Trevize aveva caldo ed era irritato. Sedeva con Pelorat nella piccola zona pranzo, dove avevano appena consumato il pasto di mezzogiorno.
— Siamo nello spazio da soli due giorni — disse Pelorat, — e mi sento totalmente a mio agio, anche se mi mancano l’aria fresca, la natura e tutta quella roba là. È strano, non ho mai fatto caso alla natura quando ce l’avevo intorno. In ogni modo, con la mia biblioteca portatile e con il vostro computer, non ci sono problemi di sorta: ho tutto quello che mi occorre. E adesso, il fatto di trovarmi nello spazio non mi dà il minimo brivido di paura. Stupefacente davvero!
Trevize emise una specie di grugnito: era assorto nei suoi pensieri.
Pelorat disse, in tono cortese: — Non vorrei disturbarvi, Golan, ma ho l’impressione che non mi stiate ascoltando. Non che io sia una persona particolarmente interessante, anzi, di solito sono considerato alquanto noioso. Però mi sembra che siate assorbito da un pensiero particolare. Siamo forse nei guai? Non dovete aver paura di dirmelo, sapete? Magari non vi potrò aiutare molto, ma non mi farò prendere dal panico, amico mio.
— Nei guai? — Destandosi dalle sue meditazioni, Trevize aggrottò lievemente la fronte.
— Intendevo riferirmi alla nave. È di tipo nuovo, per cui ho pensato che potesse avere qualcosa che non va. — Pelorat abbozzò un sorriso dubbioso.
Trevize scosse la testa con forza. — Rassicuratevi pure, Janov: la nave non ha niente che non vada. Funziona alla perfezione. Sono in pensiero perché ho cercato l’iper-relé.
— Ah, capisco. Cioè, no, non capisco. Cos’è un iper-relé?
— Adesso vi spiego. Noi siamo in contatto con Terminus, o meglio, possiamo metterci in contatto con Terminus ogni volta che lo vogliamo, e lo stesso può fare Terminus con noi. Là conoscono la posizione della nave, avendone osservato la traiettoria, ed anche se non l’avessero fatto potrebbero localizzarci lo stesso.
Basterebbe che esplorassero lo spazio vicino al pianeta alla ricerca di una massa che li avvertirebbe della presenza di un’astronave o, eventualmente, di un asteroide. Per distinguere una nave da un ipotetico asteroide non dovrebbero fare altro che individuare il diagramma dell’energia. Tra l’altro, quest’ultimo permette di distinguere una nave dall’altra, perché le navi usano l’energia in maniera differenziata. Il diagramma dell’energia è caratteristico e rimane costante quali che siano le apparecchiature che si attivano. Naturalmente l’astronave che si individua può essere sconosciuta, ma se il suo diagramma energetico è registrato su Terminus, come è senz’altro nel nostro caso, può essere subito riconosciuta.
Pelorat disse: — Mi pare che il progresso della civiltà porti ad una limitazione sempre più forte della privacy, vero?
— Può darsi che abbiate ragione. Ma, riprendendo il discorso, prima o poi dovremo muoverci nell’iperspazio, se non vogliamo rimanere ad un parsec o due da Terminus per il resto della vita ed essere costretti a viaggi interstellari di entità minima. Passando attraverso l’iperspazio, invece, il viaggio è di entità massima: in un attimo di tempo soggettivo attraversiamo uno spazio che a volte è di centinaia di parsec. D’un tratto ci troviamo straordinariamente lontani, in una direzione che è difficilissimo prevedere, ed in pratica non possiamo più essere individuati.
— Capisco. Sì, credo di aver capito.
— Però possiamo ancora essere individuati se a bordo è stato collocato un iper-relé. Questo spedisce, attraverso l’iperspazio, un segnale che è caratteristico della nostra nave e di nessun’altra, e le autorità di Terminus sono così in grado di sapere sempre dove ci troviamo. Con un iper-relé a bordo, non potremmo nasconderci in nessun posto della Galassia: nessun balzo nell’iperspazio ci permetterebbe di sfuggire agli strumenti di rilevazione.
— Ma noi non abbiamo bisogno che la Fondazione ci difenda? — disse Pelorat.
— Sì, però solo quando fossimo noi a chiedere aiuto. Voi avete detto poco fa che il progresso della civiltà implica una limitazione sempre più forte della privacy. Be’, io non voglio essere “progredito” fino a quel punto: desidero essere libero di muovermi come mi pare senza essere spiato, a meno che non sia io stesso a sentire il bisogno di una protezione. Perciò sarei molto contento se a bordo non ci fosse un iper-relé.
— Ne avete trovato uno, Golan?
— No. Trovandolo riuscirei forse a renderlo inattivo.
— Se lo vedeste lo sapreste riconoscere?
— Questa è una delle difficoltà. No, potrei non riconoscerlo. So come sono gli iper-relé in generale, e so come esaminare un oggetto sospetto, ma questa è una nave di nuovo tipo, progettata per svolgere compiti speciali. L’iper-relé potrebbe essere incorporato in essa in modo da non poter essere individuato.
— Però potrebbero anche non averlo messo a bordo. E forse è questo il motivo per cui non l’abbiate trovato.
— Non mi arrischio ad essere così ottimista, e non mi va di fare il primo Balzo senza prima sentirmi sicuro.
Pelorat s’illuminò. — Ah, ecco perché abbiamo vagato senza meta nello spazio.
Mi chiedevo proprio perché non avessimo ancora compiuto il primo Balzo. Sapete, Golan, ho sentito parlare dei Balzi, e in verità ero un po’ nervoso al pensiero di farne uno. Mi chiedevo quando mi avreste ordinato di allacciare una qualche cintura di sicurezza, o di prendere una pillola o qualcosa del genere.
Trevize abbozzò un sorriso. — Non c’è niente di cui aver paura. Non siamo ai vecchi tempi. Su una nave come questa, fa tutto il computer: noi dobbiamo solo dargli le necessarie istruzioni. Non vi accorgerete di nulla: solo, la vostra visione dello spazio cambierà all’improvviso. È come quando si proietta una diapositiva subito dopo un’altra: col Balzo si ha un po’ lo stesso effetto.
— Santo Cielo, non si avverte proprio nulla? Curioso! È un po’ deludente.
— Io non ho mai avvertito nulla, e le navi su cui sono stato non erano perfette come questa. Ma non è per via dell’iper-relé che non abbiamo ancora compiuto il Balzo: prima dobbiamo allontanarci un po’ di più da Terminus ed anche dal sole. Più si è lontani da corpi di massa considerevoli, più è facile controllare il Balzo e riemergere nello spazio secondo le coordinate desiderate. In casi di emergenza si può arrischiare un Balzo anche quando ci si trovi a soli duecento chilometri dalla superficie di un pianeta; dato che nella Galassia sono molti di più i luoghi sicuri di quelli pericolosi, si hanno lo stesso buone speranze che tutto vada per il meglio. Però c’è sempre la possibilità che fattori casuali ci facciano riemergere a pochi milioni di chilometri da una grande stella, o addirittura nel nucleo galattico, nel qual caso finiremmo arrosto prima ancora di battere ciglio. Più si è lontani da una massa, meno sono quei fattori casuali e meno sono di conseguenza le probabilità di avere brutte sorprese.
— Se le cose stanno come dite, vi raccomando la massima prudenza: nessuno ci corre dietro.
— Infatti. E visto che nessuno ci corre dietro, vorrei continuare a cercare l’iper-relé, prima del Balzo. Oppure trovare il modo di convincermi che a bordo non ce ne siano.
Trevize assunse di nuovo l’espressione assorta che aveva avuto in precedenza.
Pelorat, alzando un poco la voce per vincere l’ostacolo che l’altro poneva al dialogo, disse: — Quanto tempo abbiamo, ancora?
— Cosa?
— Voglio dire, caro amico, quando compireste il Balzo se non foste preoccupato per l’iper-relé?
— Date la traiettoria e la velocità attuali, direi il quarto giorno dalla partenza.
Calcolerò il momento esatto con il computer.
— Allora avete ancora due giorni per cercare. Posso darvi un suggerimento?
— Quale?
— Anche se il mio lavoro è diverso dal vostro, penso che si possano trarre alcune conclusioni generali. Ho notato che quando mi concentravo intensamente su un problema, ottenevo sempre scarso successo. È molto meglio rilassarsi e pensare ad altro: in questo modo la mente inconscia, non più oppressa dal peso di un pensiero fisso, può riuscire a risolvere la situazione al posto nostro.
Trevize per un attimo parve seccato, poi rise. — Be’, perché no? Cambiamo pure argomento. Ditemi, come mai avete cominciato a interessarvi della Terra, professore?
Da che cos’è nata questa idea di un pianeta da cui avremmo tratto origine tutti quanti?
— Ah, bisogna tornare un po’ indietro nel tempo — disse Pelorat, annuendo. — Indietro di più di trent’anni. All’università avevo deciso di fare il biologo.
M’interessavo particolarmente alla variazione delle specie sui vari mondi. Come saprete, la variazione è minima. Tutte le forme di vita della Galassia, o almeno tutte quelle che abbiamo conosciuto, hanno una chimica a base proteine-acido nucleico, ed il loro elemento indispensabile è l’acqua.
Trevize disse: — Io ho frequentato l’accademia militare, dove si studiano soprattutto nucleonica e gravitistica, però non è che sia un superspecializzato. So qualcosa sulle basi chimiche della vita. Ci è stato insegnato che l’acqua, le proteine e gli acidi nucleici siano l’unica base possibile per il suo sviluppo.
— Credo che si tratti di una conclusione infondata. È meno arbitrario dire che non è stato ancora trovato un altro tipo di vita, o che non è stato ancora riconosciuto, e non aggiungere altri commenti. Tornando al discorso della variazione, la cosa più sorprendente è che le specie indigene, cioè quelle che si trovano su un singolo pianeta e solo su quello, siano relativamente poche. La maggior parte delle specie esistenti, compresa quella dell’ Homo sapiens, sono distribuite in tutti o quasi i pianeti abitati della Galassia e sono strettamente imparentate dal punto di vista biochimico, fisiologico e morfologico. Le specie indigene invece hanno caratteristiche che le distinguono nettamente tra loro oltre che dalle forme di vita più diffuse.
— Bene, e con ciò?
— Con ciò si deduce che un pianeta della Galassia, uno solo, è diverso da tutti gli altri. Decine di milioni di pianeti hanno dato origine alla vita; una vita rudimentale, fragile, isolata, non multiforme e che non si conservava né diffondeva facilmente. Un solo mondo ha dato origine a milioni di specie, molte delle quali assai evolute e specializzate, nonché inclini a moltiplicarsi e diffondersi. Tra queste specie siamo inclusi noi. Siamo stati abbastanza intelligenti da creare una civiltà, da inventare il volo iperspaziale e da colonizzare la Galassia, e colonizzandola abbiamo portato con noi numerose altre forme di vita imparentate fra loro e con lo stesso Homo sapiens.
— A pensarci bene, mi pare che tutto questo sia abbastanza logico — disse Trevize con aria piuttosto indifferente. — Voglio dire, ci troviamo in una Galassia popolata dall’uomo; se supponiamo che tutto sia cominciato su un pianeta particolare, è naturale pensare che si sia trattato di un pianeta diverso dagli altri. Infatti le probabilità che la vita si sviluppi in un modo tanto complicato sono indubbiamente infinitesimali, forse una su cento milioni. Solo uno su cento milioni di pianeti ospitanti la vita può avere dato origine alla nostra complessa specie.
— Ma che cosa ha reso quel certo pianeta così diverso dagli altri? — disse Pelorat, agitato. — Quali furono le condizioni che lo resero unico?
— Forse soltanto il caso. In fin dei conti, gli esseri umani e le creature che si sono portati dietro, adesso popolano decine di milioni di pianeti, in grado di ospitare la vita. Sono tutti favorevoli alla nostra specie, insomma.
— Ah, no! Una volta che la specie umana si è evoluta, che ha creato una sua tecnologia e si è temprata attraverso una lunga e dura lotta per la sopravvivenza, è riuscita ad adattarsi a pianeti poco ospitali come, per esempio, Terminus. Ma riuscite ad immaginare una vita intelligente che si sviluppi su Terminus?
«Quando Terminus fu occupato per la prima volta dagli uomini, all’epoca degli Enciclopedisti, la forma di vita vegetale più evoluta del pianeta era una pianta che copriva le rocce e che ricordava il muschio. Gli animali più evoluti erano dei coralli molto piccoli sparsi negli oceani mentre sulla terraferma c’erano organismi simili agli insetti. Noi cancellammo praticamente dalla faccia del pianeta queste forme di vita, riempimmo gli oceani di pesci, facemmo crescere erba, grano ed alberi sulla terra e la popolammo di conigli, capre ed altri animali. Della vita indigena ormai rimangono tracce soltanto negli zoo e negli acquari.
— Sì, sì — disse Trevize con aria convinta.
Pelorat lo fissò per un lungo attimo, poi disse, con un sospiro: — L’argomento in realtà non vi interessa, vero? È straordinario, sapete? Non trovo mai nessuno a cui interessi. Immagino che la colpa sia mia: non riesco a rendere la materia affascinante, benché io ne sia affascinato moltissimo.
— In effetti è interessante — disse Trevize. — Ma... che cosa volete concludere?
— Ecco, non pensate che potrebbe essere assai stimolante dal punto di vista scientifico studiare il mondo che diede origine all’unico equilibrio ecologico indigeno veramente fiorente della Galassia?
— Forse lo sarebbe, per un biologo. Ma io non sono un biologo, professore, dovete scusarmi.
— Ma certo, caro amico. È solo che non ho mai trovato biologi che fossero interessati all’argomento. Vi ho già detto che all’università studiavo biologia. Bene, parlai della faccenda col mio professore ma lui non ne era interessato. Mi disse di concentrarmi su problemi pratici. Rimasi così disgustato che da biologia passai a storia, materia che era stata il mio hobby fin da quando avevo tredici-quattordici anni, ed affrontai la questione delle origini da quel nuovo punto di vista.
— Però, se non altro, la storia è diventata il lavoro di tutta la vostra vita, sicché in fondo dovreste essere contento che il vostro professore di biologia sia stato così ottuso.
— Sì, forse la si può mettere anche in questi termini. Il mio lavoro è interessante e non mi annoia mai. Vorrei però che affascinasse anche voi. Mi sembra di parlare sempre e solo con me stesso.
Trevize buttò la testa indietro ridendo di cuore.
Sul viso calmo di Pelorat passò un’ombra di risentimento.
— Perché mi deridete?
— Non ridevo di voi, Janov — disse Trevize, — ma di me stesso. Della mia stupidità. Anzi, per voi provo profonda riconoscenza: avevate proprio ragione, sapete?
— A sottolineare l’importanza delle origini dell’uomo?
— No, no. Cioè sì, anche quello. Ma volevo dire che avevate ragione a suggerirmi di non concentrare più i pensieri consci sul mio problema: ha funzionato. Mentre parlavate del modo in cui la vita si sia evoluta, mi è venuto in mente come trovare l’iper-relé... sempre che ci sia.
— Ah, ecco a cosa vi riferivate!
— Sì. Al momento, questa è la mia fissazione. Ho dato la caccia a quell’iper-relé come se mi fossi trovato a bordo della mia vecchia, scassata nave-scuola. Ho esaminato ogni centimetro di superficie in cerca di qualcosa che spiccasse, che si distinguesse dal resto. Avevo dimenticato che questa nave è il prodotto raffinato di un’evoluzione tecnologica durata migliaia di anni. Capite?
— No, Golan.
— Abbiamo un computer, a bordo. Come ho potuto dimenticarmene?
Trevize si diresse verso la propria stanza e con la mano fece cenno a Pelorat di seguirlo.
— Devo solo provare a comunicare con Terminus — disse, posando le mani sul contatto del computer.
Bisognava cercare di raggiungere il pianeta, lontano ormai migliaia di chilometri, tentare di vedere se la comunicazione fosse possibile. Era come se terminazioni nervose si allungassero nello spazio alla velocità della luce, partendo dal computer.
Trevize aveva l’impressione di toccare, o meglio, di percepire, o meglio, di... No, non c’era una parola che esprimesse la sensazione che provava.
Era conscio del fatto che Terminus si trovasse lì vicino e benché nella realtà la distanza tra il pianeta e l’astronave crescesse in ragione di venti chilometri al secondo, pareva a Trevize che essi fossero immobili e separati soltanto da qualche metro.
Il giovane consigliere chiuse la comunicazione con Terminus; di fatto non aveva comunicato veramente, ma solo saggiato il principio della comunicazione.
Ad otto parsec di distanza c’era Anacreon, il pianeta più vicino. Secondo i parametri galattici, era a portata di mano, ma per spedire fin laggiù un messaggio alla velocità della luce e per ricevere anche la risposta sarebbero occorsi cinquantadue anni.
Raggiungi Anacreon! Pensa ad Anacreon! Pensaci più intensamente che puoi, si disse Trevize. Conosci la sua posizione rispetto a Terminus ed al nucleo galattico, hai studiato la sua planetografia e la sua storia, hai persino risolto il problema militare che si porrebbe nel caso (di questi tempi impossibile) che fosse conquistato da un qualsiasi nemico e lo si dovesse liberare.
Sei stato su Anacreon, rifletté Trevize. Allora immaginalo, cerca di rivederlo con la tua mente: in questo modo, se c’è un iper-relé. sentirai di trovarti sulla sua superficie.
Niente. Le terminazioni nervose fremettero e approdarono nel nulla.
Trevize staccò le mani dalla scrivania. — Non ci sono iper-relé a bordo della “Far Star”, Janov, ora ne sono certo. E mi chiedo quanto mi ci sarebbe voluto per arrivare a queste conclusioni se non avessi seguito il vostro suggerimento.
Pur senza muovere un solo muscolo facciale. Pelorat s’illuminò. — Sono proprio contento di esservi stato di aiuto. Ciò significa che ci accingiamo a compiere il Balzo?
— No, aspetteremo ancora due giorni, per andare sul sicuro. Dobbiamo allontanarci dalle masse pericolose, ve l’ho detto. Di solito, quando mi trovo su una nave nuova con cui non ho mai volato, mi occorrono due giorni per calcolare tutto, in particolare l’iperspinta giusta per il primo Balzo, ma ho la sensazione che sulla “Far Star” sarà il computer a sbrigare queste faccende.
— Santo Cielo, allora dovremo annoiarci per due giorni!
— Annoiarci? — disse Trevize con un gran sorriso. — No di certo! Voi ed io, Janov, parleremo un po’ della Terra.
— Davvero? — disse Pelorat — Lo fate per compiacere un povero vecchio? È gentile da parte vostra, veramente.
— Macché compiacere un povero vecchio! Lo faccio per me: avete conquistato un proselito, Janov. Da quanto avete detto ho capito che la Terra è il corpo celeste più importante e più incontestabilmente interessante dell’Universo.
Assorbito dall’idea dell’iper-relé, Trevize non aveva reagito subito al discorso sulla Terra che il suo compagno gli aveva fatto, tuttavia doveva esserne rimasto colpito, perché appena risolto il problema la sua reazione era stata immediata.
Uno dei discorsi di Hari Seldon maggiormente ripetuti era quello secondo cui la Seconda Fondazione si sarebbe trovata al capo opposto della Galassia rispetto a Terminus. Seldon aveva dato anche un nome al luogo: Star’s End.
Di questo si parlava nel resoconto fatto da Gaal Dornick nel giorno del processo davanti alla corte imperiale. «Il capo opposto della Galassia»: così si era espresso Seldon con Dornick, e da quel momento non si era mai cessato di discutere sul significato di quelle parole.
Che cosa collegava i “capi opposti” della Galassia? Una linea retta, una spirale, un cerchio, o che altro?
E d’un tratto, in seguito al colloquio con Pelorat, Trevize aveva capito che sulla mappa della Galassia non si potevano tracciare linee, né curve; la questione era assai più sottile.
Era perfettamente chiaro che uno dei capi della Galassia fosse Terminus.
Terminus si trovava ai confini della Galassia, ai confini della Fondazione[5], e nel suo caso la parola “capo” aveva un significato letterale[6].
Tra l’altro, all’epoca di Seldon era uno dei pianeti più nuovi, un mondo che non era stato ancora colonizzato, che non aveva ancora una sua identità.
In tale prospettiva, quale si poteva considerare l’altro capo?
L’altro capo della Fondazione[7]? Ma era ovvio: il pianeta più vecchio. E secondo quanto aveva detto l’ignaro Pelorat, quel pianeta poteva essere soltanto la Terra. La Seconda Fondazione poteva benissimo essere sulla Terra.
Tuttavia, come mai Seldon aveva battezzato il posto Star’s End? Forse si trattava di un linguaggio metaforico. L’umanità, come aveva osservato Pelorat, si era sparsa per innumerevoli sistemi solari; se si percorreva a ritroso la catena di migrazioni creata dagli esseri umani, si arrivava al pianeta d’origine. Ed il sole che aveva illuminato quel pianeta era forse quello che Seldon aveva definito Star’s End.
Trevize sorrise e disse, quasi con affetto: — Ditemi di più sulla Terra, Janov.
Pelorat scosse la testa. — Vi ho già detto tutto, sul serio. Ne scopriremo di più su Trantor.
— No, Janov — disse Trevize. — Non scopriremo niente su Trantor, e sapete perché? Perché non ci andremo. Sono io che piloto la nave, ed io non la porterò su Trantor.
Pelorat rimase a bocca aperta e per un attimo non riuscì a respirare. Poi disse, afflitto: — Che cosa dite mai, caro amico!
— Su Janov, non fate quella faccia. Cercheremo la Terra.
— Ma è solo su Trantor che...
— No. Trantor è soltanto un posto dove si possono studiare pellicole malridotte e documenti impolverati, e dove uno si riduce a sua volta come un oggetto malridotto e impolverato.
— Per anni ed anni ho sognato di...
— Di trovare la Terra.
— Ma è solo...
Trevize si alzò, si chinò sopra Pelorat e tirandolo piano per la manica disse: — No, non ditelo, professore. Vi ricordate che prima ancora di salire su questa nave mi confessaste che volevate cercare la Terra e che pensavate di poterlo fare perché, sono vostre parole, «avevate un’idea eccellente»? Ora, non voglio più sentir nominare Trantor, ma voglio che mi parliate di quest’idea eccellente.
— Ma è un’idea che ha bisogno di conferme: per il momento è solo una speranza, una vaga possibilità.
— Bene, parlatemene!
— Non capite. No, proprio non capite. È un campo in cui ho compiuto ricerche soltanto io. Non c’è niente di preciso, niente di solido, niente di reale a cui fare riferimento. La gente parla della Terra come se esistesse veramente, ma anche come di un mondo leggendario. Ci sono innumerevoli racconti contraddittori...
— Be’, potete dirmi in cosa sia consistita la vostra ricerca?
— Ho sentito la necessità di raccogliere tutti i racconti. le leggende, le storie più plausibili ed i miti più nebulosi riguardanti la Terra o comunque l’idea di un pianeta d’origine. Ho raccolto persino le opere di narrativa. Per più di trent’anni ho messo insieme materiale proveniente da tutti i pianeti. Se adesso potessi trovare qualcosa di più attendibile di quanto ho nella Biblioteca Galattica di... ma non volete nemmeno che nomini quel pianeta. vero?
— Infatti: non nominatelo. Ditemi invece di quando, in mezzo a tutto il materiale da voi raccolto, avete individuato qualcosa di particolarmente interessante, e le ragioni per cui questo qualcosa vi sia parso interessante.
Pelorat scosse la testa. — Scusatemi se dico così, Golan, ma mi pare che parliate come un militare od un politico. La storia non funziona in questo modo.
Trevize respirò a fondo e dominò l’agitazione. — Spiegatemi come funziona la faccenda, Janov. Abbiamo due giorni di tempo. Istruitemi un po’.
— Non si può dare credito ad un particolare mito o ad un particolare gruppo. Ho dovuto mettere insieme tutte le storie, analizzarle, ordinarle, inventare simboli capaci di descrivere gli aspetti diversi del loro contenuto. Sono storie che raccontano di un clima impossibile, di sistemi planetari che non corrispondono a quelli reali, di eroi leggendari provenienti da altri mondi e di centinaia di altre cose singolari. Non ha senso che le elenchi tutte; due giorni non basterebbero. Ci ho lavorato attorno per più di trent’anni, come vi ho detto.
«Poi mi sono messo al computer ed ho studiato un programma che individuasse gli elementi comuni dei vari miti ed eliminasse le vere e proprie impossibilità. A poco a poco sono giunto a raffigurarmi la Terra. In fin dei conti, se gli esseri umani provengono tutti da un unico pianeta, tale pianeta, mi sono detto, deve rappresentare il fatto concreto che i miti delle origini e le storie di eroi leggendari hanno in comune.
Volete che entri in dettagli matematici?
— Non adesso, grazie — disse Trevize. — Ma come fate ad essere sicuro che la vostra matematica non vi conduca sul sentiero sbagliato? Sappiamo che Terminus fu fondata solo cinque secoli fa e che i primi colonizzatori erano, sì, originari di Trantor, ma si erano stabiliti già a dozzine, o a centinaia, su altri pianeti. Eppure qualcuno che non sapeva questo suppose che Hari Seldon e Salvor Hardin, che non erano nati su Terminus, venissero direttamente dalla Terra, e che Trantor fosse in realtà la Terra stessa. Certo, se ci mettessimo a cercare adesso il Trantor tutto ricoperto di metallo dell’epoca di Seldon, non lo troveremmo proprio, e finiremmo per considerarlo pura leggenda.
Pelorat apparve compiaciuto. — Ritiro la mia precedente osservazione sui militari e i politici, caro amico: avete una notevole intuizione. Naturalmente ho dovuto sottoporre il mio modello ideale ad una serie di controlli. Ho inventato un centinaio di storie false simili a quelle delle leggende da me raccolte. A questo scopo ho distorto i fatti storici reali; in un caso mi sono ispirato addirittura agli avvenimenti della Terminus dei primordi: il computer ha rifiutato tutte le storie. Certo, poteva anche significare semplicemente che non avevo il talento narrativo sufficiente a creare qualcosa di passabile, però ho fatto del mio meglio.
— Non ne dubito, Janov. E che cosa vi ha detto della Terra il vostro modello?
— Una quantità di cose caratterizzate da un grado variabile di probabilità. Mi ha fornito insomma una specie di schema approssimativo. Sappiamo che il novanta per cento dei pianeti abitati della Galassia ha un periodo di rotazione compreso fra le ventidue e le ventisei ore galattiche standard. Bene...
— Spero che non abbiate concentrato la vostra attenzione su questo fatto, Janov
— lo interruppe Trevize. — Non c’è nulla di misterioso in questo. Perché un pianeta sia abitabile, bisogna che non ruoti così in fretta da rendere burrascose le condizioni atmosferiche o così lentamente da rendere intollerabili le variazioni climatiche. Si verifica praticamente un’auto-selezione: gli esseri umani preferiscono abitare su pianeti che abbiano caratteristiche favorevoli allo sviluppo della loro vita. Capita poi che, quando si scopre che tutti i pianeti abitabili hanno appunto in comune queste caratteristiche, qualcuno dica «ma che strana coincidenza», mentre di strano non c’è niente e non si tratta di coincidenza.
— A dire la verità, questo è un fenomeno assai frequente nelle scienze sociali — disse Pelorat con calma. — Probabilmente lo è anche in fisica, ma poiché non sono un fisico, non ne sono certo. In ogni caso, è definito “Principio antropico”.
L’osservatore influenza gli eventi che osserva per il semplice fatto di osservarlo, per il semplice fatto di essere presente. Ma il problema è: dove si trova il pianeta corrispondente al mio modello? Qual è quel mondo che ruota intorno al proprio asse esattamente in un giorno galattico standard, ovvero in ventiquattr’ore galattiche standard?
Trevize, pensieroso, sporse il labbro inferiore.
— Pensate che quella sia la Terra? Ma il giorno galattico standard potrebbe basarsi sulle caratteristiche locali di un mondo qualsiasi, no?
— È improbabile. Gli esseri umani non procedono in questo modo. Trantor è stato il pianeta-capitale della galassia per dodicimila anni, ed il più popoloso per ventimila, eppure non ha mai imposto agli altri il suo periodo di rotazione di 1,8 giorni galattici standard. Il periodo di rotazione di Terminus è di 1,91 GGS ma noi non lo imponiamo ai pianeti che rientrino sotto il nostro dominio. Tutti i mondi fanno i loro calcoli usando il sistema del GPL, il giorno planetario locale, e per le questioni di importanza interplanetaria si procede col computer a convertire GPL in GGS e viceversa. Il giorno galattico standard deve venire per forza dalla Terra!
— Perché per forza?
— Innanzitutto perché la Terra un tempo era l’unico mondo abitato, per cui è logico pensare che il suo giorno ed il suo anno divenissero il metro di misurazione standard e lo restassero per inerzia sociale anche all’epoca della colonizzazione di altri pianeti. In secondo luogo perché il modello da me elaborato è quello di una Terra che ruota intorno al proprio asse esattamente in ventiquattro ore galattiche standard, e che gira intorno al suo sole esattamente in un anno galattico standard.
— Non potrebbe trattarsi di una coincidenza?
Pelorat rise. — Adesso siete voi a parlare di coincidenza! Sareste pronto a scommettere che ci troviamo di fronte ad una semplice coincidenza?
— D’accordo, d’accordo — mormorò Trevize.
— E c’è di più — proseguì Pelorat. — Esiste un’antica misura del tempo chiamata mese...
— Ne ho sentito parlare.
— A quanto sembra, corrisponde al periodo di rivoluzione del satellite della Terra intorno al pianeta madre. Però...
— Sì?
— Ecco, il fatto sorprendente è che, secondo il mio modello, questo satellite sarebbe enorme, avrebbe un diametro superiore ad un quarto di quello terrestre.
— Molto curioso! Non c’è alcun pianeta abitato della Galassia che abbia un satellite del genere.
— Ma è positivo, Golan — disse Pelorat, con vivacità. — Se la Terra, unica fra tanti mondi, ha dato origine a varie specie diverse e ad un’intelligenza evoluta come quella umana, è logico che abbia caratteristiche fisiche che la rendono particolare.
— Ma che cosa c’entra un grosso satellite con le specie diverse, l’intelligenza e tutto il resto?
— Ecco, questo è un punto debole; non lo so. Però vale la pena di condurre un’indagine, no?
Trevize si alzò in piedi ed incrociò le braccia sul petto.
— Ma qual è il problema, allora? Basta analizzare i dati statistici sui pianeti abitati e trovare il mondo che abbia un periodo di rotazione di un GGS ed un periodo di rivoluzione di un AGS. Se poi questo mondo avesse anche un satellite gigantesco, è chiaramente quello che cerchiamo. Immagino che la vostra “idea eccellente” riguardi proprio questo, vero? Avete esaminato i dati ed avete scoperto il pianeta?
Pelorat apparve imbarazzato. — Non è esattamente così. È vero che ho analizzato i dati, o meglio li ho fatti analizzare al dipartimento astronomico, e... Ecco in parole povere, quel mondo non esiste.
Trevize si lasciò cadere di nuovo sulla sedia. — Ma questo significa che la vostra ipotesi va in fumo!
— Non del tutto, mi pare.
— Come sarebbe non del tutto? Elaborate un modello completo nei minimi particolari e non riuscite a trovare alcun mondo che gli corrisponda: è evidente che il modello è inutile. Vi tocca ricominciare da capo.
— No. I risultati negativi significano semplicemente che i dati statistici sui pianeti popolati siano incompleti. Dopotutto, i pianeti abitati sono decine di milioni, e di molti si sa ben poco. Non abbiamo, per esempio, dati attendibili sulla popolazione di quasi metà di essi. E di seicentoquarantamila mondi sappiamo soltanto il nome e, qualche volta, la posizione. Alcuni galattografi hanno calcolato che potrebbero esserci fino a diecimila pianeti abitati non catalogati da alcuna parte. Forse sono i pianeti stessi ad aver incoraggiato tale stato di cose: durante l’Era Imperiale questo potrebbe averli aiutati ad evadere le tasse.
— E ad evaderle anche nei secoli successivi — disse Trevize, caustico. — Mondi del genere sarebbero stati l’ideale come basi per i pirati, il che avrebbe permesso loro di arricchirsi più che con il commercio legale.
— Non saprei — disse Pelorat, dubbioso.
— In ogni modo — disse Trevize — secondo me la Terra avrebbe dovuto trovarsi comunque nella lista dei pianeti abitati conosciuti. Essendo per definizione il più antico di essi, non è pensabile che sia stata dimenticata. Nei primi secoli della civiltà galattica il suo nome dev’essere stato incluso per forza nella lista, e dopo di allora ci sarà rimasto, immagino. Penso che in casi del genere l’inerzia sociale sia di pragmatica.
Pelorat appariva angustiato, esitante. — In effetti, c’è una Terra nella lista dei mondi abitati — disse poi.
Trevize lo fissò. — Sbaglio o poco fa mi avete detto che non fosse nell’elenco?
— Col nome di Terra non c’è, infatti. C’è però con il nome di Gaia.
— Ga... cosa?
— Gaia. Significa Terra.
— Come fate ad affermarlo? È un nome che a me non dice niente.
Pelorat, che di solito era inespressivo, contrasse il viso in una sorta di smorfia. — Ho paura che non mi crederete, ma... be’, secondo la mia analisi dei miti, sulla Terra ci sarebbero state varie lingue prive tra loro di qualsiasi elemento comune.
— Che cosa?
— Sì. In fin dei conti, anche noi nella Galassia abbiamo moltissimi gerghi diversi...
— Certo, esistono varie sfumature dialettali, ma nessuna lingua risulta inintelligibile all’altra. Ed anche se capirne alcune è abbastanza difficile, c’è sempre il galattico standard.
— Sì, ma con i viaggi interstellari esiste uno scambio continuo. Provate ad immaginare un mondo isolato per un lungo periodo...
— Ma state parlando della Terra, di un pianeta come gli altri. Perché mai avrebbe dovuto soffrire l’isolamento?
— Non dimenticate che è il pianeta d’origine, dove un tempo l’umanità dev’essere vissuta in condizioni estremamente primitive, senza viaggi interstellari, senza computer, senza tecnologie di sorta, tutta presa dalla lotta per evolversi da antenati non umani.
— Ma è ridicolo!
Pelorat abbassò la testa, imbarazzato. — Forse non ha senso discutere di questo, amico mio. Non sono mai riuscito a convincere nessuno, e certo la colpa è mia.
Trevize di colpo assunse un’aria contrita. — Scusatemi, Janov, ho parlato senza pensare. Dopotutto, si tratta di teorie estremamente nuove per me: voi le state studiando da trent’anni, io invece le apprendo solo adesso, e tutte in una volta.
Dovete concedermi qualche attenuante. Allora tenterò di immaginarmi esseri umani molto primitivi, che sulla Terra parlano due lingue completamente diverse e incomprensibili l’una all’altra.
— Più che due, una mezza dozzina — disse Pelorat, timidamente.
— La Terra era divisa probabilmente in varie estensioni di terraferma di notevole grandezza, ed è facile che all’inizio non ci fossero contatti tra di esse. Gli abitanti di ciascuna terra avranno così elaborato la loro particolare lingua indipendentemente dagli altri.
Trevize disse, con una certa solennità ma anche con una certa cautela: — E questi abitanti si saranno chiesti, una volta resisi conto dell’esistenza dei loro vicini, in quale luogo della Terra i primi esseri umani si fossero evoluti dagli animali. Avranno insomma discusso una loro questione delle origini.
— Più che probabile, Golan. È molto umano un atteggiamento del genere.
— E in una delle lingue del pianeta Gaia significa Terra. Terra, a sua volta, appartiene al vocabolario di un’altra di quelle lingue.
— Infatti.
— E mentre il galattico standard deriva dalla lingua in cui Terra si dice Terra, sul nostro pianeta d’origine ha prevalso per qualche motivo la lingua in cui Terra si dice Gaia.
— Proprio così: siete davvero sveglio, Golan.
— Però, a questo punto, non vedo il problema. Se Gaia è davvero la Terra, dovrebbe avere un periodo di rotazione di un GGS, un periodo di rivoluzione di un AGS, ed un satellite gigantesco che le giri intorno in un mese, non vi pare?
— Sì.
— Allora, questo vostro pianeta è effettivamente come dovrebbe essere, o no?
— Non lo so: nelle tavole non ci sono questi dati.
— No? Be’, Janov, non ci resta che andare su Gaia, misurare i suoi periodi di rotazione e rivoluzione, ed osservare il suo satellite...
— Mi piacerebbe, Golan — disse Pelorat, titubante, — Il guaio è che non so esattamente dove si trovi il pianeta: nemmeno su questo esistono dati precisi.
— Intendete dire che tutto quello che sapete è il nome?
— Ma è proprio per questo che volevo visitare la Biblioteca Galattica!
— Ehi, un attimo. Dite che le tavole non vi danno la posizione esatta. Ne danno almeno una approssimativa?
— Be’ Gaia risulta nel Settore Sayshell, ma accanto c’è un punto interrogativo.
— Su, Janov, non voglio vedervi così abbacchiato: andremo nel Settore Sayshell, ed in qualche modo troveremo quel pianeta!