Stor Gendibal marciava spedito lungo la strada di campagna fuori del complesso universitario. Di solito i membri della Seconda Fondazione non si avventuravano nel mondo degli agricoltori di Trantor. Certo potevano farlo, ma non si arrischiavano mai ad andare molto lontano od a stare fuori troppo tempo.
Gendibal costituiva l’eccezione alla regola, e in passato si era chiesto varie volte il perché. Domandandoselo aveva esplorato la propria mente, una cosa che gli Oratori erano incoraggiati a fare. Le loro menti erano ad un tempo armi e bersagli, ed essi dovevano mantenere perfettamente in funzione sia i sistemi di offesa, sia quelli di difesa.
Gendibal aveva concluso, non senza soddisfazione, che una delle ragioni che lo rendevano diverso era il fatto di provenire da un pianeta che aveva una massa maggiore della media dei pianeti abitati, ed un clima più freddo. Quando era stato condotto su Trantor, da ragazzino (gli agenti della Seconda Fondazione alla ricerca di persone particolarmente dotate erano sparsi per tutta la Galassia), si era trovato quindi in un mondo dal clima deliziosamente mite, e con una gravità inferiore. Per questo gli piaceva stare all’aperto più di quanto piacesse agli altri.
Durante i primi anni passati su Trantor aveva acquistato coscienza della sua struttura fisica, che era gracile e tutt’altro che imponente, ed aveva pensato che se si fosse lasciato andare avrebbe rischiato di diventare un uomo assai debole. Perciò si era messo a fare ginnastica intensivamente e, pur conservando l’aria gracile, aveva acquisito una grande resistenza. Inoltre, aveva molto fiato. Del suo allenamento facevano parte le lunghe passeggiate e lo jogging, abitudini che qualche Oratore criticava. Ma Gendibal se ne infischiava delle chiacchiere.
Lui continuava imperterrito per la sua strada, nonostante fosse trantoriano solo da una generazione, mentre tutti gli altri della Tavola lo erano da due o tre ed avevano genitori e nonni che erano stati membri della Seconda Fondazione. Gendibal era anche il più giovane di tutti: era logico quindi che i suoi colleghi mormorassero alle sue spalle.
Per lunga tradizione le menti degli Oratori della Tavola erano aperte (in teoria completamente, ma quasi sempre si conservava da qualche parte un angolo di privacy, anche se a lungo andare esso veniva a sua volta sondato) e Gendibal sapeva che gli altri provavano invidia nei suoi confronti. Loro erano consci della propria invidia, così come Gendibal era conscio del proprio atteggiamento di difesa, che si esprimeva in un’ambizione compensativa. E, naturalmente, gli Oratori sapevano ciò che lui sapeva.
Gendibal tornò a riflettere sul perché avesse sempre sentito il desiderio di quelle lunghe passeggiate e pensò che doveva avervi influito il fatto di avere trascorso l’infanzia su un grande pianeta dove i paesaggi erano superbi e vari. Era cresciuto in una valle fertile, circondata da quella che era forse la più bella catena di montagne della Galassia. Nel rigido inverno del pianeta, esse apparivano straordinariamente belle. Gendibal ripensò al suo mondo d’origine ed alle gioie della propria infanzia.
Fantasticava spesso sul suo passato: com’era possibile adattarsi a vivere in un antico complesso architettonico ampio poche dozzine di miglia quadrate?
Si guardò intorno, mentre correva. Non apprezzava quello che vedeva; Trantor era un mondo gradevole, dal clima mite, ma non possedeva l’aspra bellezza del suo pianeta d’origine. Benché gran parte del suo territorio fosse destinata all’agricoltura, non era un mondo fertile, non lo era mai stato. Forse anche questo aveva contribuito a farne il centro amministrativo di una grande federazione di pianeti e, in seguito, dell’Impero Galattico. Quale altra funzione avrebbe potuto assolvere bene? In fondo, non era adatto a nient’altro...
Dopo il Grande Saccheggio, Trantor era sopravvissuto grazie alle sue enormi riserve di metallo. Era come un’immensa miniera e riforniva una cinquantina di mondi di acciaio legato, alluminio, titanio, rame e magnesio a buon mercato, restituendo così quanto aveva accumulato in migliaia di anni. Consumò le sue risorse a un ritmo ben più veloce di quello col quale le aveva accumulate.
Alla fine il metallo non si esaurì, ma diventò più difficile da estrarre. Gli agricoltori hamiani (che consideravano di malaugurio il termine trantoriano, che ormai designava soltanto i membri della Seconda Fondazione), erano restii a maneggiare il metallo, indubbiamente per motivi superstiziosi.
Un atteggiamento stupido. Il metallo rimasto nel sottosuolo poteva avvelenare il terreno e renderlo ancora meno fertile. D’altro canto, però, la popolazione non era fitta, e la terra riusciva a sostenerla. Inoltre un po’ di metallo si vendeva sempre.
Gendibal osservò l’orizzonte piatto. Trantor era un pianeta vivo, geologicamente parlando, come del resto quasi tutti i pianeti abitati, ma erano passati almeno cento milioni di anni dall’epoca in cui si erano formate le ultime catene di montagne. Le regioni montuose, con l’erosione, erano diventate collinose o piatte, e questo era avvenuto per lo più durante il periodo in cui la superficie era stata tutta ricoperta dal metallo.
A sud, troppo lontana per essere visibile, c’era la spiaggia di Capital Bay, ed oltre essa si stendeva l’Oceano Orientale: entrambi erano stati riportati nelle condizioni originarie dopo il crollo dei serbatoi sotterranei.
A nord sorgevano le torri dell’Università Galattica, che nascondevano in parte la Biblioteca, più bassa ma ampia, e per tre quarti sotterranea. Ancora più a nord, c’erano i resti del Palazzo Imperiale.
A destra ed a sinistra di Gendibal si stendevano poderi, con qualche casa colonica qui e là. L’Oratore passò accanto a capre, polli ed altri animali domestici che non lo degnarono della minima attenzione.
Pensò distrattamente che quegli animali, che si potevano trovare in un gran numero di mondi abitali, non erano mai esattamente uguali su un pianeta o sull’altro.
C’era sempre qualche differenza. Le capre del suo pianeta d’origine, per esempio, tra cui era compresa anche la capretta domestica che lui aveva munto, erano assai più grandi e combattive degli esemplari piccoli e mansueti che erano stati portati su Trantor e che vivevano lì dall’epoca del Grande Saccheggio. Le varietà di animali erano innumerevoli, nei mondi della Galassia, e la gente aveva sempre la sua bestia preferita che le dava assoluto affidamento o per la bontà della carne, o per le uova, o per il latte e la lana.
Come al solito, non si vedevano hamiani in giro. Gendibal aveva l’impressione che gli agricoltori evitassero apposta di farsi vedere da quelli che chiamavano “tediosi” (una deformazione, forse voluta, del termine “studiosi”[8] nel loro dialetto).
Ancora una volta, era la superstizione ad avere la meglio.
Il giovane alzò un attimo gli occhi a guardare il sole di Trantor. Era alto nel cielo, ma il suo calore non era soffocante. In quella località, a quella latitudine, il caldo non diventava mai afa ed il freddo non era mai rigido. (Gendibal a volte sentiva quasi la mancanza dei rigori invernali, od almeno così gli sembrava. Non era mai tornato sul suo mondo d’origine, forse, come pensava, perché aveva paura di una disillusione).
Sentiva i muscoli piacevolmente tesi dall’esercizio fisico; ad un certo punto decise di avere corso abbastanza e cominciò a camminare a ritmo normale, respirando profondamente.
Di lì a non molto ci sarebbe stata la riunione della Tavola, ed era ansioso di parteciparvi; era ansioso di imporre una svolta alla linea d’azione del momento, che non teneva abbastanza conto del pericolo rappresentato dalla Prima Fondazione e contava troppo sul funzionamento perfetto del Piano. Quando si sarebbero accorti che era la perfezione il segno più evidente del pericolo?
Se a fare quella proposta fosse stato un altro, la faccenda sarebbe andata in porto senza problemi. Essendoci di mezzo lui, invece, sarebbero indubbiamente sorte diverse difficoltà. Tuttavia il vecchio Shandess lo sosteneva ed avrebbe continuato a farlo, per cui alla fine anche gli altri avrebbero accettato le sue idee. Gendibal non voleva proprio essere ricordato dai libri di storia come il Primo Oratore sotto il quale la Seconda Fondazione avesse perso definitivamente ogni vigore.
Un hamiano!
Gendibal rimase sconcertato. Captò la presenza dell’altra mente molto prima di vedere la persona cui apparteneva. Sì, si trattava della mente rozza e primitiva di un agricoltore hamiano. Gendibal ritrasse subito i suoi tentacoli mentali, lasciandone una traccia così lieve da non essere identificabile. La Seconda Fondazione aveva stabilito norme severe al riguardo: gli agricoltori, che, ignari, le facevano da schermo, andavano lasciati in pace il più possibile.
Chi veniva su Trantor per commercio o per turismo vedeva sempre e soltanto contadini, ed al massimo, qualche volta, due o tre eruditi che vivevano immersi nello studio e passavano praticamente inosservati. Se si fossero allontanati gli agricoltori, o se si fosse tentato anche minimamente di toglierli dalla loro ignoranza, gli eruditi sarebbero stati notati con conseguenze disastrose. (Era, quella, una delle classiche dimostrazioni cui i giovani appena entrati all’Università dovevano arrivare da soli. Le tremende Deviazioni che apparivano sul Primo Radiante appena si interveniva anche di pochissimo sulla mente degli agricoltori erano davvero sconcertanti.) Gendibal vide finalmente il contadino, che era un hamiano puro.
Era quasi la caricatura dell’agricoltore trantoriano: alto, grosso, di pelle scura, con occhi e capelli neri, le braccia nude, gli abiti rozzi. Camminava a lunghi passi, con andatura goffa. A Gendibal sembrava quasi di sentirgli addosso l’odore dell’aia e dei campi. Ma sapeva che non era il caso di disprezzarlo. Preem Palver non aveva disdegnato di recitare la parte dell’agricoltore, quando questo si era rivelato necessario per i suoi piani. Certo, era stato un contadino sui generis: basso, grassoccio e moscio. Ma la sua mente, non il suo corpo, aveva ingannato l’adolescente Arkady.
L’uomo si stava avvicinando con passo pesante, e fissava apertamente Gendibal, il quale, perplesso, aggrottò la fronte. Nessun hamiano e nessuna hamiana l’avevano mai guardato a quel modo. Persino i bambini fuggivano quando lo vedevano, per fermarsi a sbirciarlo da lontano.
Gendibal non rallentò il passo. C’era abbastanza spazio perché tutt’e due passassero senza guardarsi né parlarsi. E sarebbe stata la cosa migliore. Lui era ben deciso a non interferire nella mente dell’agricoltore.
Stava per spostarsi da un lato, ma il contadino non aveva intenzione di permetterglielo. Si fermò, divaricò le gambe, tese le braccia massicce come per bloccare il passaggio e disse: — Ohe! Tu stai tedioso?
Gendibal non poté fare a meno di percepire nella mente dell’altro un flusso di combattività. Si fermò. Non poteva tentare di passare senza rispondere al suo interlocutore, ma sapeva che rispondergli gli sarebbe costato fatica. Per uno abituato al gioco fine e veloce di suoni, espressioni, pensieri, sfumature mentali che costituivano l’essenza della comunicazione tra Oratori era terribile ricorrere alle sole parole. Era come sollevare un masso con la forza delle braccia avendo accanto un piede di porco.
Calmo, senza far trapelare la benché minima emozione, disse: — Sono uno studioso, sì.
— Oh! Tu sono un tedioso. Che strano modo di parlare! E vedo che stai solo, o sono solo, eh? — Piegò la testa in un inchino di scherno. — E stai pure piccolo e pallido e grinzoso e con la puzza sotto il naso.
— Che cos’è che vuoi da me, hamiano? — disse Gendibal, senza scomporsi.
— Mi sta un titolo, a me: Rufirant. E Karoll anche, che viene prima. — Il suo accento era sempre più hamiano.
— Che cosa vuoi da me, Karoll Rufirant? — disse Gendibal.
— E a te che titolo ti sta, tedioso?
— Ha importanza? Puoi continuare a chiamarmi studioso.
— Se chiedo, importa che rispondi, piccolo tedioso con la puzza sotto il naso.
— E va bene. Mi chiamo Stor Gendibal, ed adesso intendo andarmene per i fatti miei.
— Che fatti?
Gendibal si sentì accapponare la pelle sulla nuca. C’erano altre menti, lì intorno.
Non aveva bisogno di voltarsi per sapere che alle sue spalle si trovavano altri tre hamiani. Più lontano ce n’erano altri ancora. L’agricoltore fermo davanti a lui puzzava forte.
— I fatti miei non sono fatti tuoi, Karoll Rufirant.
— Ah così? — disse Rufirant, alzando la voce. — Sentito, amici? Dice, i fatti suoi non stanno nostri.
Qualcuno rise alle spalle del contadino, ed una voce gridò:
— Bene dice, perché i tediosi stanno a fare cose coi libri e i puter, robaccia non adatta ai veri uomini.
— Bene, io ora andrò per i fatti miei, quali che siano — disse Gendibal, deciso.
— E come ci riuscirai, piccolo tedioso? — disse Rufirant.
— Passandoti accanto.
— Sul serio? Non ci hai paura di venire fermato?
— Da te e da tutti i tuoi amici? O da te solo? — Gendibal di colpo si mise a parlare in dialetto hamiano. — Da solo ti sta a mancare il coraggio, eh?
Stando alle regole Gendibal non avrebbe dovuto punzecchiarlo così, ma in quel modo avrebbe evitato un attacco in massa e l’attacco in massa doveva essere evitato, anche a costo di strappi ancora più grandi alla regola.
Funzionò. L’espressione di Rufirant si fece torva. — Se la paura sta da qualche parte, sta dalla tua, librettaro. Amici, fate largo. State indietro e lasciatelo passare, che così vede se c’ho paura da solo.
Rufirant alzò le sue braccione e cominciò ad agitarle. Gendibal non temeva l’arte pugilistica del contadino, ma c’era sempre la possibilità che un colpo ben assestato andasse in porto.
Si avvicinò con cautela, lavorandosi con delicatezza e rapidità la mente di Rufirant. Non molto, solo un tocco neanche percepibile; un tocco, però, sufficiente a rallentare i riflessi dell’avversario in quel momento cruciale. Poi penetrò nella mente degli altri, che adesso si stavano radunando in numero sempre più grande. Guizzò avanti e indietro con sapienza, restando nelle menti degli hamiani abbastanza a lungo da individuare elementi utili, ma mai tanto a lungo da lasciare segni tangibili.
Si avvicinò all’agricoltore come un felino, guardingo, prudente, consapevole che nessuno dei presenti stesse preparandosi a interferire.
Rufirant colpì all’improvviso, ma Gendibal vide la mossa nella sua mente prima ancora che i muscoli dell’altro si tendessero, e si spostò di lato. Il colpo andò a vuoto, anche se mancò l’Oratore di poco. Gendibal era saldo sui piedi, tranquillo. Dal pubblico si levò un’esclamazione.
L’Oratore non fece la mossa né di ripararsi né di restituire i colpi sferrati dall’altro: se avesse cercato di ripararsi col braccio, Rufirant glielo avrebbe ridotto male, e se avesse cercato a sua volta di tirare di boxe, l’altro avrebbe retto come niente il suo attacco.
L’unico sistema possibile era trattare l’avversario come un toro, ed evitarlo alla maniera dei toreri. Solo così, e non con l’opposizione diretta, Gendibal poteva sperare di incrinare il suo morale.
Sbuffando e ruggendo, Rufirant caricò. Gendibal era pronto e si spostò quel tanto che bastava a scansare il colpo. Di nuovo l’altro caricò, e di nuovo mancò il bersaglio.
Gendibal adesso aveva il respiro grosso. Lo sforzo fisico era minimo, ma lo sforzo mentale che comportava cercare di controllare l’altro senza controllarlo nel vero senso della parola era notevole. Sarebbe stato impossibile sostenerlo per lungo tempo.
Continuò a stuzzicare leggermente il meccanismo mentale di Rufirant, tentando di favorire la depressione e la paura superstiziosa degli studiosi, poi disse: — Adesso me ne andrò per i fatti miei.
Il viso di Rufirant si contrasse in una smorfia di rabbia, ma per un attimo l’agricoltore rimase immobile. Gendibal percepì i suoi pensieri. La figura del piccolo studioso inerme si era dissolta come per magia, ed al suo posto stava sorgendo un senso di paura...
Ma di colpo la rabbia si gonfiò, annientando la paura.
Rufirant gridò: — Amici! Il tedioso sta a fare il ballerino. Salta qua, salta là e se ne frega della regola di noi hamiani onesti: un colpo tu, un colpo io. Prendetelo.
Tenetelo fermo, così facciamo un colpo io, un colpo lui. Lui anzi, gli permetto il primo colpo, e io sto ultimo.
Gendibal sondò piano la mente degli astanti, cercando resistenze all’ordine impartito da Rufirant. L’unica sua speranza era di mantenere quelle resistenze abbastanza a lungo da assicurarsi la fuga. Poi avrebbe dovuto affidarsi al proprio fiato ed alla propria capacità di intorpidire la volontà del contadino.
Sondò gli hamiani ripetutamente, soffrendo per lo sforzo mentale. Capì che non avrebbe funzionato, gli uomini erano troppi e la necessità di rispettare le regole del comportamento trantoriano lo vincolava senza rimedio.
Si sentì afferrare per le braccia. Adesso lo tenevano saldamente. Avrebbe dovuto intervenire su almeno due o tre menti, ma un’azione del genere era inammissibile e la sua carriera ne sarebbe stata distrutta. Tuttavia era in gioco la sua vita, la sua stessa vita...
Com’era potuto succedere?
Alla riunione della Tavola non erano presenti tutti.
Di solito non si aspettavano gli Oratori che arrivassero in ritardo, ed in ogni caso, pensò Shandess, nessuno lì aveva molta voglia di aspettare Stor Gendibal. Gendibal era il più giovane e, ben lungi dal mostrare proprio per questo deferenza verso gli altri, si comportava come se la gioventù fosse di per se stessa un merito, e come se la vecchiaia fosse una colpa commessa da chi avrebbe avuto il dovere di esserne immune. Gendibal non era molto simpatico agli altri Oratori, ed in realtà non era molto simpatico nemmeno a Shandess. Ma non era della simpatia che si dovesse discutere lì.
Delora Delarmi interruppe le riflessioni di Shandess. Lo stava guardando con i suoi grandi occhi azzurri ed il viso tondo che, dietro l’aria cordiale ed ingenua, nascondeva (a tutti tranne che agli Oratori del suo grado) una mente acuta dotata di eccezionale capacità di concentrazione.
Sorridendo, Delora Delarmi disse: — Dobbiamo aspettare ancora, Primo Oratore?
— (La riunione non era iniziata, ufficialmente, per cui, a rigor di termini, Delora poteva aprire la conversazione, anche se un altro al suo posto avrebbe aspettato che fosse Shandess a parlare per primo.)
Shandess la guardò con affabilità, nonostante la sua lieve infrazione alle regole della cortesia. — In circostanze ordinarie non si aspetterebbe, Oratore Delarmi, ma poiché la Tavola si riunisce proprio per ascoltare l’Oratore Gendibal, è opportuno fare un’eccezione.
— E lui dov’è, Primo Oratore?
— Questo non lo so, Oratore Delarmi.
La Delarmi si guardò intorno. I posti in tutto erano dodici, per dodici Oratori. In cinque secoli la Seconda Fondazione aveva accresciuto i suoi poteri e i suoi doveri, ma ogni tentativo di aumentare il numero dei componenti la Tavola era fallito.
Erano stati dodici dopo la morte di Seldon, in seguito alla decisione del secondo Primo Oratore (Seldon in persona era sempre stato considerato il primo della schiera), e dodici erano rimasti.
Perché dodici? Perché era un numero che permetteva la divisione in gruppi uguali.
Dodici persone si potevano consultare facilmente tutte quante insieme, e nello stesso tempo si potevano distribuire in sottogruppi di lavoro. Se fossero state di più, avrebbero imposto una minor libertà di consultazione; se fossero state di meno, il movimento interno avrebbe subìto più condizionamenti.
Quella, almeno, era sempre stata la spiegazione. In realtà nessuno sapeva perché fosse stato scelto proprio il numero dodici e perché dovesse essere immutate. Ma persino la Seconda Fondazione era suscettibile di diventare schiava delle tradizioni.
Tutte queste cose Delora Delarmi le pensò nella frazione di un secondo, mentre osservava, oltre ai visi ed alle menti dei presenti la sedia vuota dell’oratore più giovane.
Era contenta che nessuno provasse simpatia per Gendibal. Per lei Gendibal aveva il fascino di un centopiedi, e come un centopiedi avrebbe dovuto esser trattato. Fino allora soltanto il suo talento e la sua indiscussa intelligenza lo avevano salvato da un processo per espulsione. (Solo due Oratori erano stati incriminati, – ma non condannati – nella storia semimillenaria della Seconda Fondazione).
Tuttavia, il disprezzo che Gendibal dimostrava mancando alla riunione della Tavola era peggiore di molti insulti e la Delarmi era lieta di constatare che nell’animo dei presenti l’idea di processare il giovane si era già fatta strada.
— Primo Oratore — disse, — se non sapete dove si trovi l’Oratore Gendibal, sarei felice di dirvelo io.
— Dite pure.
— Chi di noi non sa che questo giovane — (apposta tralasciò il titolo onorifico, e naturalmente tutti lo notarono), — si reca continuamente in territorio hamiano? Cosa ci vada a fare non lo so, ma in questo momento si trova tra gli hamiani, ed è così preso da loro, da mettere in secondo piano la riunione della Tavola.
— Credo che si limiti a correre o camminare, a fare esercizio fisico, insomma — disse un altro Oratore.
Delora Delarmi sorrise. Le piaceva sorridere; non le costava nulla. — Qui abbiamo a disposizione l’Università, la Biblioteca, il Palazzo e l’intera regione che li circonda. È certo una regione piccola in confronto al pianeta, però credo che sia sufficientemente estesa da consentire l’esercizio fisico. Allora, non sarebbe meglio cominciare, Primo Oratore?
Shandess sospirò in cuor suo: era in suo potere fare aspettare ancora gli Oratori o rimandare la riunione a quando Gendibal fosse stato presente.
Nessun Primo Oratore tuttavia poteva mantenere a lungo e senza problemi la sua carica se non aveva come minimo il sostegno passivo degli altri; non era quindi prudente irritare questi ultimi. Persino Preem Palver era stato costretto qualche volta ad usare le lusinghe per ottenere ciò che voleva. Tra l’altro, anche Shandess era seccato che Gendibal non si fosse fatto vivo. Il giovane doveva imparare a rispettare le regole: non poteva agire sempre di testa sua.
Shandess prese dunque la parola in qualità di Primo Oratore. — Cominciamo — disse. — L’Oratore Gendibal ha tratto alcune conclusioni sorprendenti dall’analisi dei dati del Primo Radiante. Ritiene che esista un’organizzazione che si sia assunta il compito di conservare il Piano Seldon in funzione e che assolve questo compito più efficacemente di noi, naturalmente per un suo scopo. Secondo l’Oratore Gendibal, quindi, noi dovremmo cercare di sapere di più su di essa, per poterci difendere. Voi tutti siete stati informati di ciò e questa riunione è stata convocata per permettervi di interrogare l’Oratore Gendibal e per consentire a tutti noi di prendere decisioni in merito alla linea d’azione da adottare.
Di fatto una spiegazione del genere era superflua, Shandess aveva tenuto la mente aperta, per cui tutti sapevano già: il discorso era una questione di forma, di cortesia.
Delora Delarmi si diede una rapida occhiata intorno. Gli altri dieci parevano contenti che fosse stata lei ad assumersi il ruolo di anti-Gendibal. — Eppure, Gendibal — disse, tralasciando di nuovo il titolo onorifico, — non sa dare un nome e un volto a questa organizzazione.
Si trattava di un’affermazione chiara ed inequivocabile, il che rasentava la scortesia. Era come dire «sono in grado di analizzare la tua mente, non c’è bisogno che ti scomodi a dare spiegazioni».
Shandess notò la scortesia ma decise di fingere di non averla notata. — Che l’Oratore Gendibal — (badò scrupolosamente a far precedere il nome dal titolo onorifico, ma non sottolineò il fatto, perché non diede particolare risalto alla parola
“Oratore”) — non sappia dare un nome ed un volto all’organizzazione non significa che essa non esista. I membri della Prima Fondazione hanno continuato per moltissimo tempo a ignorare la nostra esistenza e di fatto la ignorano anche ora.
Mettete forse per questo in dubbio che esistiamo?
— Dal fatto che esistiamo nonostante che la nostra esistenza sia ignorata, non consegue che di una cosa basti ignorare l’esistenza perché esista — disse la Delarmi, con una risatina.
— Sì, è abbastanza vero. È per questo che le affermazioni dell’Oratore Gendibal vanno esaminate con la massima attenzione. Si basano su rigorose deduzioni matematiche, che ho analizzato io stesso e che vi esorto a prendere in considerazione. Sono... — (cercò una sfumatura mentale che esprimesse bene il suo punto di vista) — plausibili.
— E quel Golan Trevize, quel membro della Prima Fondazione che vaga per la vostra mente ma che non nominate? — disse la Delarmi, commettendo un’altra scortesia che questa volta fece arrossire un poco il Primo Oratore. — Che mi dite di lui?
— L’Oratore Gendibal — disse Shandess, — pensa che Trevize sia lo strumento, forse inconsapevole, di questa organizzazione, e che non dovremmo sottovalutarlo.
Delora Delarmi si appoggiò allo schienale della poltrona e si scostò dalla fronte i capelli brizzolati. — Se questa ipotetica organizzazione esiste — disse, — e se è così segreta e così potente, perché mai avrebbe deciso di servirsi di un consigliere esiliato della Prima Fondazione? Di una persona, cioè, che dà molto nell’occhio?
Il Primo Oratore disse, serio: — Può sembrare strano, è vero. E tuttavia ho notato una cosa assai inquietante, che non capisco. — D’istinto, quasi involontariamente, seppellì quel pensiero nella propria mente, per paura che gli altri potessero rilevarlo.
Tutti gli Oratori notarono il gesto mentale e, com’era rigorosamente prescritto dalle regole, rispettarono il sentimento di pudore di Shandess. Anche la Delarmi lo rispettò, sebbene con una certa dose di insofferenza. Disse, secondo la formula di pragmatica: — Possiamo chiedervi di lasciarci conoscere i vostri pensieri, dal momento che comprendiamo e perdoniamo l’eventuale senso di pudore presente in voi?
Shandess disse: — Nemmeno io, come voi, capisco che motivo ci sia di considerare il Consigliere Trevize lo strumento di una certa organizzazione. Né ho idea di quali potrebbero essere i suoi scopi se lo fosse davvero. Eppure l’Oratore Gendibal sembra sicuro del fatto suo, e non si possono sottovalutare le doti di intuizione di uno che è diventato Oratore. Per questo mi sono risolto ad applicare il Piano a Trevize.
— Ad un singolo individuo? — disse sottovoce, sorpreso, uno degli Oratori, mostrandosi poi subito desolato per quella sua domanda, che praticamente significava
«Che stupido!»
— Ad un singolo individuo, sì — disse Shandess, — ed avete ragione, sono stato uno stupido. So bene che il Piano non si possa applicare in alcun modo agli individui, e nemmeno ai piccoli gruppi. Tuttavia ero curioso. Ho compiuto un’estrapolazione delle Intersezioni Interpersonali che andava ben oltre i limiti ragionevoli, ma l’ho fatto in sedici modi diversi ed ho scelto una regione, anziché un punto. Mi sono quindi servito di tutti i particolari che conosciamo di Trevize e del sindaco della Prima Fondazione. Poi ho buttato tutto nel crogiolo, un po’ alla rinfusa, temo. — Fece una pausa.
— Allora? — disse la Delarmi. — Immagino... I risultati sono stati sorprendenti?
— Non ci sono stati risultati, come potete ben capire — disse il Primo Oratore. — Non si riesce ad ottenere niente con i singoli individui, tuttavia...
— Tuttavia?
— Sono quarant’anni che analizzo dati, ed ho acquisito una specie di sesto senso grazie al quale ho la netta intuizione di quali saranno i risultati prima che essi vengano analizzati. È raro che mi sbagli. In questo caso, anche se non ci sono stati esiti concreti, ho avuto la netta sensazione che Gendibal avesse ragione e che Trevize non dovesse essere lasciato libero di agire.
— Perché non dovrebbe essere lasciato libero di agire? — chiese Delora Delarmi, chiaramente stupita di percepire nella mente del Primo Oratore un’emozione molto forte.
— Mi vergogno di non avere resistito alla tentazione di usare il Piano per scopi ai quali non sia destinato — disse Shandess. — Mi vergogno altresì per essermi lasciato influenzare da una mera sensazione. Eppure non posso fare a meno di esserne influenzato tuttora, perché è molto forte. Se l’Oratore Gendibal ha ragione, se è vero che da qualche parte stia per arrivare il pericolo, allora sono sicuro che, al momento in cui la nostra situazione diventerà critica, sarà Trevize a rappresentare l’elemento-chiave: sarà lui a giocare la carta decisiva.
— Da quali dati deducete questo? — disse la Delarmi, scandalizzata.
— Da nessun dato — disse Shandess, guardandosi intorno con aria afflitta. — La matematica della Psicostoria non mi ha fornito risultati, ma mentre osservavo il complesso gioco delle relazioni mi è parso che Trevize fosse la chiave di tutto.
Bisogna tenere d’occhio quel giovane.
Gendibal capì che non sarebbe tornato in tempo per partecipare alla riunione della Tavola, c’era anzi rischio che non tornasse affatto.
Era trattenuto saldamente. Sondò disperato le menti, intorno, per vedere se ci fosse qualche speranza di indurre gli hamiani a lasciarlo andare.
Rufirant era in piedi davanti a lui, esultante. — Stai pronto adesso, tedioso? Un colpo io, un colpo tu, come si fa tra hamiani. Dai allora, piccolino; colpisci primo.
Gendibal disse: — E qualcuno ti bloccherà a te come mi blocca a me?
— Lasciatelo andare — disse Rufirant. — No, no, solo le braccia. Le gambe tenetele forte: non vogliamo che faccia di nuovo il ballerino.
Gendibal si ritrovò con le braccia libere e le gambe sempre inchiodate a terra.
— Dai, tedioso, colpisci — disse l’agricoltore. — Tiraci un pugno.
L’Oratore, che stava ancora sondando le menti, individuò d’un tratto un senso di indignazione, di pietà, di protesta per l’ingiustizia della situazione. Non aveva scelta; doveva per forza correre il rischio ed intervenire su…
Non ce ne fu bisogno: benché Gendibal non avesse interferito, la mente sconosciuta reagì esattamente come avrebbe voluto lui.
D’un tratto, comparve nel suo campo visivo una sagoma piccola, tozza, con lunghi capelli neri aggrovigliati e l’indice teso ad accusare Rufirant.
Era una donna. Gendibal pensò cupamente che, non avere notato prima la sua mente, dimostrava quanto fosse teso e preoccupato.
— Karoll Rufirant! — urlò la donna, rivolta al contadino. — Bravo codardo! Un colpo io, un colpo tu, come si usa fra hamiani, eh? Stai due volte più grande del tedioso. Perché non attacchi me? Ci sta quasi più pericolo. Credi che ottieni gloria picchiando quel poveraccio? Vergogna, non gloria, credo io. Tutti ti indicheranno col dito dicendo «è quello, Rufirant si chiama, famoso picchia-marmocchi». Rideranno, credo io, e nessun hamiano onesto starà a bere con te. E nessuna hamiana onesta vorrà farsi vedere con te.
Rufirant cercò di arginare il torrente di parole e di parare i colpi che lei gli stava dando, ma riuscì solo a dire, con voce flebile: — Su, dài, Sura. Dài…
Gendibal si accorse di essere libero. Si accorse che Rufirant non lo guardava più torvo, che le menti degli hamiani non si occupavano più di lui.
Nemmeno Sura si occupava di lui, la sua furia era concentrata unicamente su Rufirant. Ripresosi, l’Oratore guardò se fosse il caso di prendere misure per mantenere viva quella furia e per rafforzare il senso di vergogna che provava Rufirant, ma ancora una volta constatò che non ce ne fosse bisogno.
— Indietro, tutti! — disse la donna. — Ma guardate un po’. Non basta che ’sta montagna di Karoll fa il gigante col magrolino, ci stanno pure cinque o sei alleati che gli danno man forte, vergognosi, per vantarsi alla fattoria di aver fatto la loro parte.
«Gli tenevo il braccio, al marmocchio», dirà uno, «e Rufirant il gigante l’ha colpito in faccia mentre lui stava bloccato. Ma io lo tenevo per un piede», dirà l’altro, «anch’io ho diritto a un po’ di gloria». E Rufirant, il gran pezzo d’uomo, dirà «non sono riuscito a batterlo sul viottolo, allora i miei compagni l’hanno inchiodato e con l’aiuto di tutti e sei gliele ho suonate di santa ragione».
— Ma Sura — disse Rufirant, quasi piagnucolando, — ho detto al tedioso che poteva colpir primo.
— Ed avevi paura dei colpi tremendi delle sue braccia, eh, Rufirant, zuccone? Su, lascialo andare dove ha da andare, e voi tutti filate a casa, sempre che trovate ancora qualcuno che vi accoglie. Sperate bene che la grande impresa di oggi sta dimenticata.
E non starà dimenticata, perché la starò a dire in giro se mi farete arrabbiare più di che sto già arrabbiata.
I contadini si allontanarono in gruppo, a testa bassa, senza voltarsi indietro.
Gendibal li seguì con lo sguardo, poi fissò la donna. Indossava casacca e pantaloni e ai piedi portava scarpe malfatte. Aveva il viso lucido di sudore, e ansimava. Il naso era piuttosto grosso, il seno abbondante (almeno da quanto potesse vedere lui attraverso la casacca larga), le braccia erano nude e muscolose. Ma non c’era da stupirsi: le hamiane lavoravano nei campi accanto ai loro uomini.
La donna lo guardò severa, con le braccia sui fianchi. — Be’, che stai a fare ancora qui, tedioso? Va’ al tuo Posto dei Tediosi. Stai impaurito? Vuoi che ti accompagno?
Gendibal era infastidito dal puzzo di sudore emanato dai vestiti non troppo puliti della donna, ma viste le circostanze pensò che sarebbe state troppo scortese mostrarsi schizzinosi.
— Vi ringrazio, signorina Sura...
— Ci ho un nome, Novi — disse lei, aspra. — Sura Novi. Chiamami pure Novi, che basta.
— Vi ringrazio, Novi. Mi siete stata di grande aiuto. Sono contento se mi accompagnaste, non perché abbia paura, ma per il piacere della vostra compagnia. — Si inchinò con grazia, come avrebbe potuto inchinarsi davanti a una delle giovani donne dell’Università.
Novi arrossì, per un attimo parve incerta, poi cercò di imitare il gesto di lui. — Il piacere... sia mio — disse, come cercando parole che esprimessero quello che sentiva e nello stesso tempo apparissero colte.
S’incamminarono insieme, senza fretta. Gendibal si rendeva conto che così avrebbe fatto irrimediabilmente tardi alla riunione, ma ormai aveva avuto modo di riflettere sul significato di ciò che era successo ed intimamente era contento che il ritardo aumentasse.
Quando gli edifici dell’Università si profilarono davanti a loro, Sura si fermò e disse, esitante: — Mastro Tedioso?
Adesso che erano più vicini a quello che lei chiamava Posto dei Tediosi, si era fatta più gentile, Gendibal per un momento, ebbe la tentazione di dirle: — Non sono più un povero marmocchio, adesso? — Ma una domanda del genere l’avrebbe messa terribilmente in imbarazzo.
— Sì, Novi?
— Sta ricco ed elegante il Posto dei Tediosi, vero?
— È bello — disse Gendibal.
— Una volta ho sognato che ci stavo. E che... che stavo tediosa.
— Un giorno — disse Gendibal cortesemente, — ve lo mostrerò.
Lei lo guardò come una che non aveva preso l’invito per una pura formalità.
Disse: — So scrivere: m’ha insegnato il maestro. — Se ti scrivo una lettera — aggiunse, cercando di usare un tono di noncuranza, — cosa ci metto su perché ti arriva?
— Basta scrivere “Casa dell’Oratore, Appartamento Ventisette”, e mi arriverà. Ma ora devo andare, Novi.
S’inchinò di nuovo, e di nuovo lei provò a imitare il suo inchino. Si allontanarono in direzioni opposte, e Gendibal smise subito di pensare a lei. Pensò alla riunione della Tavola e, con astio, a un particolare Oratore. Delora Delarmi.