11

Trehearne uscì in fila indiana con gli altri, l’equipaggio dell’astronave quasi al completo, per raccogliere quella strana messe. Lo scafandro antiradiazioni che egli indossava non era troppo pesante — non avrebbe potuto esserlo per uomini che dovevano compiere un così duro lavoro — una semplice tuta di tessuto metallico flessibile, con un casco munito di microfono e una bombola di ossigeno che poteva essere rapidamente sostituita quando si fosse consumato. Il mondo in cui si trovava era come evocato da un incubo. Funghi più alti di lui crescevano fitti, l’orrida caricatura di una foresta, in colori che variavano dal nero al cremisi a un giallo di cervelli putrefatti. La stella gigantesca — una stella malata, insana, pensò Trehearne, come tutte le variabili a brevi periodi — incombeva nel cielo infetto, avendo oltrepassato ora il culmine massimo del suo splendore ma riversando ancora le sue febbrili energie in un purpureo bagliore di sangue. Trehearne fece una smorfia e scosse il capo. «Questo» disse «è un pianeta che potrebbe piacere solo a Weizsacker.»

La voce di Perri gli giunse attraverso il microfono del casco, stranamente sottile, ma così vicina che Trehearne trasalì. «Chi è Weizsacker?»

«Un Terrestre che ha una sua teoria. Avanzò l’ipotesi che molte stelle hanno pianeti loro propri.»

Rohan chiese incredulo: «Intendi dire che qualcuno ne abbia mai dubitato?»

«Oh, certo. In realtà è tuttora opinione generale che il Sole sia l’unica stella circondata da pianeti, e che il terzo pianeta del Sole, cioè la Terra, sia l’unico pianeta dotato di vita, soprattutto di vita intellettiva.»

Rohan imprecò e poi scoppiò a ridere. «Non ho mai visto tanta vanità. Mi sembrava tu avessi detto che i Terrestri sono civili. Soltanto i selvaggi hanno una così alta considerazione della loro importanza.»

Armati di coltelli ricurvi e di grandi sacchi di una sottile sostanza plastica flessibile come un tessuto ma impermeabili all’aria una volta sigillati, si sparsero qua e là tra la giungla di funghi. Si tenevano più o meno uniti in piccoli gruppi. Trehearne li poteva sentire discorrere, una confusione di voci nel microfono. Egli stesso continuava a parlare, non di qualcosa in particolare, parlava soltanto per sentire un’altra voce umana. Provava una strana e via via più spiacevole sensazione di isolamento, chiuso dentro il suo scafandro, respirando aria artificiale, impossibilitato a guardarsi intorno dal casco che limitava il suo campo visivo. Si muoveva con difficoltà nel terreno melmoso in cui a ogni passo affondava fin quasi alle ginocchia. La luce era livida e feriva gli occhi, l’orrenda vegetazione diventava ogni minuto più orrenda, i suoi vividi colori sempre più ripugnanti. Era difficile dire chi gli fosse vicino perché tutti erano mascherati, privati di ogni umana sembianza dagli scafandri informi. Cercò di tenersi vicino a Yann e ai due ragazzi, identificandoli dalla voce.

«Non affannarti con i più grossi» gli consigliò Yann. «Non sono buoni. Qui, guarda questi, piccoli, graziosi, che stanno spuntando proprio ora. Di questi abbiamo bisogno.»

Trehearne gettò un’occhiata dubbiosa al suo sacco e poi ai piccoli cappelli simili a funghi da prato che spuntavano su dal terreno. «Ci vorrà un bel po’ di tempo per riempire questo affare.»

«Ore. Meglio cominciare.»

Trehearne si mise pazientemente al lavoro, piegato in due o accovacciato goffamente sulle ginocchia. Il sudiciume del luogo incominciava a innervosirlo. Inevitabilmente di tanto in tanto spezzava qualche fungo adulto e veniva spruzzato da una polvere nera come la fuliggine o rosa cupo o di un rosso ripugnante o gialla, o avvolto in nuvole di spore. Cercava di star dietro agli altri, ma di quando in quando ne perdeva le tracce. A volte non gli rispondevano quando li chiamava. Un pauroso senso di isolamento si insinuava in lui e faticava a dominarlo. Sudava abbondantemente dentro lo scafandro. Sentiva una grande stanchezza ai muscoli, eppure il grande sacco non era ancora pieno.

La luce della stella variabile incominciava visibilmente a svanire. Trehearne si guardò intorno. Una livida muraglia lo rinchiudeva. Non si vedeva nessuno. «Yann?» chiamò. «Perri?»

«Ohi!» Era la voce di Perri.

«Brutto lavoro, vero?»

«Disgustoso. Dov’è Yann?»

«Non so. Yann?»

«Qui, dannazione! Se lavoraste di più e parlaste di meno, ce ne andremmo da questo meraviglioso giardino un po’ prima.»

Trehearne non riusciva a individuare la loro posizione. Le loro voci risonavano uguali, come se tutte e due gli parlassero da dentro il casco. Continuò a lavorare, sperando di riuscire a vedere qualcuno. Il sole malato aveva consumato le sue riserve di energia e calava esausto sempre più debole, più rosso, con gli effetti di un insolito tramonto. Una specie di oscura foschia si insinuava ai piedi dell’alta vegetazione deforme. Trehearne incominciò a sentirsi a disagio. Sapeva che si trattava solo dell’effetto depressivo del paesaggio circostante e dello scafandro che lo imprigionava. Si rifiutò di farci caso. Ma non riusciva a liberarsene. Ritornava a ondate, facendolo trasalire, facendogli rizzare i capelli sul capo. Egli continuava accanitamente a gettare nel suo sacco i piccoli funghi. Desiderava ora più che mai parlare, ma aveva paura, paura che questo suo irragionevole timore si rivelasse nella voce e lo sminuisse davanti agli altri. Incominciò a spostarsi avanti e indietro, cercando di trovare qualcuno, ma non vi riuscì sebbene sapesse che dovevano trovarsi nelle vicinanze. Aveva un gran caldo, ma sentiva freddo alla schiena e gocce di sudore gelato gli colavano giù. La malsana foschia diventava più fitta, e le ombre erano rosse. Con la coda dell’occhio percepì dei movimenti, come se qualcosa o qualcuno camminasse furtivamente celato dalla fitta vegetazione.

«Yann?»

«Che cosa?» Una voce senza corpo, senza distanza, gli parlava lieve nell’orecchio.

«Non ci sono esseri viventi qui, vero? Intendo, eccetto questi funghi puzzolenti.»

«Non che qualcuno sappia, almeno. Perché?»

«Non importa. Era solo un inganno delle ombre, suppongo.»

«Stai diventando nervoso, giovane Terrestre.»

«Senti, al diavolo tu e i tuoi frizzi mordaci.»

«Non darmi peso» disse Yann tranquillamente. «Siamo tutti un po’ nervosi. Io ho quasi finito, e tu?»

«Non ne avrò per molto.»

«Bene, affrettati.»

Silenzio. Di tanto in tanto un brusìo di voci incomprensibile, confuso nel microfono del casco. Gli uomini non parlavano più tanto, ora. Erano stanchi, e il luogo li opprimeva. Il loro umore era in declino come la luce del sole che inondava metà del cielo di un rosso bagliore come di sangue che colasse. Trehearne teneva d’occhio costantemente le ombre, voltandosi inquieto qua e là con l’impressione di un’oscura presenza alle sue spalle. Aveva ancora i nervi tesi, in allarme, e non riusciva a calmarsi. La sua sacca era quasi piena. Pensava alla nave, alle luci, ai visi familiari, a quando si sarebbe tolto di dosso la pesante armatura. Una mostruosa escrescenza a forma di ventaglio spiccava cremisi nel bagliore del tramonto. Aveva da un lato un gonfio fungo tondo, nero, e dall’altro un mostruoso esemplare rugoso e accartocciato, maculato di bruno e di giallo. Ai suoi piedi cresceva una nidiata di piccoli funghi, in numero sufficiente da riempire lo spazio rimanente nel sacco di Trehearne. Vi si avvicinò, sfiorando il fungo maculato e accartocciato. Sentì alle spalle uno strappo e uno scatto improvviso. Si voltò affondando nella muffa con i pesanti stivali. Si voltò più presto che poté, ma non c’era nessuno, nulla; poi gli balenò alla mente che cosa doveva essere accaduto: il suo respiratore si era svitato.

Cominciò a urlare. Non gli importava di sprecare il fiato, gliene rimaneva ben poco. Gridò, preso da un panico selvaggio e cominciò a correre, senza direzione, cozzando e inciampando nei funghi, cercando disperatamente qualcuno che lo salvasse dalla morte «Dove sei?» gli gridavano le voci nel casco. «Dove sei?» Ed egli continuava a urlare: «Qui!» Come se questa parola avesse un significato preciso, come se gli altri potessero capire dal suono della sua voce se si trovava a dieci piedi o a mezzo miglio di distanza.

La valvola automatica si era chiusa di scatto per impedire la fuga dell’aria rimasta ancora nello scafandro, ma respirare diventava difficile. I suoi polmoni avrebbero consumato l’ossigeno restante in un minuto o due e allora non gli sarebbe rimasto che soffocare dentro lo scafandro, o liberarsi del casco e lasciare che i mefitici effluvi di metano che quel mondo aveva per atmosfera gli bruciassero l’organismo. Era un gran brutto modo di morire e vi si ribellava e non sapeva rendersi conto di come tutto fosse accaduto. Doveva aver urtato con il respiratore contro il fungo, quello orribile che pareva un mostruoso cervello. Doveva essergli passato troppo vicino ed essersi impigliato in qualche dura escrescenza… Si faceva buio e lo prendeva un senso di nausea allo stomaco e i suoi polmoni ansavano, affaticati, a vuoto.

Tentò di urlare di nuovo e non vi riuscì. Le ginocchia gli si piegavano e cadde, come tra le braccia di una figura informe, ma umana che gli sussurrava cose incomprensibili. Si sentì capovolgere. Ci fu un momento in cui l’oscurità calò quasi completamente su di lui e poi un fiotto di ossigeno, puro e fresco, fluì nel casco. Il meccanismo, che si era appena arrestato, ricominciò a funzionare: faticosamente, con sbuffi e gorgoglii, ma funzionava. La voce di qualcuno giunse fino a lui, raccomandandogli per carità di non perdere i sensi con il casco in testa e riuscì a sedere e a guardarsi intorno. Due uomini erano curvi su di lui e un terzo stava alle loro spalle. Poté riconoscerli attraverso le maschere. Nessuno di loro era suo compagno di cabina. C’era qualcun altro che lo sosteneva dal dietro. Udiva ancora un cicaleccio di voci che chiedevano risposta. Gli parve di distinguere le voci di Rohan e Perii, ma non ne era sicuro. «Chi mi sta alle spalle?» chiese. La voce gli uscì arrochita. La gola gli doleva. «Chi è là?»

«Io, Yann. Ben tornato. Trehearne. Per un minuto ho pensato che stessi per andartene.»

«C’è mancato poco, dannazione.»

La lingua gli pesava come piombo. «Non so che cosa sia accaduto…»

«Il respiratore si è impigliato da qualche parte» disse uno degli uomini premurosamente, non rivelando a Trehearne nulla di nuovo. Egli mugolò: «Ma come? Pensavo di essermi impigliato in uno di questi brutti mostri, ma si rompono così facilmente…»

«Si induriscono col tempo. Guarda.» L’uomo tese una mano ad afferrare una protuberanza cornea. «Offrono molta resistenza, specialmente se la valvola del tuo respiratore non era ben assicurata.»

Non ricordava di aver notato protuberanze del genere, e l’esemplare maculato a forma di cervello gli era parso fresco e giovane. Ma lasciò cadere la cosa. Non sapeva assolutamente che altra risposta avrebbe potuto esserci, e in quel momento non voleva pensarci più. Tutto si perdeva nell’irresistibile desiderio di ritornare alla nave. Si rizzò barcollando e il vigoroso braccio di Yann lo sorresse. «Comunque» disse agli uomini che gli stavano di fronte «grazie, per avermi salvato la pelle.»

«Ringrazia Yann. Quando noi siamo arrivati aveva già avvitato il respiratore. Venivi dritto verso di noi ma forse non ce l’avresti fatta se non t’avesse raggiunto per primo.»

Trehearne si volse a Yann: «Grazie.»

«Non c’è di che. Non dico che ti avrei strappato a qualcosa o a qualcuno a rischio della mia vita, Trehearne, ma dal momento che si trattava di una cosa da niente, non pensarci neppure. Ho avuto semplicemente la fortuna di trovarti e la prossima volta non allontanarti tanto.» Sogghignò e spinse avanti Trehearne. «Non hai ancora finito. Devi ancora spiegare al Vecchio perché hai perduto il sacco.»

«Oh Dio» mormorò Trehearne. Ma non si voltò indietro. Se il capitano voleva il sacco poteva sempre andare a cercarlo.


La Saarga cigolò; gemette e si addentrò rollando nella costellazione, toccando questo e quel porto come una nave mercantile, dovunque vi erano affari da concludere e carichi da imbarcare. Soltanto, i suoi porti erano dei pianeti e i suoi mari erano i golfi oscuri che si aprivano tra di essi. La memoria di quanto era accaduto sul pianeta della stella variabile sbiadì nella coscienza di Trehearne, benché talvolta egli si svegliasse di soprassalto per l’orribile impressione di soffocamento che lo opprimeva nel sonno. Ma l’alternarsi di luoghi e di persone sempre diversi, sempre nuovi gli davano troppo da pensare perché perdesse il suo tempo ad arrovellarsi su qualcosa che era ormai passato. Insensibilmente, attraverso l’abitudine e la comunicazione continua con i compagni, perdeva coscienza della sua singolarità, sentendosi un Vardda autentico come fosse nato a Llirdis. Il primo folgorante stupore fanciullesco si era logorato. Navigare tra le stelle come tra isole cominciò a sembrargli la cosa più naturale del mondo. L’interesse rimase, ma il senso di terrore reverenziale scomparve. Fecero scalo a sistemi planetari che avevano un alto grado di civiltà e in cui Trehearne vide per la prima volta le basi commerciali dei Vardda, enormi complessi isolati, regolati da speciali convenzioni, con un gran numero di magazzini colmi di merci provenienti da tutta la Galassia. Il sistema del centro di raccolta isolato, del campo d’atterraggio e dell’agenzia vardda era diffuso ovunque il commercio fosse abbastanza florido da garantirne lo sviluppo anche su pianeti barbari. «Ecco dove si fa fortuna» gli diceva Yann, sogghignando.

Trehearne prese mentalmente nota di questo, benché non avesse alcun desiderio di fare l’agente. La Saarga proseguiva nel suo viaggio. Conclusero affari con squamosi umanoidi alla luce di un sole biancoazzurro. Fecero man bassa sui pianeti di un gigantesco sole rosso, lasciandovi gioielli dorati da poco prezzo in cambio di preziosi minerali radioattivi e i piccoli abitanti selvaggi si congratulavano di aver fatto buoni affari. Trehearne era sbalordito della persistente ricorrenza della forma umanoide anche quando il ceppo da cui una razza particolare si era evoluta non aveva niente di neppur lontanamente umano, e Yann gli aveva spiegato quel che ogni scolaro vardda imparava studiando biologia generale, che lo sviluppo della forma umanoide (cioè avente come caratteristiche la testa, riconoscibile, in posizione verticale o eretta, due arti inferiori usati a scopo di locomozione e due arti superiori usati per eseguire lavori manuali) si basava semplicemente sulla necessità di sviluppare le mani o un sostituto equivalente fino a poterlo usare, tipico di una specie che intendeva progredire oltre il livello animale di intelligenza. Ma fossero umani o umanoidi, ricoperti di pelo, squame, piume, o di una semplice epidermide, qualunque colore o dimensione o grado di sviluppo sociale avessero, una cosa era comune a tutte le razze di tutti i mondi. Odiavano i Vardda. Era un odio basato esclusivamente sull’invidia e Trehearne vi si abituò talmente da non farci quasi più caso, tranne che per notare come esso variava a seconda delle culture: gli aborigeni che vi mescolavano un timore reverenziale e superstizioso per i dominatori del cielo; i barbari che li avrebbero uccisi se solo non fossero stati così avidi per i generi voluttuari che fornivano loro; i popoli civili, che li trattavano con freddo rispetto e si rodevano l’animo di geloso desiderio. L’unica cosa che impressionava veramente Trehearne erano i fanciulli, specialmente i ragazzini che seguivano i Vardda su e giù per le strade avvicinandosi più che potevano all’astronave, ripetendo continuamente la stessa eterna domanda: «Che cosa si prova a volare tra le stelle?»

Aveva quasi dimenticato la Terra. E poi calarono verso il pianeta di un sole giallo, un verde mondo che gli diede un tuffo al cuore con un improvviso flusso di ricordi. Si affacciò all’oblò a contemplare campi e alberi lontani e una città che avrebbe potuto essere della Terra — pur senza averne il sudiciume e la miseria — stendentesi lungo le rive di un fiume maestoso e si stupì di poter ancora sentir nostalgia.

Yann lo guardò ironicamente. Era intento a spazzolare e a ripulire la sua uniforme, come Rohan e Perri, e nessuno di essi pareva contento.

«Pare bello, vero?» disse Yann.

Trehearne annuì. Guardava il fiume e pensava al Mississippi. Il suo pensiero era molto lontano «Bene, è bello» borbottò Yann. «Il clima è mite, la gente è civile, le donne sono belle, e scommetterei che anche il cibo è buono. Ma noi non possiamo goderne. Non possiamo neppure…»

Il lieve segnale di comunicazione interna della nave lo interruppe e il volto del capitano apparve sul piccolo schermo.

«Questo è un ammonimento e un richiamo. Siamo giunti al luogo dove ci tocca fare i nostri affari con il cappello in mano e l’aspetto dimesso. Avete capito tutti? Dovete rimanere entro le mura della base. Non dovete fraternizzare con i nativi. Dovete mostrarvi pieni di deferenza verso qualunque Hedarin vi capiti di trattare. E non dovete, in nessuna circostanza, reagire a quanto possano dirvi. In altre parole, tenete la bocca chiusa se proprio non siete costretti ad aprirla e in questo caso non alzate la voce. Questi sono ordini e punirò adeguatamente chiunque il trasgredirà!»

Lo schermo si oscurò. Trehearne guardò gli altri. «Che tipo di posto è questo?»

«Hai udito il Vecchio. È un luogo in cui i Vardda devono chieder scusa di esistere.»

«Chi sono gli Hedarin?»

«I legislatori, i saggi. Quelli che dicono l’ultima parola.»

Il giovane Perri alzò le spalle in modo espressivo. «Miserabili accattoni» disse. «Sono dei medium.»

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