Sura Novi entrò nella sala comandi della piccola e abbastanza antiquata astronave che stava trasportando Gendibal e lei attraverso la Galassia secondo una successione di Balzi prestabiliti.
Si capiva bene che era appena stata nel camerino di toilette, dove oli, aria calda ed un po’ d’acqua le avevano rinfrescato il corpo. Era avvolta in una vestaglia che si teneva stretta al corpo con estremo pudore. I capelli erano asciutti, ma arruffati.
— Maestro? — sussurrò.
Gendibal alzò gli occhi dai diagrammi e dal computer. — Sì, Novi?
— Sono afflitta da dolore... — cominciò lei, poi si corresse e disse: — Mi dispiace molto disturbarvi, Maestro, ma non reperisco i miei abiti.
— I vostri abiti? — Gendibal la fisso un attimo senza capire, poi si alzò in piedi con aria mortificata. — Oh, mi è passato di mente, Novi. Avevano bisogno di una lavata e sono rimasti nella pulitrice. Sono già asciutti, stirati e pronti: avrei dovuto tirarli fuori e metterli bene in vista, ma me ne sono dimenticato.
— Io non avevo intendimento di... di offendere — disse Novi, con gli occhi bassi.
— Non mi avete offeso — disse allegramente Gendibal.
— Sentite, vi prometto che quando sarà tutto finito, farò in modo che abbiate un mucchio di vestiti nuovi ed alla moda. Siamo partiti in gran fretta e non mi è neanche venuto in mente di portarne un po’ dietro; d’altra parte, Novi, qui ci siamo solo voi e io, e per un lungo periodo dovremo stare a stretto contatto di gomito, per cui non ha senso preoccuparsi tanto dei... — Gendibal fece un gesto vago, notò l’espressione scandalizzata di Novi e pensò, «in fondo è solo una ragazza di campagna, ha assimilato determinati modelli di comportamento; probabilmente non si opporrebbe a scorrettezze verbali e non, se sapesse di avere addosso un vestito bene abbottonato».
Poi si vergognò di se stesso e fu felice che lei non fosse una studiosa e non potesse leggergli i pensieri. Disse: — Vado a prendervi i vestiti?
— Oh, no, Maestro. Non è il caso che voi... So dove sono.
Poco dopo Novi tornò con indosso i suoi vestiti e con i capelli pettinati. Appariva chiaramente impacciata. — Mi vergogno di essermi comportata in modo... sconveniente, Maestro. Avrei dovuto cercare i vestiti senza venire a disturbare voi.
— Ma no, non importa — disse Gendibal. — Avete fatto ottimi progressi col vostro galattico, Novi: avete assimilato la lingua degli studiosi molto in fretta.
Novi sorrise. Aveva denti piuttosto irregolari, che però non si notavano quasi quando lei, sentendosi lodata, si addolciva e illuminava in viso. Gendibal si disse che doveva essere proprio per quel suo modo di illuminarsi che gli piaceva, ogni tanto, lodarla.
— Gli hamiani non mi apprezzeranno sicuro quando tornerò a casa — disse Novi.
— Mi chiameranno “trinciaparole”: è così che chiamano quelli che parlano... strano.
Non li amano per niente.
— Dubito che tornerete tra gli hamiani, Novi — disse Gendibal. — Sono sicuro che ci sarà sempre un posto per voi tra gli studiosi. Voglio dire, quando questa avventura sarà finita.
— Sarebbe fantastico, Maestro.
— Penso che non abbiate niente in contrario a chiamarmi Oratore Gendibal od anche solo... No, vedo che avete qualcosa in contrario — disse Gendibal, accorgendosi dell’espressione scandalizzata di lei. — Oh, be’, pazienza.
— Sarebbe sconveniente, Maestro. Ma posso chiedervi quando questa avventura finirà?
Gendibal scosse la testa. — Non lo so con precisione. Per il momento il mio obiettivo è andare in un certo posto il più in fretta possibile. Questa nave, che nel suo genere è ottima, ha il difetto di essere lenta e «il più in fretta possibile» significa non tanto in fretta. Vedete — Gendibal indicò il computer e i diagrammi, — non faccio che calcolare il modo di attraversare ampie zone dello spazio, ma le possibilità di elaborazione del computer sono limitate. E poi non sono molto abile.
— Dovete recarvi in fretta in questo posto perché c’è qualche pericolo, Maestro?
— Che cosa vi fa pensare che ci sia un pericolo, Novi?
— Perché a volte, quando penso che non mi vediate, vi guardo e il vostro viso è...
Non so trovare la parola adatta; non impaurito e nemmeno turbato, ma qualcosa di simile.
— Inquieto? — mormorò lui.
— Apparite... preoccupato. È questa la parola?
— Dipende. Che cosa intendete con preoccupato, Novi?
— E un po’ come se diceste a voi stesso «quale potrà essere la mia prossima mossa in questo grosso pasticcio»?
Sbalordito, Gendibal disse: — Sì, il significato è esatto, ma leggete dunque questo sul mio viso, Novi? Nel Posto degli Studiosi sto sempre attentissimo a non lasciar trapelare niente dalla mia espressione, ma qui nello spazio dove ci siamo solo voi ed io, pensavo di potermi rilassare e di poter lasciar girare la mia faccia in libertà, per così dire. Scusatemi, vi ho messo in imbarazzo. Voglio dire, se siete così sensibile, bisognerà che stia più attento. Ogni tanto la realtà mi ricorda che anche i non mentalisti possano avere intuizioni acute.
Novi lo guardò con espressione vacua. — Non capisco, Maestro.
— Sto parlando fra me e me, Novi. Non vi preoccupate. Ecco, avete visto che è saltata fuori di nuovo quella parola?
— Ma c’è pericolo o no?
— C’è un problema da risolvere, Novi. Non so che cosa mi aspetti su Sayshell, che è il posto verso il quale siamo diretti: potrei trovarmi in una situazione di grande difficoltà.
— Cioè di pericolo?
— No, non in pericolo, perché in ogni caso sarò in grado di cavarmela.
— Come potete saperlo?
— Perché sono uno... studioso, ed anche il migliore di tutti. Non c’è alcuna situazione nella Galassia che non sia in grado di governare.
— Maestro — disse Novi con aria estremamente afflitta, — non vorrei proprio offendervi, né mandarvi in collera, ma... io vi ho visto in pericolo quella volta con Rufirant, e lui è solo uno zotico hamiano. Ora non so che cosa vi aspetti su quel pianeta, e nemmeno voi lo sapete, ma potrebbe essere qualcosa di peggio di Rufirant.
Gendibal si sentì umiliato. — Avete paura, Novi?
— Non per me, Maestro. Temo... ho paura per voi.
— Potete dire benissimo “temo” — mormorò lui. — È sempre buon galattico.
Per un attimo rimase assorto nei suoi pensieri, poi alzò gli occhi. Prese nelle sue le ruvide mani di Novi e disse: — Novi, non voglio che abbiate paura. Lasciate che vi spieghi. Quando avete capito che fossi preoccupato mi avete in certo modo letto nel pensiero, vero?
— Sì.
— Ecco, io so leggere nel pensiero meglio di voi. È questo che imparano a fare gli studiosi ed io sono uno studioso assai bravo.
Novi sgranò gli occhi e liberò le mani dalla stretta, quindi, quasi trattenendo il respiro, disse: — Voi mi leggete nel pensiero?
Gendibal si affrettò a correre ai ripari. — No, non vi leggo nel pensiero salvo che quando ci sia costretto. Solitamente non lo faccio.
(Sapeva che, in pratica, era una menzogna. Era impossibile, stando in compagnia di Sura Novi, non afferrare la linea generale dei suoi pensieri. Anzi, l’avrebbe afferrata probabilmente anche una persona comune. Gendibal, si sentì quasi arrossire riflettendo sui sentimenti che aveva colto più volte in lei. Anche se venivano da una donna hamiana, non potevano non lusingarlo. E tuttavia rassicurarla su quel punto era un dovere, dal punto di vista umano...)
— Posso anche correggere il modo di pensare della gente — disse. — Posso far sì che si senta ferita. E posso...
— Perché dite questo, Maestro? — fece Novi, scuotendo la testa. — Rufirant...
— Lasciate perdere Rufirant — disse lui, stizzito. — Avrei potuto fermarlo quando avessi voluto: avrei potuto farlo cadere in terra; avrei potuto indurre tutti gli hamiani a... — S’interruppe di colpo, accorgendosi che si stava dando delle arie, che stava cercando di impressionare quella provinciale che insisteva a scuotere la testa.
— Maestro — disse Novi, — voi state cercando di liberarmi dalla paura, ma non ha senso, perché io ho paura solo per voi. So che siete un grande studioso e che sapete far volare questa nave nello spazio, una cosa che per persone come me sarebbe del tutto impossibile. So che usate macchine che non capisco e che nessun hamiano potrebbe capire. Ma non dovete raccontarmi di questi vostri poteri mentali che non esistono; se esistessero, tutte le cose che avreste potuto fare a Rufirant le avreste fatte, visto che eravate in pericolo.
Gendibal strinse le labbra. «Non dire niente —, pensò. — Se lei insiste ad affermare di non avere paura per sé, lascia perdere. — Però non sopportava l’idea che Novi lo credesse un pusillanime ed un millantatore. No, proprio non la sopportava.
— Se non ho fatto niente a Rufirant è stato perché non ho voluto farlo — disse. — Noi studiosi abbiamo il divieto di intervenire sulla mente degli hamiani: siamo ospiti sul vostro mondo. Lo capite, questo?
— Siete i nostri maestri, così almeno si è sempre detto nella nostra comunità.
Per un attimo Gendibal smise di pensare a difendersi dallo scetticismo di Novi e disse: — Come mai allora Rufirant mi ha attaccato?
— Non lo so — disse lei. — Credo che non si rendesse conto di che cosa faceva.
Doveva stare stravagando con la mente. Voglio dire, avrà avuto un momento di pazzia.
Gendibal commentò con un grugnito. — In ogni modo — disse, — noi non facciamo mai del male agli hamiani. Se avessi fermato Rufirant facendogli del male, gli altri studiosi mi avrebbero disapprovato e forse avrei perso la mia carica. Ma se me la fossi vista brutta, sarei stato costretto probabilmente a correggere la sua mente un pochino, giusto un grammo.
Novi apparve frustrata. — Allora non è servito a niente che sia accorsa in vostro aiuto.
— Voi siete stata bravissima — disse l’Oratore. — Ho solo detto che per salvarmi sarei stato costretto a fare una cosa che gli studiosi sono tenuti a non fare; mi avete risparmiato un simile intervento: avete fermato Rufirant voi e ve ne sono grato.
Novi sorrise felice. — Adesso capisco perché siete stato così gentile con me.
— Vi sono riconoscente, sì — disse lui, lievemente turbato, — ma l’importante è che comprendiate che non ci sia pericolo. Sono in grado di tener testa ad un esercito formato da persone comuni. Qualsiasi studioso è in grado di farlo, e quelli importanti lo sono più degli altri. Vi ho già detto che io sia il migliore: nessuno nella Galassia può resistermi.
— Se lo dite voi, Maestro, non ne dubito.
— Lo dico sì. Allora, avete ancora paura per me?
— No, Maestro, ma... volevo chiedervi una cosa. Sono solo i nostri studiosi a saper leggere il pensiero o ci sono altri studiosi, altri luoghi dove si trova gente che può tenervi lesta?
Gendibal rimase un attimo interdetto: la donna aveva un intuito eccezionale. Si rendeva necessario mentire.
— No, ci sono solo i nostri — disse.
— Ma sono così tante le stelle in cielo. Una volta ho provato a contarle e non ci sono riuscita. Se esistono tanti mondi abitati quante sono le stelle, è mai possibile che non si trovino degli studiosi su qualcuno di essi?
— No, non è possibile.
— E se ci fossero?
— Non sarebbero forti come me.
— E se vi attaccassero all’improvviso, prima che ve ne rendeste conto?
— Non potrebbero: se uno studioso sconosciuto mi si avvicinasse lo riconoscerei subito, molto prima che potesse farmi del male.
— Volete dire che sareste in grado di fuggire?
— Non avrò bisogno di fuggire. Ma se dovrò farlo — (Gendibal mise le mani avanti, prevedendo la probabile obiezione di Novi) — potrò usare molto presto una nave migliore di questa, migliore di qualsiasi altra nave della Galassia. Non mi prenderanno.
— Non potrebbero intervenire sulla vostra mente e indurvi a restare, anziché fuggire?
— No.
— Potrebbero essere in molti. Voi siete solo.
— Mi accorgerci per tempo delle loro intenzioni e potrei partire per il nostro pianeta con un grosso margine di vantaggio. Tutti i nostri studiosi allora si rivolterebbero contro questi sconosciuti, che verrebbero sicuramente sconfitti. E poiché, essendo studiosi, gli sconosciuti avranno, immagino, la facoltà di prevedere tutte queste cose, non si azzarderanno a fare niente contro di me. Anzi, è probabile che non vogliano che venga a sapere della loro esistenza. Io invece non ho paura di venire a sapere della loro.
— Perché siete molto meglio di loro? — disse Novi, con un orgoglio non del tutto libero da dubbi.
Gendibal non poté resistere. La sua intelligenza, la sua intuizione erano tali, che era una vera gioia stare in sua compagnia. Quel mostro dalla voce dolce, l’Oratore Delora Delarmi, gli aveva fatto un favore incredibile costringendolo a portarsi dietro la hamiana.
— No, Novi — disse, — non perché sia meglio di loro, anche se questa è una verità inconfutabile, ma, perché ho voi con me.
— Me?
— Sì. L’avevate indovinato?
— No, Maestro — disse lei, sorpresa. — Che cosa posso mai fare, io?
— È la vostra mente che è preziosa. — Gendibal alzò pronto una mano. — No, non vi sto leggendo nel pensiero. Vedo solo il contorno della vostra mente, un contorno insolitamente liscio e lineare.
Lei si portò una mano alla fronte. — Perché non sono istruita, Maestro? Perché sono stupida?
— No, cara — disse Gendibal, senza rendersi conto dell’aggettivo che aveva usato. — Perché siete onesta e non avete malizia; perché siete sincera e dite quello che pensate; perché avete buon cuore e... e altre cose. Se gli studiosi sconosciuti tentassero di influenzarci l’intervento sarebbe immediatamente registrato dalla vostra mente ed io mi accorgerei della cosa prima ancora di accorgermi dell’intervento operato su di me. Avrei quindi tempo di elaborare una strategia difensiva, cioè di contrattaccare.
A quel discorso seguirono lunghi attimi di silenzio. Gendibal si rese conto che nell’espressione di lei non ci fosse adesso solo felicità, ma anche esultanza ed orgoglio.
— E mi avete portato con voi per questo motivo? — disse Novi, in un sussurro.
Gendibal annuì. — Sì. È un motivo importante.
— Vorrei aiutarvi il più possibile. Maestro. Come posso fare? — La voce di Novi era quasi inudibile.
— Restate calma, non abbiate paura. E rimanete semplicemente come siete.
— Rimarrò come sono — disse lei. — E mi frapporrò tra voi e il pericolo, come ho fatto nel caso di Rufirant.
Uscì dalla stanza e Gendibal la seguì con gli occhi.
Era strano vedere quanto fosse dotata quella giovane donna. Pur essendo tanto semplice, era per certi versi eccezionalmente complessa. Dietro la sua struttura lineare, la sua mente rivelava un’intelligenza, un discernimento ed un coraggio fuori dal comune. Gendibal non avrebbe potuto chiedere di più, a nessuno.
Per un attimo gli parve di cogliere l’immagine di Sura Novi (che oltre a non essere né un Oratore né un membro della Seconda Fondazione era anche poco istruita) che lo aiutava con determinazione e svolgeva un ruolo essenziale nel dramma che si stava profilando all’orizzonte.
Tuttavia non riusciva a distinguere nettamente i particolari della scena, né a capire esattamente che cosa lo aspettasse.
— Un unico Balzo — mormorò Trevize, — ed eccoci qua.
— È Gaia? — chiese Pelorat, guardando lo schermo al di sopra della spalla di Trevize.
— Il sole di Gaia. Chiamatelo S-Gaia, se volete, per evitare confusioni. I galattografi lo fanno, a volte.
— E Gaia, allora, dov’è? O bisogna dire P-Gaia, per intendere che ci si riferisca al pianeta?
— No, basta Gaia in questo caso. Non lo vediamo, per il momento. Sapete, i pianeti non sono così ben visibili come le stelle e ci troviamo ancora a un centinaio di microparsec da S-Gaia. Se avete notato ci appare tuttora come una stella, anche se molto brillante: non siamo abbastanza vicini da vederla come un disco. Ah, non fissatela direttamente, Janov; è già sufficientemente abbagliante da danneggiare la retina. Inserirò un filtro appena avrò finito le mie osservazioni. Così potrete guardare.
— Cento microparsec si possono tradurre in unità di misura che anche un mitologo possa comprendere, Golan?
— Certo. Sono tre miliardi di chilometri, cioè circa venti volte la distanza tra Terminus ed il suo sole. Capite di più, così?
— Sicuro. Ma non dovremmo avvicinarci?
— No. — Trevize alzò gli occhi meravigliato. — Non subito. Dopo i discorsi che abbiamo sentito su Gaia perché dovremmo precipitarci allo sbaraglio? Avere fegato è un conto, agire da pazzi è un altro: prima diamo un’occhiata.
— A che cosa, Golan? Avete detto che il pianeta non si vede ancora...
— È vero, ma abbiamo pur sempre il telescopio ed un computer eccellente per le analisi rapide. Innanzitutto possiamo studiarci S-Gaia e forse fare anche qualche altra osservazione. Tranquillizzatevi, Janov. — Trevize allungò una mano e batté un colpetto affettuoso sulle spalle dell’altro.
Dopo una pausa disse: — S-Gaia è una stella singola oppure, se ha una compagna, questa si trova ad una distanza da essa superiore a quella nostra attuale ed è, nella migliore delle ipotesi, una nana rossa: il che significa che non dobbiamo preoccuparci minimamente di lei. S-Gaia è una stella G4, ovvero può avere un pianeta abitabile orbitante intorno a sé. Il che è positivo. Se fosse una A od una M, dovremmo fare immediatamente dietro front ed andarcene.
— Io parlo da semplice mitologo — disse Pelorat. — ma non avremmo potuto determinare già su Sayshell la classe spettrale di S-Gaia?
— Sì, e l’abbiamo anche fatto, Janov. ma non guasta mai controllare più da vicino. S-Gaia ha un sistema planetario, del che non c’è da stupirsi. Sono visibili due giganti gassosi. Uno dei quali è molto grande, se il calcolo della distanza elaborato dal computer è esatto. Potrebbe essercene un altro sul lato opposto della stella, nel qual caso non sarebbe facilmente individuabile in quanto ci troviamo per caso abbastanza vicini al piano planetario. Non riesco a distinguere niente nelle regioni interne, ma anche di questo non c’è da stupirsi.
— È grave?
— No, del tutto prevedibile. I pianeti abitabili, composti di roccia e metallo, sono molto più piccoli dei giganti gassosi e molto più vicini alla stella, visto che devono essere abbastanza caldi da ospitare la vita. Logico quindi che, per entrambe queste ragioni, sia assai più difficile distinguerli da qui. Questo significa che dovremo avvicinarci di parecchio per esplorare l’area che si trova a quattro microparsec da S-Gaia.
— Sono pronto.
— Io no. Faremo il Balzo domani.
— Perché domani?
— Diamo loro il tempo di uscire allo scoperto incontro a noi e a noi il tempo di fuggire nel caso non ci piaccia il loro modo di venirci incontro…
Fu un processo lento e difficile. Nel corso della giornata Trevize coordinò accanitamente i calcoli del computer, cercando di scegliere tra i vari possibili approcci quello giusto. Mancando i dati quantitativi, si poteva affidare solo all’intuizione, la quale purtroppo gli diceva ben poco. Non avvertiva per niente quella sensazione di sicurezza che aveva a volte.
Alla fine diede al computer le istruzioni per un Balzo che li conducesse lontano dal piano planetario.
— Vedremo così meglio la regione nel suo complesso — disse, — visto che potremo osservare i pianeti in tutte le parti della loro orbita alla massima distanza apparente dal sole. E loro, chiunque siano, forse non tengono sotto stretta sorveglianza le zone fuori del piano. Almeno spero...
Vennero così a trovarsi a circa mezzo miliardo di chilometri da S-Gaia, la stessa distanza che aveva dalla stella il più vicino e più grande dei giganti gassosi. Trevize ingrandì al massimo sullo schermo l’enorme pianeta, perché Pelorat lo potesse ammirare bene. Era uno spettacolo impressionante, anche se i tre sottili anelli di detriti rimanevano fuori della visuale.
— Ah il consueto seguito di satelliti — disse Trevize, — ma alla distanza cui ci troviamo da S-Gaia sappiamo che nessuno è abitabile. Né c’è, su alcuno di essi, qualche cupola di vetro o struttura simile che possa permettere la sopravvivenza dell’uomo in condizioni d’ambiente artificiali.
— Come fate a dirlo?
— Non c’è rumore radioelettrico con caratteristiche tali da poter essere definito di origine intelligente. Certo, una stazione scientifica potrebbe fare di tutto per schermare i suoi segnali radio ed il gigante gassoso produce un rumore radioelettrico che potrebbe facilmente coprire quello che cerco io. Però la nostra ricezione radio è ottima ed il nostro computer è eccezionale. Direi che le probabilità che quei satelliti ospitino esseri umani siano minime.
— Questo vuol dire che Gaia non esista?
— No, ma vuol dire che se Gaia esiste non si è preoccupata di colonizzare i satelliti. Forse non le interessa farlo, oppure non ne ha la possibilità.
— Allora dov’è Gaia, Golan?
— Abbiate pazienza, Janov. Un po’ di pazienza.
Trevize esaminò il cielo con inesauribile meticolosità. Ad un certo punto smise e disse: — Francamente, il fatto che non ci siano piombati addosso per qualche verso è scoraggiante. È chiaro che se avessero le risorse che si dice che abbiano avrebbero già da un pezzo reagito alla nostra presenza.
— È possibile che tutta questa storia sia completamente inventata — disse Pelorat, accigliato.
— Definitela un mito, Janov — disse Trevize con un sorriso ironico, — e sarete nel vostro campo. Tuttavia c’è un pianeta che si muove attraverso l’ecosfera, il che significa che potrebbe essere abitabile. Voglio osservarlo per almeno un giorno.
— Perché?
— Innanzitutto per sincerarmi che sia davvero abitabile.
— Avete appena detto che si trova nell’ecosfera, Golan.
— Sì, al momento sì. Ma la sua orbita potrebbe essere molto eccentrica e portarlo alla fine ad un microparsec al massimo dalla stella oppure ad una distanza di quindici microparsec, o anche entrambe le cose. Dovremo determinare la sua distanza da S-Gaia e confrontarla con la velocità orbitale. E sarà utile prendere nota della direzione del suo moto.
Un altro giorno.
— L’orbita è quasi circolare — disse Trevize, — perciò le probabilità che il pianeta sia abitato sono molto maggiori. Eppure nessuno si fa vivo con noi nemmeno adesso: dovremo dare un’occhiata più da vicino.
— Perché ci vuole tanto per preparare un Balzo? — disse Pelorat. — In fondo sono solo Balzi piccoli.
— Date retta a un pilota. I Balzi piccoli sono più difficili da controllare dei grandi.
E più facile raccogliere un sasso o un granellino di sabbia? E poi, S-Gaia è vicina e lo spazio è nettamente curvo. Questo rende i calcoli più complicati anche per un computer. Persino un mitologo dovrebbe capirle, queste cose.
Pelorat emise un grugnito.
Trevize disse: — Ora lo potete vedere a occhio nudo. È là, guardate. Il periodo di rotazione è di circa ventidue ore galattiche e l’inclinazione assiale è di dodici gradi. È un esempio perfetto di pianeta abitabile, ed in effetti ospita la vita.
— Come fate a dirlo?
— Ci sono quantità consistenti di ossigeno allo stato libero nell’atmosfera. E quando questo accade significa che c’è una vegetazione radicata da tempo sul pianeta.
— E la vita intelligente?
— Quella si individua attraverso l’analisi delle radioonde. Naturalmente potrebbero esserci sul pianeta esseri intelligenti che abbiano rinunciato alla tecnologia, ma mi pare un’ipotesi assai improbabile.
— Si sono verificati casi del genere, nella storia.
— Vi credo sulla parola: quello è il vostro campo. Però non è verosimile che ci siano dei semplici pastori su un mondo che abbia messo paura persino al Mulo.
— Ha satelliti?
— Sì, uno — disse Trevize, con noncuranza.
— Quanto grande? — chiese Pelorat, con voce d’un tratto quasi strozzata.
— Non ve lo so dire con sicurezza. Avrà, penso, un diametro di un centinaio di chilometri.
— Ahimè — disse Pelorat, malinconico. — Scusate l’esclamazione antiquata, amico mio, ma lì per lì non me ne sono venute in mente altre. C’era solo quella minima possibilità...
— Volete dire che se avesse avuto un satellite gigante sarebbe potuta essere la stessa Terra?
— Sì, ma è evidente che non lo sia.
— Se Compor ha ragione, la Terra non sì troverebbe in questa zona, ma nel Settore Sirio. Mi dispiace davvero, Janov.
— Oh be’, pazienza.
— Sentite, aspettiamo un po’ e poi azzardiamo un altro Balzo. Se non troveremo alcun segno di vita intelligente potremo forse atterrare senza pericolo. Solo che in quel caso non ci sarebbe motivo di farlo…
Dopo il Balzo successivo Trevize disse, stupito: — A quanto pare è proprio Gaia, Janov. Se non altro ha una civiltà tecnologica.
— Lo capite dalle radioonde?
— Da qualcosa di meglio. C’è una stazione spaziale che orbita intorno al pianeta. La vedete?
Sullo schermo era visibile un oggetto che agli occhi inesperti di Pelorat non apparve particolarmente interessante, ma che Trevize definì «artificiale, metallico, e fonte di radioonde».
— Che cosa facciamo adesso? — disse Pelorat.
— Niente, almeno per un po’. Essendo a questo stadio di sviluppo tecnologico non possono non individuarci. Se vedo che dopo un certo tempo non si muovono, spedisco loro un messaggio radio. Se nemmeno in quel caso faranno niente, mi avvicinerò con prudenza.
— E se invece faranno qualcosa?
— Dipende da che cosa sarà quel qualcosa. Se non mi piacerà sfrutterò i mezzi eccezionali di questa nave, che permettono di compiere Balzi che la gente di Gaia penso non si sogni nemmeno.
— Intendete dire che ci dilegueremmo?
— Come un missile iperspaziale.
— Ma torneremmo senza avere appreso niente.
— Non esattamente. Sapremmo sempre che Gaia esiste, che ha una tecnologia che funziona e che è in grado di spaventare gli estranei.
— Però non vorrei che ci facessimo spaventare troppo facilmente, Golan.
— Sentite, Janov, so che morite dalla voglia di sapere qualcosa sulla Terra, costi quel che costi, ma vi prego di ricordarvi che io non condivido la vostra monomania.
Ci troviamo su una nave non armata e quella gente è rimasta isolata per secoli.
Mettiamo che non abbia mai sentito parlare della Fondazione o che non la conosca abbastanza da averne paura. O mettiamo che Gaia sia davvero la sede della Seconda Fondazione; una volta che ci avessero catturato e che fossero arrabbiati con noi, potremmo non tornare mai più come prima. Volete che vi facciano il lavaggio del cervello? Volete dimenticare tutto sulle leggende e i miti, ritrovarvi con la testa completamente vuota?
— Se la mettete così... — disse Pelorat, accigliato. — Ma che cosa faremo una volta fuggiti?
— Semplice: torneremo su Terminus a portare la notizia. Oppure nelle vicinanze di Terminus, secondo le istruzioni che ci darà la vecchiarda. Dopo potremo ritornare di nuovo su Gaia in un batter d’occhio e non spostandoci per gradi come abbiamo fatto adesso. E naturalmente torneremo con una nave o con una flotta armata. Le circostanze saranno assai più favorevoli a noi, in quel caso...
Aspettare era diventato ormai un lavoro di routine. Avevano passato molto più tempo ad aspettare durante l’avvicinamento a Gaia che in tutto l’arco del viaggio da Terminus a Sayshell.
Trevize regolò il computer sull’allarme automatico e si permise addirittura il lusso di sonnecchiare sulla sua poltrona.
Si svegliò con un sobbalzo quando l’allarme cominciò a suonare. Pelorat si precipitò nella stanza dov’era Trevize; interrotto mentre si faceva la barba, aveva la stessa aria sbigottita del suo compagno.
— Abbiamo ricevuto un messaggio? — chiese.
— No — disse Trevize, scuotendo la testa. — Ci stiamo muovendo.
— Muovendo? E dove andiamo?
— Verso la stazione spaziale.
— Come mai?
— Non lo so. I motori sono accesi ed il computer non mi risponde. Ma ci stiamo muovendo. Siamo stati catturati, Janov. Ci siamo avvicinati un po’ troppo a Gaia.