei suoi compagni e comprese che anche a loro era accaduta la stessa cosa. E poi gli Hedarin si scambiarono d’improvviso uno sguardo, si alzarono, uno levò un braccio e annunciò: «Le contrattazioni sono finite.»
Ogni suono cessò d’improvviso. I mercanti rimasero al loro posto, seccati e sorpresi, lo sguardo rivolto agli Hedarin e poi nel penoso silenzio si udì la voce del capitano vardda, visibilmente controllata. «Ma ci avete dato due giorni!»
«È finito. Prendete quanto è vostro e andate.»
La voce del capitano ora non era più così educata. «Desidero sapere perché. Abbiamo rispettato tutte le convenzioni…»
«Avevamo dato il permesso. Ora lo revochiamo.»
Fecero un cenno ai mercanti, uomini di mezza età, dall’aria preoccupata, simili a tutti gli uomini d’affari che Trehearne aveva conosciuto. Riluttanti ma docili, si volsero e cominciarono a uscire dal padiglione. Qualcuno, che parve essere il capitano, disse: «Di tutti i dannati prepotenti…» E poi la voce di qualche altro Vardda urlò all’indirizzo dei mercanti: «Ma che cosa siete, un branco di ragazzini, che vi si caccia qua e là? Perché non continuate le contrattazioni, se lo volete?»
Uno dei mercanti rispose: «Gli Hedarin sono saggi.»
«Può darsi» disse Trehearne rabbiosamente. «O forse vogliono solo darsi delle arie.» Domandò agli uomini vestiti di scuro: «Che cosa avete contro di noi?»
Non risposero e Rohan disse, ridendo: «Gli stessi sentimenti che tutti i non-Vardda nutrono contro di noi. Inoltre noi siamo volgari e rozzi commercianti. Noi non pensiamo.»
«Pensate» disse un Hedarin pianamente. «E noi non vogliamo i vostri pensieri. Tra di voi vi è più che bassezza. Vi è il delitto.»
Di nuovo ci fu un silenzio e questa volta aveva un sapore di scandalizzato stupore. I Vardda si guardarono l’un l’altro e improvvisamente Trehearne sentì un brivido nella schiena. Ombre sotto un astro morente, una orribile foresta stretta attorno a lui come una livida muraglia, uno strappo, uno scatto, e la morte invisibile e inspiegabile, ma inesorabile che si chiudeva su lui come un grande pugno nero.
Delitto.
Voci, voci di Vardda si levarono indignate, a sfida. I mercanti se ne andavano e gli Hedarin si erano alzati. I Vardda chiedevano le prove. Non poteva essere. Nessuno a bordo della Saarga ce l’aveva con lui. Doveva essere stato un incidente. Non c’erano motivi per pensare che non fosse stato così.
«Chi è?» tuonò il capitano. «Non potete lanciare un’accusa come questa e poi andarvene…»
«Noi non ci interessiamo dei fatti vostri. Avete chiesto i motivi e ve li abbiamo detti. Questo è tutto.» Delitto. Era un’orribile parola. Trehearne avrebbe voluto che non l’avessero mai pronunciata. Avrebbe voluto che l’episodio del respiratore non si fosse mai verificato. Faceva nascere tante riflessioni. Gli faceva attribuire a se stesso l’implicita minaccia, anche se ogni membro dell’equipaggio poteva avere almeno un nemico che non avrebbe esitato a ucciderlo. Tutti ci pensavano una volta o l’altra. Egli stesso aveva pensato di uccidere Kerrel, ma una cosa era pensare e un’altra fare.
Kerrel. Poteva avere assoldato qualcuno per fare in modo che un certo Terrestre non ritornasse dalla costellazione di Ercole?
Supponiamo che l’avesse fatto. E chi. Rohan? Perri? Yann? No, Yann gli aveva salvato la vita e non poteva immaginare nessun altro dei ragazzi nella parte dell’assassino. Qualcun altro, allora. Volse lo sguardo intorno ai visi familiari, irritati ora, risentiti. Chi? Non avrebbe saputo indicarne uno. Li conosceva uno per uno. Erano i suoi camerati. Potevano fare di tutto, ma… uccidere?
Il primo ufficiale disse una parolaccia. «Si può penetrare il subcosciente di un uomo e trovarvi un impulso a uccidere. Non ci vuole un medium per saperlo. Cercavano un pretesto.»
«Già» concordò Yann. «Vadano al diavolo. Bene, prendiamo la nostra roba e andiamocene.»
Trehearne pensò che il primo ufficiale aveva ragione. Era la spiegazione più confortante. Vi si attaccava. Con ogni probabilità, se qualcuno aveva avuto realmente intenzione di uccidere e aveva tentato una volta, avrebbe ritentato. Aveva visitato tanti pianeti e fatto tante cose.
Le occasioni non erano mancate.
O lo erano? Chi sapeva quale occasione poteva sembrare adatta a un assassino? E poi questi non poteva semplicemente uccidere. Doveva simulare un incidente. Non era poi così facile.
Oh, al diavolo, dimentichiamo. Era stato un incidente.
Lo dimenticò, deliberatamente, per quanto poté. Ma in lui rimase un certo disagio. E più spesso si sognava della foresta di funghi e della spaventosa sensazione di respirare senza aria. Cominciò a desiderare un cambiamento. Non ci avrebbe creduto pochi mesi prima, ma s’accorgeva di essere sempre più stufo della nave, dell’isolamento, delle anguste cabine, dell’aria condizionata e del cibo gradevole, ma sintetico. Non era il solo. I più induriti veterani di bordo soffrivano per la noia del lungo viaggio. Attendevano con ansia sempre maggiore di far scalo anche su pianeti poco accoglienti, e si lagnavano della brevità delle soste. Quando la Saarga raggiunse il sistema della stella verde, il punto di arrivo da cui avrebbe iniziato l’altrettanto lungo viaggio di ritorno, Trehearne era così avido di metter piede a terra che perfino quel suo segreto malessere si dissipò nel suo spirito per la semplice gioia di sbarcare.
Yann era tutto eccitato: «Questo è il sistema di cui ti ho parlato, Trehearne, quello su cui sono stato agente per tanto tempo. Conoscevo gli abitanti come fratelli.» Rise e diede una pacca sulle spalle di Trehearne. «Ci fermiamo qui un bel po’, e quando avremo sbrigato le nostre faccende ti mostrerò qualcosa!»
La Saarga planò su un pianeta dalla luce smeraldina. Oltre all’astronave il campo d’atterraggio accoglieva una mezza dozzina di vecchi apparecchi interplanetari traspostati qui pezzo per pezzo dai Vardda che se ne servivano per le comunicazioni tra i desolati pianeti di quel sistema. Il grande stabilimento, chiuso da una palizzata, era uno dei più imponenti che Trehearne avesse mai visto e il più strano. La palizzata e le pareti dei magazzini erano di cristallo proveniente dalle foreste cristalline che ricoprivano vaste estensioni di terreno. Trehearne li vedeva come alberi e foreste semplicemente perché presentavano tronchi e rami, ma in realtà erano di natura inorganica, scintillanti proliferazioni di strani sublimati chimici. Sotto l’ardente sole verde splendevano scintillanti, mandando bagliori di colori incantati là dove la luce s’infrangeva su una formazione prismatica. Anche i raggi multicolori delle stelle più lucenti che ardevano nel cielo perfino durante il giorno s’impigliavano tra i loro rami splendenti. Dietro lo stabilimento sorgeva un villaggio. Anch’esso era costruito in blocchi di cristallo su fondazioni di roccia nera sprofondate in una melma. Fitti vigneti dai frutti carnosi si arrampicavano per ogni dove. Il sottobosco, di un verde quasi nero, cresceva tra gli alberi. C’era un penetrante odore di umidità nauseante, dolce. Trehearne sbrigò i suoi lunghi turni, affaticandosi in un bagno di giada fusa. Era un pianeta grande e pesante. La forza di gravità lo opprimeva. Le lettere dei listini doganali gli ballavano dinanzi agli occhi. Quando ebbe finalmente compiuto il suo lavoro trovò Rohan e Perri ancora affaccendati, ma Yann aveva sbrigato tutto e lo attendeva.
«Vieni con me ora» disse Yann facendo schioccare la lingua. «Vino, tenuto in fresco in pozzi profondi. Farà di te un uomo nuovo.»
«Che accidente di pianeta» borbottò Trehearne.
«Dovresti vedere gli altri di questo sistema. Questo è il migliore di tutti.»
Attraversarono il cortile esterno dello stabilimento, una specie di serraglio affollato di gente di altri pianeti, venuti per commerciare. Creature a sangue freddo dagli occhi color cremisi, principi ofidi dei pianeti più vicini alla stella, avvolti in mantelli dorati per ripararsi dal gelo. Sparuti re, ricoperti di pelo, dei pianeti più lontani, incappucciati e adorni di pietre preziose, immobili e ansimanti nel caldo. Questi e altri osservarono i due alti Vardda, immersi nei propri pensieri.
Attraversarono il cancello e uscirono dallo stabilimento, affondando nel fango. Il sole tramontava in una fosca luce di un livido verde, screziata qua e là di variopinte sfumature. Trehearne guardava il villaggio, i vicoli tortuosi, le casupole di cristallo raccolte in una loro sordida bellezza, e la foresta di alberi fatati che si stendeva intorno. Un dubbio lo assalì.
«Forse avremmo dovuto rimanere alla base. Ci deve essere una quantità di vino e l’ambiente è più confortevole.»
Yann imprecò contro di lui con bonaria allegria. «Ti ho detto che conosco questa gente meglio dei miei stessi figli! Vieni Trehearne, non c’è niente da fare alla base. Non desideri vedere qualcosa di nuovo?»
Trehearne lo desiderava. Era stanco fino alla nausea dello stabilimento dopo quei lunghi turni di lavoro sfibrante. Alzò le spalle, e si assicurò che il disgregatore prismatico a tubo fosse al suo posto, nel fodero della cintura. Era consuetudine che quando i Vardda andavano in giro in pianeti strani, portassero con sé un’arma. Talvolta era necessaria. Yann notò il suo gesto e sogghignò. La sua custodia era vuota.
«Mi sentirei più sicuro se ne avessi uno anch’io» disse. «Ma questa gente che andiamo a trovare è mia amica. Si offenderebbero a morte se io andassi da loro armato, un segno di sfiducia. Fa’ attenzione!» Lo precedette giù per la strada fangosa e Trehearne lo seguì.
Sopraggiunse la notte. Il cielo meraviglioso della costellazione incombeva su di loro, disseminato fino a divampare di stelle splendenti come lune. Gli alberi di cristallo assumevano l’aspetto di fuochi opalini. I muri delle capanne mandavano vividi bagliori. Intorno ai Vardda si raccolse una folla di fanciulli dagli occhi come prugne selvatiche, silenziosa e solenne, la pelle di un verde opaco. Le donne sulle soglie li seguivano con lo sguardo. Di aspetto abbastanza umano e anche piacente, le più giovani, dalla liscia pelle verde oliva, avevano i fianchi avvolti in lucide sete provenienti da Llirdis, e portavano ornamenti nei capelli.
Yann chiacchierava allegramente mentre percorrevano le vie tortuose, raccontando qualcuna delle sue numerose scappatelle e avventure, e dei mezzi ingegnosi con cui era riuscito a truffare la direzione della base.
Gli sguardi curiosi e ostili delle donne li seguivano e di tanto in tanto un uomo sputava in segno di spregio nel fango, al loro passaggio.
Giunsero infine a una casupola al limite estremo dell’abitato. Davanti alla porta erano legati a due a due otto animali della grandezza di un cane da caccia, bianchi come il latte, il muso e le zampe scuri, i corpi flessuosi, agili e slanciati, fatti per la corsa. Emisero acuti guaiti e balzarono verso gli stranieri, non appena li videro, mostrando avide zanne. Trehearne pensò che assomigliavano a gigantesche donnole, e ne avevano l’aspetto inoffensivo.
«Segugi» disse Yann. «Kurat è un cacciatore. Ho trattato personalmente con lui certe partite di pelli.» Strizzò l’occhio e chiamò a gran voce Kurat, evidentemente invitandolo nella lingua del luogo a uscire a dare il benvenuto a suo fratello.
Comparve un uomo snello, dalla forte muscolatura. Aveva una fascia di seta azzurro vivido intorno ai fianchi e una collana di metallo battuto. Salutò Yann con grida di gioia. Trehearne sorrise dentro do sé. Appartenevano allo stesso tipo quei due, il Vardda e il cacciatore: erano un paio di simpatiche canaglie. Kurat gli rivolse il benvenuto nella lingua franca delle città commerciali. Un fratello. Egli spinse Trehearne nell’interno della capanna davanti a sé.
Vi era riunita una numerosa famiglia. Un vecchio e una vecchia sedevano in un angolo, in ozio. Bambini e ragazzetti si rincorrevano per la stanza. La goffa moglie di Kurat veleggiava imperturbabile tra di essi. Una bella donna più giovane entrò con una grande caraffa gocciolante e ne versò il contenuto nella tazza di Trehearne. Il vino era freddo, e aspro. Trehearne ingollandolo di un fiato, cominciò a dimenticare il caldo e la stanchezza. Poi, alzando lo sguardo al viso della giovane donna, fu stupito di scoprire tanto odio nei suoi occhi intenti.
Disse all’improvviso: «Perché ci odiate così?»
La donna scoppiò in una risata dal suono metallico. «Esiste un mondo in cui i Vardda siano amati?»
«Perché siamo capaci di volare tra le stelle e voi no?»
«Perché noi pure avremmo potuto dominare le stelle e voi Vardda ce lo avete impedito!»
Trehearne la fissò, sconcertato da quell’improvviso tono appassionato. «Ma il segreto andò perduto…»
«Oh, sì! E anche in questo mondo remoto sappiamo come andò perduto! Tutto l’Universo ha sentito parlare di Orthis e di come i Vardda lo confinarono nelle profondità dello spazio e di come lo eliminarono perché avrebbe voluto comunicare la sua scoperta, e così voi siete liberi e io sono incatenata e così i miei figli dopo di me, per sempre.»
Si distolse bruscamente da lui. Egli la seguì con lo sguardo, rattristato da questa nuova dimostrazione di quanto profonda e amara fosse l’ostilità che covava dietro i visi dei non-Vardda.
Ma Yann scosse le spalle. «Kurat ha fatto buona caccia oggi, una pelle rara. Vieni fuori a vedere, potrebbe valere molto denaro.»
Meno per interesse che per sfuggire a un senso di oppressione, Trehearne si alzò. Uscirono da una porta dietro la casupola. A qualche distanza c’era una rimessa dove, disse Kurat, la pelle era stesa a seccare. Yann e lui chiacchieravano nel gergo straniero. A Trehearne l’intera faccenda non interessava un gran che.
Era buio dentro la rimessa. Yann disse: «Aspetta un momento mentre faccio luce.»
Trehearne aspettò, ma non molto. La luce esplose all’interno del suo cervello. Udì Kurat mugolare alle sue spalle nello sforzo di colpirlo, poi ridere. Anche Yann rideva.
Trehearne ebbe un momento di furia assassina e poi il pianeta della stella verde scomparve ai suoi occhi. Quando riprese conoscenza, si trovò bocconi con il viso nel fango, spogliato della tunica, della cintura ingioiellata, dell’arma e dei sandali. La capanna di Kurat era scomparsa e con essa la città. Si trovava nella foresta, circondato da alberi, i cui rami di cristallo scintillavano al lume delle stelle desolate. La testa gli doleva violentemente.
Si alzò barcollando con un unico pensiero nella mente: la ferma decisione di mettere le mani sul suo buon amico Yann. Mosse tre passi senza una direzione particolare, poi si fermò improvvisamente, immerso in un bagno di sudore diaccio. A qualche distanza, non troppo lontano, udì l’acuto guaito degli strani segugi di Kurat.