— Siete pronto, Janov? — disse Trevize.
Pelorat alzò gli occhi dal libro che stava guardando e disse: — Intendete per il Balzo, amico mio?
— Per il Balzo iperspaziale, sì.
Pelorat inghiottì a vuoto. — Sentite, siete proprio sicuro che andrà tutto bene? So che è stupido avere paura, ma al pensiero di venir ridotto in tachioni incorporei che nessuno ha mai visto od individuato...
— Via, Janov, non preoccupatevi. È un procedimento supercollaudato, ve l’assicuro sul mio onore. Come mi avete spiegato voi, il Balzo si pratica da ventiduemila anni, e non ho mai sentito parlare di un solo incidente mortale avvenuto nell’iperspazio. Potremmo, emergendo, trovarci in un posto molto poco confortevole, ma in quel caso non saremmo più composti di tachioni, avremmo il nostro corpo di tutti i giorni.
— Mi pare una magra consolazione.
— Ma vedete che non riemergeremo in un posto pericoloso. A dir la verità, per un attimo ho pensato di entrare nell’iperspazio senza avvertirvi della cosa, in modo che non vi rendeste conto di niente. Riflettendo, però, mi sono detto che sarebbe stato meglio per voi affrontare l’esperienza consapevolmente, constatare di persona che non presenti difficoltà e che possa quindi essere vissuta a cuor leggero.
— Ecco... — disse Pelorat, dubbioso, — credo che abbiate ragione, ma francamente non ho alcuna fretta.
— Vi assicuro che...
— Sì, sì, amico mio, non metto certo in dubbio le vostre garanzie. È solo che... avete mai letto Santerestil Matt?
— Certamente. Non sono un illetterato.
— Oh sì, è chiaro, non avrei dovuto fare una domanda del genere. Ve lo ricordate?
— Non soffro nemmeno di amnesie.
— A quanto pare non mi riesce d’aprir bocca senza offendere. Quello che volevo dire è che non posso fare a meno di pensare al passo in cui Santerestil e il suo amico Ban sono fuggiti dal Pianeta Diciassette e si sono persi nello spazio. Ricordo quelle scene ipnotiche fra le stelle, lo spostarsi lento in mezzo al silenzio profondo, in mezzo ad un’immutabilità affascinante... Be’, non ci avevo mai creduto, sapete? Mi piacevano quelle descrizioni e mi commuovevano, però non le consideravo vere.
Adesso invece, che mi sono abituato all’idea di trovarmi nello spazio, adesso che vivo l’esperienza di cui avevo letto in Santerestil, non vorrei rinunciarvi per nulla al mondo: è un po’ come se fossi Santerestil stesso...
— È come se io fossi Ban — disse Trevize, con un filo d’impazienza.
— In un certo senso. Quella spruzzata di stelle, là fuori, è immobile, fatta eccezione naturalmente per il nostro sole, che non vediamo, ma che starà rimpicciolendo. La Galassia conserva immutata la sua maestà, la sua fioca luminosità. Lo spazio è silenzioso ed io non ho altre distrazioni che...
— Che me.
— Che voi. Però, Golan, amico mio, parlare con voi della Terra e cercare di insegnarvi un po’ di preistoria ha i suoi lati piacevoli. Nemmeno a questo nostro dialogo vorrei rinunciare.
— Non dovrete rinunciarvi, non subito, almeno. Non penserete mica che compiamo il Balzo ed emergiamo sulla superficie di un pianeta, vero? Dopo il Balzo, che durerà tanto poco che non vi accorgerete nemmeno che sia passato un tempo misurabile, ci vorrà magari una settimana per arrivare sulla superficie di un qualsiasi mondo, per cui tranquillizzatevi pure.
— Per superficie di un mondo non intenderete certo la superficie di Gaia, vero?
Quando emergeremo dall’iperspazio potremo trovarci assai lontano da Gaia.
— Lo so, Janov, ma saremo pur sempre nel settore giusto, se le vostre informazioni sono esatte. Se invece non lo sono...
Pelorat scosse la testa, accigliato. — A che ci servirà essere nel settore giusto se non conosciamo le coordinate di Gaia?
Trevize disse: — Janov, mettiamo che vi trovaste su Terminus, che voleste recarvi nella città di Argyropoli e sapeste soltanto che si trovi da qualche parte sull’istmo.
Una volta sull’istmo che cosa fareste?
Pelorat rifletté, cauto, chiedendosi se Trevize non si aspettasse da lui una risposta terribilmente complicata. Alla fine rinunciò all’idea di trovarla e disse: — Penso che chiederei informazioni a qualcuno.
— Infatti, cos’altro si potrebbe fare? Allora, siete pronto?
— Intendete dire adesso? — Pelorat si alzò e sul suo viso piacevolmente inespressivo si dipinse una minima ombra di preoccupazione. — Che cosa devo fare?
Devo stare in piedi o seduto? Ditemi voi...
— Per la galassia, non fate niente. Venite con me nella mia stanza, dove io devo usare il computer, e dopo mettetevi seduto, state in piedi, fate la ruota, sistematevi come meglio vi piaccia. Io vi suggerisco di sedervi davanti allo schermo e di guardarlo: vedrete senz’altro cose interessanti. Su, venite.
Percorsero il breve corridoio che portava alla stanza di Trevize, e questi si sedette davanti al computer. — Volete fare voi, Janov? — chiese di punto in bianco. — Vi do i dati; è sufficiente che li pensiate ed il computer farà tutto il resto.
— No, grazie — disse Pelorat. — Il computer, per qualche motivo, non funziona bene con me. Voi dite che mi occorra solo un po’ di pratica, ma non ci credo. C’è qualcosa nella vostra mente, Golan, che...
— Non siate sciocco.
— No, parlo sul serio; quel computer sembra fatto apposta per voi. Quando siete collegati sembrate un unico organismo. Quando sono collegato io, invece, siamo due oggetti ben distinti: Janov Pelorat ed il computer. Non è assolutamente la stessa cosa.
— È ridicolo — disse Trevize, ma era vagamente lusingato dal discorso di Pelorat e toccò quasi con affetto le impronte che fungevano da contatto.
— Perciò preferisco stare a guardare — disse Pelorat. — Cioè, preferirei che la storia dell’iperspazio non ci fosse, ma dato che c’è, preferisco stare a guardare. — Fissò ansiosamente lo schermo e la Galassia nebbiosa, con la spruzzata di stelle in primo piano. — Fatemi sapere quando ci siamo. — Indietreggiò piano, fino a toccare la parete, e chiamò a raccolta tutte le sue forze.
Trevize sorrise. Posò le mani sul contatto del computer ed avvertì subito l’unione mentale. Era ogni giorno più facile e più profonda e per quanto lui avesse riso del discorso di Pelorat, sentiva effettivamente un legame simbiotico. Gli pareva che fosse quasi superfluo pensare consciamente alle coordinate. Sembrava che il computer sapesse già cosa lui volesse, senza bisogno del processo conscio del “parlare”: era come se gli traesse le informazioni direttamente dal cervello.
Ma Trevize disse le coordinate e poi chiese un intervallo di due minuti prima del Balzo.
— Tutto a posto, Janov: abbiamo due minuti. Centoventi... centoquindici... centodieci... Guardate lo schermo.
Pelorat guardò: aveva le labbra tese e tratteneva il respiro.
Trevize continuò il conteggio alla rovescia a bassa voce fino a zero!
Senza che si percepisse alcun movimento, alcun mutamento, la visione sullo schermo cambiò. Le stelle s’infittirono e la Galassia scomparve.
Pelorat trasalì e disse: — È finito?
— È finito cosa? Se siete trasalito è colpa vostra. In realtà non avete avvertito niente, ammettetelo.
— Lo ammetto.
— Bene, ecco concluso il Balzo. Un tempo, quando il viaggio iperspaziale era agli inizi, la gente provava una strana sensazione fisica, e alcuni soffrivano di nausea o di capogiro. Almeno così dicono i libri. In ogni caso, a mano a mano che l’esperienza crebbe e che si migliorarono le apparecchiature, gli effetti collaterali diminuirono.
Con un computer come quello che abbiamo a bordo, questi effetti non arrivano nemmeno alla soglia della coscienza. Per lo meno, così è per me.
— Anche per me, devo ammetterlo. Dove ci troviamo, Golan?
— Abbiamo fatto solo un piccolo passo avanti: siamo nella regione kalganiana.
Abbiamo ancora parecchia strada da percorrere e prima di tornare nell’iperspazio bisogna controllare la precisione del Balzo appena compiuto.
— C’è una cosa che mi preoccupa... Dov’è la Galassia?
— Tutt’intorno a noi, Janov. Ci siamo in mezzo in pieno: mettendo bene a fuoco lo schermo, le parti più lontane di essa ci appaiono come una banda luminosa che attraversa il cielo.
— La Via Lattea! — esclamò Pelorat, felice. — Quasi tutti i mondi la vedono nel loro cielo, ma noi su Terminus no. Mostratemela, amico mio!
Lo schermo s’inclinò, dando l’impressione che le stelle si muovessero piano, poi il campo visivo fu quasi riempito da una luminosità densa e perlacea che si assottigliò per poi espandersi di nuovo.
Trevize disse: — È più densa verso il centro della Galassia. Non così densa o brillante come potrebbe essere, però, perché ci sono quelle nubi nere nei bracci della spirale. È uno spettacolo che si vede dalla maggior parte dei mondi abitati.
— Ed anche dalla Terra.
— Senza distinzione. Non è quindi una caratteristica che ci permetta di identificare il pianeta.
— Naturalmente no. Ma... voi non avete studiato la storia della scienza, vero?
— No, non in profondità, anche se qualcosa ho imparato. Se però avete intenzione di farmi alcune domande non vi aspettate che vi risponda da esperto.
— Sapete, questo Balzo iperspaziale mi ha fatto venire in mente una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso. Si può elaborare una descrizione dell’Universo in cui il viaggio iperspaziale sia impossibile ed in cui la velocità della luce che viaggia attraverso il vuoto sia il massimo assoluto, la velocità massima raggiungibile, vero?
— Certamente.
— In quelle condizioni la geometria dell’Universo non permette di compiere il viaggio che abbiamo appena compiuto in un tempo inferiore a quello che impiegherebbe un raggio di luce. E se facessimo il nostro viaggio alla velocità della luce la nostra esperienza della durata del tempo non corrisponderebbe a quella dell’Universo in generale. Se questo posto fosse, mettiamo, a quaranta parsec da Terminus, e se fossimo venuti qui alla velocità della luce, non avremmo avvertito il tempo trascorrere, ma su Terminus e nell’intera Galassia sarebbero passati circa centotrent’anni. Ora, noi abbiamo effettuato un viaggio non alla velocità della luce, ma a una velocità che è migliaia di volte quella della luce, e tuttavia il tempo non è trascorso da nessuna parte. Od almeno, lo spero.
— Non aspettatevi che vi snoccioli la matematica della Teoria Iperspaziale di Olanjen. Posso soltanto dirvi che se aveste viaggiato alla velocità della luce nello spazio normale, il tempo in effetti sarebbe trascorso al ritmo di 3,26 anni per parsec, come avete detto voi. Il cosiddetto Universo relativistico, che l’umanità ha compreso fin dagli albori della preistoria, correggetemi se sbaglio, siete voi l’esperto in questo campo, rimane sempre valido e le sue leggi non sono state annullate. Col Balzo iperspaziale, però, noi veniamo a trovarci in condizioni che non sono quelle in cui opera la relatività, e le regole sono quindi diverse. Dal punto di vista iperspaziale la Galassia è un oggetto minuscolo, in teoria un puntino non-dimensionale, e non esistono effetti relativistici di sorta.
— Anzi, nelle formule matematiche della cosmologia sono dati due simboli per la Galassia: G per la Galassia relativistica, dove la velocità della luce è il valore massimo, e G1 per la Galassia iperspaziale, dove la velocità non ha in realtà un significato. Dal punto di vista iperspaziale il valore di tutte le velocità è zero, e noi non ci muoviamo; in rapporto allo spazio, la velocità è infinita. Non posso proprio spiegare le cose meglio di così. Ah, posso dire però che uno dei più bei tranelli, in fisica teorica, è piazzare un simbolo od un numero che abbia un certo significato nella G, in un’equazione che si riferisca alla G1, o viceversa, e lasciarlo lì per mettere in difficoltà uno studente. Quasi sempre lo studente cade nella trappola e ci resta, e sbuffa e suda senza riuscire a capire come mai i conti non tornino, finché qualcuno più vecchio e più esperto di lui non lo aiuti ad uscire dall’impasse. Io una volta per poco non sono rimasto preso nella rete.
Pelorat rifletté con aria grave sul discorso di Trevize, poi disse, dubbioso: — Ma qual è la vera Galassia?
— O l’una o l’altra, a seconda di quello che si fa. Su Terminus, per esempio, si può usare un’auto per coprire una certa distanza sulla superficie ed una nave per coprire una certa distanza in mare. Le condizioni nei due ambienti sono completamente diverse e così potremmo domandarci anche in questo caso: qual è il vero Terminus, quello che sperimentiamo in mare o quello che sperimentiamo in terra?
Pelorat annuì. — Le analogie sono sempre pericolose — disse, — ma preferisco accettare questa che rischiare di diventar pazzo continuando a riflettere ancora sull’iperspazio. Mi concentrerò su ciò che stiamo facendo ora.
— Considerate il Balzo che abbiamo appena compiuto come il nostro primo passo verso la Terra.
«E chissà verso cos’altro, — pensò Trevize.
— Bene — disse Trevize. — Ho sprecato un’intera giornata.
— Come? — disse Pelorat, alzando gli occhi dal suo lavoro. — In che modo?
Trevize allargò le braccia. — Non mi sono fidato del computer. Non ho osato fidarmi, e così ho confrontato la nostra posizione attuale con la posizione calcolata per il Balzo: non ho trovato differenze di sorta, nessun errore rilevabile.
— Non è un bene, questo?
— Altroché: è addirittura incredibile. Non ho mai sentito di una perfezione simile.
Ho affrontato e controllato Balzi secondo le modalità più svariate e con apparecchiature di tutti i tipi. A scuola dovetti programmarne uno con un computer manuale e poi spedire un iper-relé a verificare i risultati. Naturalmente non potevo inviare una nave vera, perché, a parte la spesa, avrei potuto facilmente farla emergere nel bel mezzo di una stella. Certo non ho mai combinato un disastro del genere, ma il rischio di commettere un grosso errore c’era sempre. Nemmeno gli esperti possono garantirci l’assoluta mancanza di errori in questo campo, perché ci sono in gioco troppe variabili. Diciamo che la geometria dello spazio è troppo complicata perché la si possa affrontare efficacemente, e l’iperspazio unisce a quelle complicazioni una sua complessità peculiare che non possiamo nemmeno pretendere di capire. È per questo che dobbiamo procedere passo passo, invece di compiere un unico grande Balzo da qui al Settore Sayshell: gli errori aumenterebbero troppo con la distanza.
— Ma avete detto che questo computer non fa un solo errore.
— Lui l’ha detto. Gli ho fatto confrontare la nostra posizione reale con quella calcolata in precedenza, e lui ha concluso che non ci sono differenze rilevabili. Ed io mi sono detto: se per caso mentisse?
Pelorat, che fino allora aveva tenuto la stampante in mano, la posò, con espressione turbata. — State scherzando? Un computer non può mentire, a meno che non vogliate dirmi che secondo voi è rotto.
— No, non era questo che intendevo. Per lo spazio, penso veramente che sia in grado di mentire: è così avanzato che non posso fare a meno di raffigurarmelo umano, o magari addirittura superumano. In ogni caso sufficientemente umano da essere orgoglioso e da dire le bugie. Gli ho ordinato di calcolare una rotta nell’iperspazio che ci portasse vicino al Pianeta Sayshell, capitale dell’Unione Sayshell. L’ha fatto: ne ha tracciata una in ventinove tappe, il che tradisce un’arroganza insopportabile.
— In che senso arroganza?
— Un errore durante il primo Balzo rende il secondo già meno sicuro in partenza, e un altro errore che si aggiunga durante il secondo Balzo rende il terzo incerto e non esattamente prevedibile. Com’è possibile calcolare ventinove tappe tutte in una volta?
La ventinovesima potrebbe portarci in qualsiasi punto della Galassia, anche il più pericoloso. Così ho dato ordine al computer di compiere soltanto il primo passo, poi controlleremo il percorso, prima di procedere oltre.
— Una tattica prudente — disse Pelorat, accalorato. — La approvo in pieno.
— Sì, ma dopo avere compiuto il primo passo il computer non potrebbe sentirsi offeso per il fatto che non mi sia fidato di lui? Non potrebbe essere indotto dal suo orgoglio a dire di non aver commesso alcun errore? Potrebbe riuscirgli impossibile ammettere di avere sbagliato, di essere fallibile: se così fosse, tanto varrebbe non averlo a bordo.
Il viso lungo e mite di Pelorat s’intristì. — E se così fosse che cosa potremmo fare, Golan?
— Si può fare quello che ho fatto io: sprecare una giornata. Ho controllato la posizione di molte delle stelle che ci circondano con i metodi più primitivi che si possano trovare: osservazione al telescopio, fotografie, misurazioni manuali. Ho confrontato ciascuna delle posizioni reali con le posizioni che avremmo dovuto avere in caso di completa assenza di errori. Ho perso una giornata e non ho concluso niente.
— Sì, ma che cosa è successo?
— Ho trovato due errori enormi, ho effettuato un controllo ed ho constatato che avevo sbagliato i calcoli. Ho corretto gli errori, poi ho provato a fornire i dati esatti al computer, giusto per verificare se mi desse le stesse risposte cui ero arrivato io. A parte il fatto che le sue cifre avevano molti più decimali delle mie, i risultati erano identici. Insomma il computer non aveva commesso alcun errore; sarà un presuntuoso figlio d’un Mulo, ma la sua presunzione è giustificata.
Pelorat lasciò andare un lungo respiro. — Questa è una buona notizia.
— Sicuro. Perciò intendo lasciargli compiere gli altri ventotto Balzi.
— Tutti in una volta? Ma...
— No, no, non vi preoccupate. Non sono diventato all’improvviso un temerario.
Li faremo uno alla volta; dopo ciascuna tappa il computer controllerà la posizione e, se questa corrisponderà sufficientemente a quella programmata, potrà procedere.
Ogni volta che troverà uno scarto troppo grande (e credetemi, non sono stato per niente generoso nello stabilire i limiti), dovrà fermarsi e calcolare daccapo le tappe rimanenti.
— E quando intendete dare inizio a questa prassi?
— Quando? Immediatamente. Sentite, vedo che state compilando l’indice analitico della vostra Biblioteca...
— Sì, questa è proprio l’occasione giusta per farlo, Golan. Erano anni che mi proponevo di mettermi all’opera, ma per un motivo o per l’altro ho sempre dovuto rinviare.
— Non ho alcuna obiezione, Janov. Fate pure e non preoccupatevi. Concentratevi sul vostro lavoro. Io mi occuperò di tutto il resto.
Pelorat scosse la testa. — Non dite sciocchezze. Non starò in pace finché la storia dei Balzi non sarà finita. Ho una paura matta, sapete?
— Forse non avrei dovuto parlarvene, ma dovevo pur parlarne con qualcuno, e qui ci siete solo voi. Lasciate che vi spieghi fino in fondo e con franchezza come stanno le cose. C’è sempre la possibilità che emergiamo dal Balzo in una zona dello spazio interstellare in cui si trovi un meteoroide in rotta di collisione con noi, oppure che emergiamo nel bel mezzo di un mini-buco nero. In entrambi i casi la nave verrebbe distrutta, e noi con essa. In teoria queste cose possono accadere.
«Le probabilità che accadano però sono minime. E poi, anche stando su Terminus certe eventualità sono possibili. Mettiamo che vi trovaste adesso nel vostro studio a esaminare microfilm, o che foste a letto a dormire; un meteorite potrebbe penetrare oltre l’atmosfera del pianeta e mirare dritto a voi, colpendovi in testa ed uccidendovi.
Non sarebbe impossibile, ma fortemente improbabile. Vi dirò che di fatto le probabilità di intersecare nel corso del Balzo la rotta di un corpo celeste troppo piccolo per essere individuato dal computer sono enormemente inferiori a quelle di venir colpiti da un meteorite mentre ci si trovi in casa propria. Non ho mai sentito di una nave che sia stata distrutta in quel modo, mai, in tutta la storia del viaggio iperspaziale. Gli altri rischi, come ad esempio quello di finire in mezzo a una stella, sono ancora inferiori.
— Allora perché mi dite tutto questo, Golan? — disse Pelorat.
Trevize indugiò un attimo, chinò la testa pensieroso e infine disse: — Non lo so.
O forse sì. Vedete, per quanto possa essere minimo il rischio di una catastrofe, se un numero sufficiente di persone corre un numero sufficiente di rischi, la catastrofe alla fine si verifica inevitabilmente. Anche se consciamente sia sicurissimo che tutto andrà bene, c’è una vocina fastidiosa dentro di me che dice «forse succederà questa volta». E mi fa sentire in colpa. Sì, credo proprio di sentire questo. Janov, se dovesse succedere qualcosa, perdonatemi.
— Ma Golan, mio carissimo amico, se dovesse succedere qualcosa, tutti e due moriremmo all’istante. Non farei in tempo a perdonarvi, né voi a ricevere il perdono.
— Lo so. Allora potete perdonarmi adesso?
Pelorat sorrise. — Non so perché, ma questa storia mi mette di buon umore; ha in sé qualcosa di piacevolmente buffo. Certo Golan che vi perdono. La letteratura abbonda di miti che parlino di una qualche forma di vita dopo la morte. Se per caso esistesse davvero un “aldilà” (e immagino che le probabilità di un simile evento siano pari, o addirittura inferiori, a quelle di riemergere in un mini-buco nero) e se entrambi ci ritrovassimo in esso, testimonierei indubbiamente a vostro favore, riconoscendo la vostra buona volontà e la vostra assoluta mancanza di responsabilità per la mia morte.
— Grazie! Ora mi sento sollevato. Sono prontissimo a correre i miei rischi, ma non mi andava l’idea che voi correste gli stessi rischi di chi ha deciso la rotta.
Pelorat strinse forte la mano di Trevize. — Sapete, Golan, vi conosco da meno di una settimana e benché di queste cose non sia giusto dare giudizi affrettati, non posso fare a meno di pensare che siate una persona fantastica. Bene, procediamo allora, e liberiamoci del pensiero.
— Sì, certo. Mi basta toccare quel piccolo contatto. Il computer ha già ricevuto le mie istruzioni ed aspetta soltanto che io dia il via. Volete essere voi a...
— Per carità! Fate pure voi: quello è il vostro computer.
— Benissimo. E la responsabilità è la mia. Vedete? Sto ancora tentando di sottrarmici. Tenete gli occhi sullo schermo!
Con mano ferma ed un allegro sorriso sulle labbra. Trevize si collegò al computer.
Dopo un breve intervallo in cui non successe niente, il quadro delle stelle visibili cambiò, poi cambiò ancora ed ancora. Le stelle diventarono sempre più fitte e luminose.
Sottovoce, Pelorat contò. Quando ebbe contato fino a quindici ci fu un arresto, come se qualche pezzo di apparecchiatura si fosse inceppato.
— Cosa c’è che non va? Cos’è successo? — sussurrò Pelorat con un filo di voce, quasi temesse parlando forte di rovinare irrimediabilmente il meccanismo.
Trevize si strinse nelle spalle. — Immagino che stia rifacendo i calcoli. C’è un oggetto nello spazio che ha introdotto una modificazione percettibile nella forma del campo gravitazionale complessivo. Un oggetto non previsto, una qualche stella nana od un pianeta vagabondo non segnato sulle carte...
— E può essere pericoloso?
— Dal momento che siamo ancora vivi, sono quasi sicuro che non sia pericoloso.
Un pianeta può trovarsi a cento milioni di chilometri di distanza e provocare lo stesso una modificazione gravitazionale abbastanza forte da imporre una revisione dei calcoli. Una stella nana che fosse anche lontana dieci miliardi di chilometri potrebbe...
Lo schermo cambiò un’altra volta e Trevize interruppe il suo discorso. Cambiò ancora, e poi ancora. Alla fine, quando Pelorat sussurrò «ventotto», si fermò.
Trevize consultò il computer. — Siamo arrivati — disse.
— Il primo Balzo l’ho contato come uno, ed in questa serie sono partito da due. In tutto ho contato ventotto Balzi. Voi avevate detto che erano ventinove.
— Probabilmente i calcoli che il computer ha rifatto quando eravamo alla quindicesima tappa ci hanno risparmiato un Balzo. Posso controllare se volete, ma in realtà non ce n’è bisogno. Siamo nelle vicinanze del Pianeta Sayshell; lo dice il computer e io gli credo. Se orientassi opportunamente lo schermo vedremmo un bel sole brillante, ma non ha senso sottoporre ad un inutile sforzo la capacità del video di inquadrare corpi celesti. Il Pianeta Sayshell è il quarto in ordine di distanza dal sole e si trova a circa tre virgola due milioni di chilometri dalla nostra posizione attuale, per cui possiamo considerare conclusa la serie di Balzi. Arriveremo là in tre giorni, od anche due, se facciamo in fretta.
Trevize trasse un respiro profondo e cercò di scaricare completamente la tensione.
— Vi rendete conto di che cosa significhi questo, Janov? — disse. — In tutte le navi che conosco, in tutte le navi su cui sia stato si sarebbe perso almeno un giorno tra un Balzo e l’altro per rielaborare con cura tutti i calcoli. Anche con un computer a bordo. Il viaggio sarebbe durato quasi un mese. O forse due o tre settimane, volendo essere imprudenti: il nostro è durato mezz’ora. Quando le astronavi disporranno tutte di un computer così ...
— Mi chiedo come mai il sindaco ci abbia assegnato una nave tecnicamente tanto perfetta — disse Pelorat. — Dev’essere costata un patrimonio.
— È ancora in fase sperimentale — disse secco Trevize. — Forse quella brava donna non vedeva l’ora di farcela provare e di scoprirne così gli eventuali difetti.
— Non direte mica sul serio, vero?
— Non mettetevi in agitazione. Dopotutto non abbiamo niente di cui preoccuparci: non abbiamo trovato difetti. Però non mi meraviglierei se le cose stessero veramente come ho detto; lo spirito umanitario di Harla Branno non è così forte da ribellarsi all’idea che vi ha ora scandalizzato. E poi la Branno non si è fidata di lasciarci una nave armata, e senza armi le spese sono state certo notevolmente inferiori.
Pelorat disse, pensieroso: — È quel computer che mi lascia perplesso. Sembra studiato apposta per voi: vi si adatta perfettamente. Un’affinità del genere non può averla con tutti quanti. Con me, per esempio, non l’ha.
— Be’, è una fortuna che funzioni così bene con uno di noi.
— Sì, ma che sia soltanto un caso?
— Cos’altro potrebbe essere, Janov?
— Il sindaco vi conosce bene, credo.
— Eh sì, la vecchia volpe mi conosce, mi conosce...
— Non potrebbe avere dato ordine di progettare un computer adatto a funzionare in particolare con voi?
— Perché l’avrebbe fatto?
— Mi chiedo se non stiamo andando dove voglia portarci il computer...
Trevize fissò Pelorat. — Intendete dire che quando sono collegato col computer potrebbe essere questo a svolgere in realtà il ruolo di guida?
— Mi sto solo ponendo qualche domanda.
— Ma è ridicolo. È da paranoici pensarlo. Oh, via, Janov, non scherzate.
Trevize si collegò di nuovo con l’elaboratore per mettere a fuoco sullo schermo il Pianeta Sayshell e calcolare una rotta che consentisse di arrivarci viaggiando nello spazio normale.
Ridicolo, si disse: ma perché mai Pelorat gli aveva ficcato in testa quell’idea?