Parte quattordicesima Avanti!

1

Janov Pelorat guardò con un misto d’incertezza e di rammarico il paesaggio avvolto nella grigia foschia dell’alba.

— Bisognerebbe stare qui più a lungo, Golan — disse. — Mi pare un mondo piacevole e interessante: vorrei conoscerlo meglio.

Con una smorfia di disappunto, Trevize alzò gli occhi dal computer. — E credete che non vorrei anch’io la stessa cosa? Su questo pianeta abbiamo consumato tre pasti come si deve, molto diversi l’uno dall’altro ma tutti eccellenti. Mi piacerebbe consumarne altri. E le uniche donne che abbiamo viste le abbiamo viste per troppo breve tempo. Tra l’altro, alcune mi erano parse molto promettenti per... be’, per quello che avevo in mente di fare.

Pelorat arricciò lievemente il naso. — Oh, amico mio, hanno al posto delle scarpe quei dannati campanacci, e poi vanno in giro vestite con colori che fanno a pugni l’uno con l’altro. Per non parlare delle ciglia: avete notato quello che fanno alle loro ciglia?

— Ho notato tutto, Janov, potete starne certo. I difetti che avete rilevato sono ben poco importanti. Si può persuadere facilmente una ragazza a lavarsi la faccia; quanto al resto, al momento giusto le scarpe e i vestiti colorati si tolgono.

— Vi credo sulla parola, Janov — disse Pelorat. — Pensavo però di indagare ulteriormente sull’argomento Terra. Le notizie che abbiamo ricevuto finora sono così contraddittorie: uno ci parla di radiazioni, l’altro di robot...

— In entrambi i casi come risultato si sarebbe avuta l’estinzione della vita sul pianeta.

— Vero — disse Pelorat, a malincuore, — ma può darsi che una sola versione sia esatta, oppure che non lo sia alcuna delle due. Od anche, potrebbero essere vere entrambe, ma solo fino a un certo punto. Quando si sentono storie piene di lacune e di incongruenze, viene per forza la voglia di indagare più a fondo, non è così?

— Certo — disse Golan. — Certo, per la Galassia. Ma il problema essenziale adesso è Gaia. Una volta che l’avremo risolto potremo andare sulla Terra o tornare qui a Sayshell per un periodo più lungo. Prima di tutto però dobbiamo pensare a Gaia.

Pelorat annuì. — Il problema essenziale, sì. Ma se dobbiamo credere a quello che ci ha detto Quintesetz, su Gaia ci aspetta la morte: è giusto andarci lo stesso?

— È una domanda che mi sono fatto anch’io. Avete paura?

Pelorat esitò, come se stesse analizzando i propri sentimenti. Poi disse, col tono più naturale di questo mondo: — Sì. Una paura terribile!

Trevize si appoggiò allo schienale della sedia, si girò su di essa per guardare il compagno e disse, con tono altrettanto naturale: — Janov, non ha senso che corriate questo rischio. Basta una vostra parola e vi lascio su Sayshell con i vostri effetti personali e con metà dei crediti che ci sono stati assegnati. Vi riprenderò a bordo quando tornerò e dopo, se volete, andremo nel Settore Sirio e sulla Terra, se è vero che si trovi là. In caso non tornassi, i membri della Fondazione che risiedono in questo pianeta provvederebbero a rimandarvi su Terminus. Non me ne avrò assolutamente a male se deciderete di restare qui, amico mio.

Pelorat batté più volte le palpebre e strinse le labbra. Poi disse, con voce roca: — Amico, già. E pensare che ci conosciamo solo da una settimana o giù di lì. Non è strano ch’io non abbia alcuna intenzione di abbandonare la nave? Ho paura, è vero, ma desidero rimanere con voi.

Trevize mosse le mani in un gesto d’incertezza. — Ma perché? Sono sincero quando dico che non sia necessario che veniate.

— Non so bene perché, ma sono io che lo ritengo necessario. Il fatto è che... ho fiducia in voi, Golan. Mi pare che sappiate sempre quello che fate. Io sarei voluto andare su Tranton dove probabilmente, ora lo capisco, non avremmo concluso niente.

Siete stato voi ad insistere su Gaia, e Gaia per qualche motivo dev’essere un punto nevralgico della Galassia. A quanto sembra ha una certa influenza sullo svilupparsi degli avvenimenti. Ma non basta. Non mi è sfuggito come siate riuscito a costringere Quintesetz a darvi le informazioni che volevate su quel pianeta. È stato un bluff molto ben congegnato: vi ho ammirato moltissimo.

— Avete fiducia in me, allora.

— Sì — disse Pelorat.

Trevize posò una mano sul braccio dell’altro e per un attimo parve cercare le parole. Alla fine disse: — Janov, vorrete perdonarmi fin da ora se per caso le mie previsioni si riveleranno sbagliate e vi imbatterete in una realtà... sgradevole?

— Oh, amico mio, perché mi fate una domanda del genere? — disse Pelorat. — Ho preso questa decisione liberamente, per motivi miei, non vostri. Anzi, preferirei che partissimo al più presto. Sapete, non vorrei che la mia pusillanimità mi saltasse alla gola all’ultimo momento facendomi vergognare di me stesso per il resto della vita.

— Come volete — disse Trevize. — Partiremo appena il computer ce lo permetterà. Questa volta ci sposteremo gravitazionalmente, appena saremo sicuri che l’atmosfera sopra di noi non è ingombrata da altre astronavi. Ed a mano a mano che l’atmosfera stessa diventerà meno densa, acquisteremo velocità. In molto meno di un’ora ci ritroveremo nello spazio.

— Bene — disse Pelorat, e tolse il cappuccio al contenitore del caffè. L’orifizio scoperto cominciò subito a fumare. Pelorat mise la tettarella in bocca e sorseggiò il caffè, facendo entrare in bocca la quantità d’aria sufficiente a raffreddare lievemente il liquido ed a renderlo così bevibile.

Trevize sorrise. — Avete imparato ad usare a meraviglia quegli affari. Siete un veterano dello spazio, Janov.

Pelorat fissò un attimo il contenitore di plastica e disse:

— Ora che abbiamo navi che hanno superato brillantemente il problema dei campi gravitazionali potremmo anche usare dei contenitori normali, no?

— Certo, ma è difficile indurre gli spaziali a rinunciare alle vecchie apparecchiature. Come può un fiero navigante dello spazio far capire quanto sia superiore ai poveri vermi di terra se usa un’ordinarissima tazza dalla bocca grande?

Vedete quegli anelli sulle pareti ed il soffitto? Si sono usati per più di ventimila anni sulle astronavi tradizionali, ma sono diventati completamente inutili nelle navi gravitazionali. Eppure eccoli lì. E scommetto l’intera “Far Star” contro una tazza di caffè che il nostro fiero navigante al momento del decollo con una nave gravitazionale farà finta di sentirsi schiacciato dall’accelerazione fin quasi all’asfissia, e si lascerà poi dondolare da quegli anelli come se fosse a gravità zero mentre è a G1, cioè a gravità normale.

— State scherzando, vero?

— In parte sì, ma l’inerzia sociale ostacola sempre tutto, anche il progresso tecnologico. Quegli anelli stanno lì alle pareti, inutili, e le tazze che ci vengono fornite hanno la tettarella.

Pelorat annuì, pensieroso, e continuò a sorseggiare il caffè. Alla fine chiese: — Quando decolliamo?

Trevize rise di cuore e disse: — Ve l’ho fatta. Mi sono messo a parlare degli anelli e delle tazze e voi non vi siete accorto che decollavamo proprio in quel momento: siamo già a un miglio dal suolo.

— No, non dite sul serio.

— Guardate fuori.

Pelorat lo fece, poi disse: — Ma non ho sentito niente!

— Non dovevate sentire niente.

— Non stiamo infrangendo le regole? Non avremmo dovuto seguire il segnale radio e salire a spirale, come abbiamo fatto per l’atterraggio?

— No, non ce n’è ragione, Janov. Nessuno ci fermerà, proprio nessuno.

— Quando stavamo per atterrare avete detto che...

— In quel caso era diverso. Non morivano certo dalla voglia di vederci arrivare, ma sono arcicontenti di vederci andare via.

— Perché dite questo, Golan? L’unica persona che ci abbia parlato di Gaia è stato Quintesetz, e ci ha supplicato di non partire.

— Vi sbagliate, Janov, l’ha fatto solo per una questione di forma. In realtà desiderava assicurarsi che andassimo su Gaia. Voi avete ammirato il mio bluff, grazie al quale credete abbia ottenuto le informazioni, ma è un’ammirazione che non merito, purtroppo. Se non avessi mosso un dito, Quintesetz me le avrebbe fornite lo stesso. E se mi fossi turato le orecchie me le avrebbe addirittura urlate.

— Perché dite così? È assurdo.

— Mi giudicate paranoico, eh? — Trevize si giro verso il computer e si collegò con esso. — Non ci fermano — disse. — Non c’è alcuna nave che cerchi di intercettarci, non ci sono messaggi di avvertimento di nessun genere.

Si voltò di nuovo verso Pelorat e disse: — Ditemi, Janov, come avete saputo dell’esistenza di Gaia? Conoscevate questo nome già su Terminus e sapevate che si trovasse nel Settore Sayshell. Sapevate anche che era ritenuta una sorta di Terra.

Dove avete appreso tutte queste cose?

Pelorat si irrigidì lievemente. — Se fossi nel mio ufficio potrei consultare i miei schedari. Non ho portato tutto con me, e certo non i fogli con le date in cui sono venuto in possesso di questa o quella informazione.

— Be’, riflettete bene — disse Trevize con caparbietà. — Pensate che i sayshelliani stessi sono molto abbottonati sull’argomento: sono così restii a parlare del pianeta Gaia, che addirittura incoraggiano la gente più sprovveduta a credere che nello spazio reale non esista un tale pianeta. Anzi vi dirò un’altra cosa. Guardate qua.

Trevize si girò verso il computer e posò le mani sulle apposite impronte con la prontezza che gli derivava dall’ormai lunga esperienza. Gli fece piacere provare la sensazione di calore che il collegamento dava. Come sempre, sentì frammenti della propria volontà fluire fuori.

— Questa è la mappa galattica che il computer aveva nelle sue banche dati prima che atterrassimo su Sayshell — disse. — Ora vi mostro la parte della mappa dove è raffigurato il cielo notturno di Sayshell come l’abbiamo visto ieri.

La stanza si oscurò e sullo schermo apparve il cielo stellato di Sayshell.

Pelorat disse, sottovoce: — Bello come dal vero.

— Più bello — disse Trevize, con una punta d’impazienza. — Non c’è alcun tipo di interferenza atmosferica, non ci sono nubi e nemmeno assorbimento all’orizzonte.

Ma aspettate che regolo un attimo una cosa.

L’immagine si spostò, dando ai due la sgradevole sensazione che fossero loro a muoversi. Pelorat istintivamente afferrò i braccioli della poltrona per “fermarsi”.

— Ecco là — disse Trevize. — Le riconoscete?

— Certo: sono le Cinque Sorelle, il pentagono di stelle indicatoci da Quintesetz.

Sono inconfondibili.

— Infatti. Ma dov’è Gaia?

Pelorat batté le palpebre. Al centro del pentagono la stella di minor luminosità non c’era.

— Non c’è — disse.

— Già, non c’è. Non c’è perché la sua posizione non è inclusa nelle banche dati del computer. Poiché è inverosimile pensare che su Terminus abbiano lasciato incomplete le banche dati per risparmiarci spiacevoli avventure su Gaia, si dovrà dedurre che i cartografi della Fondazione che hanno progettato il computer e che avevano a disposizione un’immensa quantità di informazioni ignorassero l’esistenza di Gaia.

— Credete che se fossimo andati su Trantor... — cominciò Pelorat.

— Penso che non avremmo trovato informazioni su Gaia nemmeno lì. L’esistenza di quel mondo è tenuta segreta dai sayshelliani e ancor più, credo, dagli stessi gaiani.

Voi del resto avete detto, qualche giorno fa, che non era così infrequente che un pianeta cercasse apposta di non far sapere della propria esistenza per evitare tasse od intromissioni indesiderate dall’esterno.

— Di solito — disse Pelorat, — quando i cartografi e gli esperti di statistica di imbattono in un mondo del genere, scoprono invariabilmente che si trova in una zona poco popolata della Galassia. È l’isolamento che permette a questi pianeti di stare nascosti. Gaia non è isolata.

— Infatti. Questa è un’altra delle cose che la rendono unica. Lasciamo dunque questa mappa sullo schermo, così da continuare a meditare sulla svista dei nostri cartografi, e torniamo alla domanda di prima: come mai, data la generale ignoranza di persone anche bene informate, voi invece sapevate di Gaia?

— Sono trent’anni che raccolgo dati sui miti, le leggende, le storie terrestri, mio caro Golan. Senza avere a disposizione tutti i miei documenti, come faccio a...

— Possiamo intanto mettere dei punti fermi, Janov. Avete avuto notizia di Gaia nei, diciamo, primi quindici anni della vostra ricerca o negli ultimi quindici?

— Oh, be’, finché il margine di precisione è così ampio, posso dire tranquillamente che sia stato negli ultimi quindici.

— Forse, con un piccolo sforzo, potete essere più preciso. Mettiamo che vi dicessi che avete saputo di Gaia entro l’arco degli ultimi due anni.

Trevize guardò in direzione di Pelorat, ma nell’oscurità non riuscì a decifrare la sua espressione. Allora illuminò un po’ di più la stanza; il cielo stellato di Sayshell, sullo schermo, perse in proporzione parte della sua gloria. L’espressione di Pelorat era impassibile e non rivelava niente.

— Allora? — disse.

— Sto pensando — disse Pelorat, pacato. — Potreste avere ragione, anche se non sarei pronto a giurarlo. Quando scrissi a Jimbor, dell’Università di Ledbet, non menzionai Gaia, anche se in quel caso sarebbe stato giusto farlo, e gli scrissi nel... nel novantacinque, cioè tre anni fa. Sì, penso che abbiate ragione, Golan.

— E come apprendeste la notizia? Attraverso una comunicazione orale? Oppure la leggeste in un libro od in una relazione scientifica? Scopriste forse il nome in qualche vecchia ballata? Su, cercate di ricordarvi!

Pelorat si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia sul petto. S’immerse in profonda meditazione e non mosse un muscolo. Trevize rimase zitto ed aspettò.

Alla fine Pelorat disse: — L’ho saputo attraverso una comunicazione privata. Ma è inutile che mi chiediate chi fu che mi fornì la notizia, amico mio: non me lo ricordo.

Trevize giocherellò con la propria fusciacca. Per lo sforzo di cavar fuori informazioni a Pelorat senza dargli l’impressione di forzarlo troppo aveva cominciato a sudare, e si sentiva le mari i umide. Disse: — Era uno storico? Un esperto di mitologia? Un galattografo?

— Inutile. Non mi ricordo proprio chi sia stato a darmi la notizia.

— Forse perché non è stato nessuno.

— Oh, no, quello è impossibile.

— Perché? Avreste rifiutato una comunicazione anonima?

— Credo di no.

— Ne avete mai ricevute?

— Ogni tanto. Negli ultimi anni in alcuni circoli accademici sono diventato noto, nel senso che si sapeva che raccogliessi dati su miti e leggende. Alcuni dei miei corrispondenti a volte, gentilmente, mi hanno fornito materiale che avevano ricavato da fonti non accademiche, fonti che in determinati casi erano anonime.

— Sì — disse Trevize, — ma avete mai ricevuto informazioni anonime direttamente, senza la mediazione di professori in corrispondenza con voi?

— È successo, ma si tratta di episodi molto rari.

— E siete sicuro che il caso di Gaia non rientri fra questi episodi?

— Fatti del genere accadono così di rado che credo me lo sarei ricordato. In ogni modo, non posso dire con sicurezza né che l’informazione non sia stata anonima, né che lo sia stata.

— Capisco. Insomma, non si può escludere la mia ipotesi?

— Direi di no — rispose Pelorat. di malavoglia. — Ma che cos’è questa storia?

— Non ho ancora finito — disse Trevize, perentoriamente. — Anonima o meno che fosse l’informazione, da che mondo l’avete avuta?

Pelorat alzò le spalle. — Oh, sentite, non ne ho la più pallida idea.

— Quel mondo non potrebbe essere per caso Sayshell?

— Non me lo ricordo, ve l’ho detto.

— Vi sto suggerendo che abbiate saputo di Gaia da Sayshell.

— Potete suggerirmi quel che vi pare, ma niente dimostra che abbiate ragione.

— No? Quando Quintesetz ha indicato la stella poco luminosa al centro delle Cinque Sorelle, avete riconosciuto subito che si trattasse di Gaia e ne avete parlato prima ancora che ne parlasse lui. Vi ricordate?

— Certamente.

— Come avete fatto a capire subito che fosse Gaia?

— Perché nel materiale che avevo su Gaia questo pianeta raramente era chiamato col suo nome. Venivano usate varie circonlocuzioni e definizioni, come il “Fratellino delle Cinque Sorelle”, il “Centro del Pentagono”, od anche il “Pentagono”. Quando Quintesetz ha indicato le Cinque Sorelle e la stella centrale, tutto questo mi è tornato in mente.

— Non avevate mai accennato a queste denominazioni.

— Non sapevo cosa significassero e ritenevo non fosse il caso di discuterne con voi, che non siete uno... — Pelorat esitò.

— Uno specialista?

— Sì.

— Vi renderete conto, spero, che il pentagono formato dalle Cinque Sorelle sia una figura relativa.

— Che cosa intendete dire?

Trevize sorrise amabilmente. — Siete proprio un verme di terra! Credete che il cielo abbia una sua forma oggettiva? Che le stelle siano inchiodate al loro posto? Le Cinque Sorelle appaiono come un pentagono se viste dai mondi del sistema planetario cui appartiene il Pianeta Sayshell: solo viste da lì formano quella determinata figura. Chi le guardi da un pianeta che giri intorno ad un’altra stella vedrà un’altra cosa; innanzitutto perché le osserva da un’angolatura diversa, e poi perché le cinque stelle non sono tutte alla stessa distanza da Sayshell e, contemplate da altre zone dello spazio, potrebbero apparire totalmente staccate e indipendenti l’una dall’altra. Voglio dire, una o due potrebbero trovarsi in una metà del cielo, le altre nell’altra metà. Guardate un po’...

Trevize oscurò di nuovo la stanza e si chinò sul computer.

— L’Unione Sayshell è costituita da ottantasei sistemi planetari popolati.

Lasciamo Gaia, od il punto dove dovrebbe trovarsi Gaia, al suo posto — (mentre Trevize diceva questo, al centro del pentagono formato dalle cinque sorelle apparve un cerchietto rosso) — e spostiamo la visuale in modo che ci appaiano i cieli osservabili dagli altri mondi del Settore.

Lo schermo si mosse e Pelorat batté le palpebre. Il cerchietto rosso rimase dov’era, ma le Cinque Sorelle scomparvero. Nelle vicinanze di Gaia c’erano, sì, stelle brillanti, ma nessun pentagono. Lo schermo si mosse molte altre volte e se anche ogni tanto comparvero nel cielo figure formate da stelle, un pentagono così perfetto e luminoso come quello che si contemplava da Sayshell non tornò più.

— Vi basta? — disse Trevize. — Siete convinto adesso che le Cinque Sorelle non si possano vedere altrove come le si veda su Sayshell?

— Però potrebbe essere giunta notizia del cielo di Sayshell ad altri mondi — disse Pelorat. — Nell’epoca imperiale, ad esempio, c’erano proverbi, alcuni dei quali noti ancora oggi, che facevano riferimento agli usi e costumi di Trantor.

— Ma se Sayshell non vuol far sapere a nessuno di Gaia! E perché mai i pianeti al di fuori dell’Unione avrebbero dovuto interessarsi a una cosa del genere? Perché mai avrebbe dovuto importargli qualcosa del Fratellino delle Cinque Sorelle se non c’era nemmeno, in cielo, la stella che corrispondesse a quella denominazione?

— Forse avete ragione.

— E allora, capite che l’informazione su Gaia debba essere arrivata da Sayshell stesso? Non da una zona qualsiasi dell’Unione, ma proprio dal sistema planetario di cui fa parte il pianeta-capitale.

Pelorat scosse la testa. — Siete convincente, ma io non ricordo: non ricordo proprio.

— Però riconoscete che la mia ipotesi sia plausibile?

— Sì.

— Veniamo al secondo punto. In che epoca pensate sia nata la leggenda di cui ci ha parlato Quintesetz?

— Oh, può essere nata in qualsiasi epoca. Grosso modo direi che risalga all’Epoca Imperiale. Ha l’impronta delle antiche...

— Vi sbagliate, Janov. Le Cinque Sorelle sono abbastanza vicine al Pianeta Sayshell, ed è per questo che sono così luminose. Quattro di esse hanno un intenso moto proprio e si muovono in direzioni diverse, totalmente indipendenti l’una dall’altra. Guardate cosa succede ora che sposto lentamente la mappa indietro nel tempo.

Il cerchietto rosso che indicava Gaia rimase come al solito al suo posto, mentre il pentagono a poco a poco si smembrò: quattro delle sue stelle si allontanarono in direzioni diverse e la quinta si spostò di poco.

— Guardate la figura, Janov — disse Trevize. — Vi pare un pentagono regolare, adesso?

— È chiaramente sbilenco — disse Pelorat.

— E Gaia si trova sempre al centro?

— No, è spostata di lato.

— Esattamente. Così appariva la costellazione centocinquant’anni fa. Le informazioni che avete ricevuto in merito al Centro del Pentagono hanno un senso soltanto in relazione a questo secolo, anche su Sayshell. Quindi il materiale che avete avuto su tale argomento deve, oltre che provenire da Sayshell, risalire al nostro secolo, probabilmente all’ultimo decennio. E l’avete avuto nonostante Sayshell sia così restio a dare notizie di Gaia.

Trevize riaccese le luci, spense la mappa stellare e, seduto nella sua poltrona, fissò intento Pelorat.

— Sono confuso — disse Pelorat. — Che senso ha tutto questo?

— Lo chiedo a voi. Riflettete un po’. Qualche tempo fa mi venne in testa l’idea che la Seconda Fondazione potesse ancora esistere. In occasione di un discorso che dovevo pronunciare durante la campagna elettorale pensai di spremere un po’ di voti alla gente ancora indecisa tirando fuori la frase d’effetto «Se la Seconda Fondazione esistesse ancora...» Quello stesso giorno, dopo il discorso. pensai fra me e me: e se esistesse ancora sul serio? Mi misi a leggere libri di storia e nel giro di una settimana mi ero convinto. Non c’erano prove concrete, ma ho sempre avuto l’impressione di saper trarre le conclusioni giuste anche dalle supposizioni più azzardate. Questa volta, però... — Trevize s’interruppe e rifletté un attimo. Poi continuò. — Pensate a cosa sia successo da allora. Fra tutte le persone ho scelto Compor come mio confidente, e lui mi ha tradito. Dopo di che il sindaco Branno mi ha fatto arrestare e mi ha mandato in esilio. Perché in esilio, invece di lasciarmi semplicemente in prigione, o di minacciarmi con lo scopo di indurmi a tacere? E perché mi ha assegnato una nave ultimo modello che mi consente straordinari Balzi nell’iperspazio? E perché ha voluto tanto che vi prendessi con me e mi ha suggerito di aiutarvi a trovare la Terra?

«E perché ero così sicuro di non dover andare su Trantor? Ero convinto che voi aveste un’idea migliore per la nostra ricerca e voi che cosa avete fatto? Di punto in bianco avete tirato fuori il misterioso pianeta Gaia, sul quale avevate avuto informazioni in circostanze, come risulta ora, assai nebulose. Ci rechiamo su Sayshell, prima tappa obbligata, e chi ci troviamo? Compor, il quale ci racconta dettagliatamente la storia della Terra e della sua morte. Ci assicura poi che essa si trova nel Settore Sirio e ci consiglia caldamente di andare là.

— Ecco, questo è il punto — disse Pelorat. — Da quel che dite sembra che un complesso di circostanze ci spingesse verso Gaia, ma, come avete appena osservato, Compor ha tentato di persuaderci ad andare altrove.

— E per reazione io ho deciso di continuare il viaggio verso Gaia; la mia diffidenza nei confronti di Compor non poteva che indurmi ad agire così. Tuttavia forse lui contava proprio sul fatto che non mi sarei fidato dei suoi consigli. Potrebbe avere detto quello che ha detto apposta per spingermi a fare il contrario.

— Sono mere congetture — mormorò Pelorat.

— Vi pare? Andiamo avanti. Abbiamo chiesto un colloquio a Quintesetz semplicemente perché si trovava lì all’università, a portata di mano...

— Non è vero — disse Pelorat. — Io lo conoscevo di fama.

— Avete detto che il suo nome vi suonava familiare, ma non vi ricordavate di aver mai letto niente di suo. Perché il suo nome vi era familiare? In ogni modo, è venuto fuori che Quintesetz aveva letto un vostro saggio che l’aveva colpito moltissimo. Vi pare verosimile, questo? Voi stesso avete ammesso che il saggio in questione non era granché noto.

«Ma non basta. La ragazza che ci accompagna da Quintesetz a un certo punto, del tutto gratuitamente, nomina Gaia e, quasi volesse attrarre la nostra attenzione verso questo pianeta, dice che si trova nell’iperspazio. Quando chiediamo delucidazioni a Quintesetz lui si comporta come uno che non vuole parlare della faccenda, però non ci butta fuori, anche se io sono abbastanza villano con lui. Ci invita anzi a casa sua e durante la strada si prende la briga di indicarci le Cinque Sorelle. Si assicura anche che prendiamo nota della stella poco luminosa al centro del pentagono. Perché? Non ci troviamo davanti ad una catena di coincidenze davvero insolite?

— Certo, presentando le cose in questa maniera... — disse Pelorat.

— Presentatele come vi pare — disse Trevize. — Io non credo alle catene di coincidenze insolite.

— Allora, qual è il significato di tutto ciò? Che qualcuno stia tirando le fila alle nostre spalle perché ci rechiamo su Gaia?

— Sì.

— Ma chi?

— Su questo non vi sono dubbi — disse Trevize. — Chi può riuscire a controllare le menti, a dare una regolata qui e una là in modo che si segua una direzione piuttosto che un’altra?

— Mi state dicendo che sia la Seconda Fondazione?

— Che cosa ci hanno detto di Gaia? Che è intoccabile. Le flotte che hanno tentato di attaccarla sono state distrutte. La gente che vi si reca non fa più ritorno. Nemmeno il Mulo ebbe il coraggio di muoverle guerra; e pare addirittura che si trattasse del suo pianeta d’origine. Sembra proprio che Gaia sia la sede della Seconda Fondazione, e trovarla è lo scopo che mi prefiggo.

Pelorat scosse la testa. — Ma secondo alcuni storici il Mulo fu fermato dalla Seconda Fondazione: come sarebbe potuto succedere ciò, se fosse stato un membro di essa?

— Sarà stato un rinnegato.

— E per quale ragione la Seconda Fondazione ci sospingerebbe così inesorabilmente verso di sé?

Con lo sguardo pensieroso e la fronte corrugata, Trevize disse:

— Vediamo di ragionarci su. La Seconda Fondazione, a quanto risulta, ha sempre giudicato di capitale importanza non far sapere agli estranei della propria esistenza, o comunque far sapere di sé il meno possibile. Per centoventi anni noi della Prima Fondazione abbiamo effettivamente pensato che la Seconda non esistesse più, e questo deve aver fatto molto comodo ai suoi membri. Eppure, quando io ho cominciato a sospettare della loro esistenza, non hanno fatto niente. Compor sapeva.

Avrebbero potuto usarlo per chiudermi la bocca in un modo o nell’altro, anche uccidendomi, invece non hanno mosso un dito.

— Vi hanno fatto arrestare, se vogliamo attribuire alla Seconda Fondazione la responsabilità di quanto è avvenuto — disse Pelorat. — Secondo quanto mi avete detto, in questo modo la popolazione di Terminus non è stata messa al corrente delle vostre opinioni, I membri della Seconda Fondazione sono riusciti a compiere l’operazione senza commettere atti di violenza, forse nemmeno loro ignorano il detto di Salvor Hardin, «la violenza è l’ultimo rifugio degli incompetenti».

— Ma che la popolazione di Terminus ignori le mie opinioni serve a ben poco. Il sindaco Branno le conosce e certo si è domandata se io non abbia ragione. Per cui ormai la Seconda Fondazione non può più farci del male. Se mi avessero eliminato subito, avrebbero evitato ogni pericolo. Forse avrebbero evitato ogni pericolo anche se mi avessero lasciato completamente in pace, perché avrebbero potuto manovrare le cose in modo da presentarmi alla gente di Terminus come un eccentrico, magari addirittura un pazzo. E la prospettiva di vedere la mia carriera politica rovinata mi avrebbe indotto a tacere alle prime avvisaglie di ostilità da parte degli elettori.

«Ora invece è troppo tardi perché la Seconda Fondazione intervenga. Harla Branno si è insospettita abbastanza per quanto è successo da spedirmi dietro Compor, e poiché, essendo più saggia di me, non si fida nemmeno di lui, ha piazzato sulla sua nave un iper-relé. Di conseguenza sa che ci troviamo su Sayshell. E ieri sera, mentre dormivate, ho fatto trasmettere dal nostro computer un messaggio destinato al computer del nostro ambasciatore su Sayshell. In esso spiegavo che ci stiamo dirigendo verso Gaia, e mi sono preso anche la briga di fornire le coordinate. Se adesso la Seconda Fondazione farà qualcosa contro di noi, sono sicuro che la Branno ordinerà di investigare sull’accaduto. E certo la Seconda Fondazione non muore dalla voglia di vedere l’attenzione della Prima concentrata su di sé.

— Se sono così potenti — disse Pelorat, — dovrebbero infischiarsene di attrarre l’attenzione della Prima Fondazione...

— Invece non è così — disse Trevize con convinzione. — Se ne stanno nascosti perché per certi versi evidentemente sono deboli e perché la Prima Fondazione dal punto di vista tecnologico ha fatto passi da gigante, superando addirittura, penso, le previsioni di Seldon. Il modo cauto, quasi furtivo, con cui ci hanno indotto a dirigerci verso il loro mondo sembra dimostrare che non abbiano alcuna voglia di attrarre l’attenzione su di sé. E se è vera questa ipotesi, allora hanno già perso, almeno in parte, perché hanno attirato l’interesse della Prima Fondazione e non possono fare niente per cambiare la situazione.

— Ma perché affronterebbero tutti questi rischi? — disse Pelorat. — Perché, se la vostra analisi è corretta, dovrebbero correre seri pericoli pur di indurci a raggiungerli attraversando la Galassia? Che cos’è che vogliono da noi?

Trevize fissò Pelorat e arrossì. — Janov — disse, — Ho un presentimento riguardo a questa faccenda. Vi ho detto che ho il dono di arrivare a conclusioni esatte partendo da indizi minimi. Una speciale sensazione di sicurezza mi dice quando ho ragione, e adesso la provo. Io ho qualcosa di cui i membri della Seconda Fondazione hanno bisogno, e ne hanno tanto bisogno che per essa sono disposti a mettere a repentaglio la loro stessa esistenza. Non so che sia questo qualcosa, ma devo scoprirlo, perché se ce l’ho e se è così importante, allora voglio poterlo usare per quello che sembra giusto a me. — Trevize scrollò leggermente le spalle. — Siete ancora disposto a seguirmi, amico mio, ora che vedete che razza di pazzo io sia?

— Vi ho detto che ho fiducia in voi — disse Pelorat. — E ce l’ho tuttora.

Trevize rise, enormemente sollevato. — Fantastico! Perché, sapete, ho un’altra sensazione, e cioè che voi per qualche motivo siate una pedina essenziale in tutta questa vicenda. Allora, Janov, a tutta velocità verso Gaia. Avanti!

2

Il sindaco Harla Branno dimostrava decisamente di più dei suoi sessantadue anni, almeno in quel momento. Era così immersa nei suoi pensieri che si era dimenticata di evitare, come faceva di solito, lo specchio; così, mentre si dirigeva verso la sala mappe, aveva visto la propria immagine e si era resa conto di avere un’aria terribilmente stanca.

Sospirò. Era sfibrante, si disse. Da cinque anni ricopriva la carica di sindaco e prima di allora, per dodici anni, aveva tirato le fila del potere mentre uomini di paglia sedevano su quella poltrona. Tutto era andato liscio, aveva registrato sempre successi, ma era stato sfibrante. Si chiese come sarebbe stato se le cose non fossero andate lisce, se avesse subito sconfitte.

Per lei personalmente non sarebbe stato male, pensò. La necessità di agire le avrebbe rinvigorito lo spirito. Era la tremenda consapevolezza di non avere altra scelta che l’immobilismo ad averla fiaccata.

A garantire il successo era il Piano Seldon, e la Seconda Fondazione serviva ad assicurare che tale successo continuasse. Harla Branno, la persona di polso che stava al timone della Fondazione (era la Prima Fondazione, in realtà, ma su Terminus nessuno mai pensava di aggiungere l’aggettivo), si limitava a seguire la corrente.

La storia non si sarebbe ricordata, o quasi, di lei. Lei stava semplicemente ai comandi di una nave che era governata da fuori.

Persino Indbur III, che si era trovato al comando nel momento in cui la Fondazione si era arresa disastrosamente al Mulo, aveva fatto qualcosa: aveva, se non altro, capitolato.

Harla Branno, invece, era destinata a precipitare nell’anonimato. A meno che Golan Trevize, quello sconsiderato, quel parafulmine, non avesse reso possibile...

La Branno guardò pensierosa la mappa. Non era del tipo elaborato dai computer ultimo modello; era invece un grappolo di luci tridimensionale che rappresentava la Galassia a mezz’aria, olograficamente. Benché la struttura non potesse essere mossa né girata e benché non si potesse né espandere, né contrarre, le si girava intorno facilmente e la si poteva osservare da qualsiasi angolatura.

Quando la Branno toccò un comando, un’ampia sezione della Galassia, circa un terzo di tutto l’insieme (escluso il nucleo, che era “terra di nessuno”), diventò rossa.

La zona rossa rappresentava la Federazione della Fondazione, costituita da più di sette milioni di mondi abitati, governati dal Consiglio e dallo stesso sindaco Branno.

Erano quei sette milioni di pianeti ad avere votato per la Branno e a essere rappresentati alla Camera dei Mondi, la quale dibatteva questioni scarsamente importanti, deliberava su di esse e mai e poi mai si occupava di qualcosa di maggior rilevanza.

Il sindaco toccò un altro comando, e dai confini della Federazione si protesero in fuori, qui e là, macchie di color rosa chiaro: sfere d’influenza. Si trattava di regioni che non appartenevano alla Fondazione, ma che, indipendenti più di nome che di fatto, non si sarebbero mai sognate di contrastare una qualsiasi mossa del colosso.

La Branno era convintissima che nessuno nella Galassia (nemmeno la Seconda Fondazione, dovunque fosse) potesse sostenere un confronto con la Fondazione, e che quest’ultima avrebbe potuto, volendo, far partire da un momento all’altro le sue flotte di navi e fondare senza difficoltà il Secondo Impero.

Ma dall’inizio del Piano erano passati solo cinque secoli, non i dieci previsti da Seldon. Il sindaco scosse la testa con tristezza. Se la Fondazione avesse agito ora, per un motivo o per l’altro avrebbe registrato un insuccesso. Anche se le sue navi erano insuperabili, ugualmente non avrebbe avuto probabilità di vincere.

A meno che Trevize non avesse attirato su di sé i fulmini della Seconda Fondazione... fulmini che avrebbero permesso di risalire a chi li avesse lanciati.

Harla Branno si guardò intorno. Dov’era Kodell? Non era proprio il momento adatto ai ritardi.

Lupus in fabula, in quel momento Kodell entrò nella stanza sorridendo allegramente; aveva un’aria più paterna che mai, con i suoi baffi grigio-bianchi e la pelle abbronzata. Paterna, ma non vecchia. In effetti, aveva otto anni meno del sindaco.

Come mai lui non mostrava i segni della tensione? Quindici anni passati a fare il Capo della Sicurezza non gli avevano lasciato il marchio?

3

Kodell annuì lentamente, seguendo la formalità imposta a chi iniziasse un colloquio con il sindaco. Era un’usanza che si tramandava fin dai tempi bui degli Indbur. Quasi tutto era cambiato col tempo, ma l’etichetta era quella che resisteva di più alle innovazioni.

— Scusate se sono in ritardo, sindaco — disse, — ma l’arresto del consigliere Trevize ha cominciato a scuotere dal suo torpore il Consiglio.

— Ah sì? — disse il sindaco, senza molta partecipazione. — Ci aspetta la rivoluzione, a palazzo?

— No, affatto. Abbiamo tutto sotto controllo. Però ci sarà confusione.

— Che facciano pure confusione. Così si sentiranno meglio, ed io... io mi terrò fuori dalla scena. Immagino di poter contare sul favore dell’opinione pubblica, vero?

— Credo di sì, specie sull’opinione della gente che non sia di Terminus: a chi non sia di Terminus non interessa per niente quel che succeda ad un consigliere esule.

— A me interessa, invece.

— Nuove notizie?

— Liono — disse la Branno, — voglio essere informata su Sayshell.

— Non sono un libro di storia ambulante — disse Kodell con un sorriso.

— Non m’interessa la storia che si legge sui libri: voglio sapere la verità. Come mai Sayshell è indipendente? Guardate qua. — Harla Branno indicò nella mappa la zona rossa che rappresentava il territorio della Fondazione; in mezzo alle spirali più interne c’era una sacca bianca.

— L’abbiamo quasi incapsulata, quasi risucchiata — disse, — ma è ancora bianca, e resta bianca. Non è rappresentata nemmeno col rosa degli alleati sicuri.

Kodell alzò le spalle. — Ufficialmente Sayshell non è un alleato sicuro, però non ci dà alcun fastidio: è neutrale.

— D’accordo. Guardate questo, allora. — La Branno toccò un comando e il rosso si diffuse ancora di più, fino a coprire quasi metà della Galassia. — Questo — disse

— era il regno del Mulo all’epoca della sua morte. Se osservate bene in mezzo al rosso, vedrete che l’Unione Sayshell, pur essendo completamente circondata da territorio soggetto al Mulo, è colorata in bianco: è stata l’unica zona non conquistata.

— Era neutrale anche allora.

— Il Mulo non rispettava molto la neutralità.

— In questo caso pare l’abbia fatto.

— Pare proprio. Che cos’ha Sayshell di particolare?

— Niente — disse Kodell. — Credetemi, sindaco, possiamo conquistare l’Unione quando vogliamo.

— Davvero? Eppure, per qualche motivo, non l’abbiamo conquistata.

— Non c’è alcun bisogno di annetterla.

Harla Branno si appoggiò allo schienale della poltrona e, posando una mano sopra i comandi, spense l’ologramma.

— Credo che adesso, invece, occorra annetterla.

— Come dite?

— Liono, ho spedito quello stupido consigliere nello spazio perché mi facesse da parafulmine. Pensavo che la Seconda Fondazione l’avrebbe considerato più pericoloso di quanto realmente non fosse e che avrebbe ritenuto la Fondazione un pericolo minore: lui sarebbe stato colpito dal fulmine e noi avremmo visto da dove questo si originasse.

— Certamente, sindaco.

— Speravo che andasse a visitare le rovine imputridite di Trantor e a cercare tra i resti, ammesso che ci siano, della Biblioteca, qualche notizia riguardante la Terra. La Terra, se ricordate, è quel mondo che, secondo i mistici e le loro noiose teorie, avrebbe dato origine all’umanità. Come se, anche nel caso fosse vero, il fatto avesse la minima importanza... Pensavo che la Seconda Fondazione non avrebbe mai creduto che quello della Terra fosse il reale motivo per cui Trevize si fosse recato su Trantor e che si sarebbe messa in moto per scoprire quale fosse il suo vero obiettivo.

— Ma lui non è andato su Trantor.

— No. Del tutto inaspettatamente, è andato su Sayshell. Perché?

— Non lo so. Ma perdonate un vecchio segugio come me, che ha il compito di sospettare sempre di tutto, e ditemi per favore come fate ad essere sicura che lui e Pelorat si siano recati su Sayshell. So che Compor fa regolarmente rapporto, però fino a che punto ci possiamo fidare di lui?

— L’iper-relé ci dice che la sua nave è atterrata effettivamente su Sayshell.

— Senza dubbio, ma come potete essere certa che anche Trevize e Pelorat abbiano fatto altrettanto? Compor può essere andato su Sayshell per motivi suoi e potrebbe non sapere dove sono gli altri, od infischiarsene.

— Il nostro ambasciatore su Sayshell ci ha informato dell’arrivo della nave con la quale Trevize e Pelorat sono partiti, e non sono incline a credere che la nave sia arrivata senza loro a bordo. Tra l’altro, Compor dice di avere parlato con loro e se anche si può non credere a lui, ci sono altre testimonianze dalle quali si apprende che i due si sono recati all’Università di Sayshell, dove hanno fatto visita a uno storico di non grande rinomanza.

— Nessuna di queste notizie mi è giunta — disse Kodell, pacato.

La Branno tirò su col naso. — Non sentitevi scavalcato. Mi sto occupando della faccenda personalmente e le informazioni che vi ho appena dato le ho ricevute giusto poco fa dall’ambasciatore. Il nostro parafulmine sta procedendo per la sua strada. È rimasto su Sayshell due giorni, poi e ripartito. È diretto verso un altro sistema planetario, lontano circa dieci parsec da Sayshell. Ha comunicato il nome e le coordinate galattiche della sua destinazione all’ambasciatore, che li ha passati a noi.

— C’è qualche segno di conferma da parte di Compor?

— Compor ci ha avvertito ancor prima dell’ambasciatore che Trevize e Pelorat stavano partendo. Non sa ancora quale sia la loro meta. Presumo che li segua, come al solito.

— Ci sfuggono però i vari perché della situazione — disse Kodell. Si ficcò in bocca una pastiglia e la succhiò pensieroso. — Perché Trevize è atterrato su Sayshell? Perché è subito ripartito?

— La domanda che più m’incuriosisce è questa: dove? Dove sta andando?

— Ma non avete detto che ha comunicato all’ambasciatore il nome e le coordinate della sua destinazione? Pensate dunque che non gli abbia detto la verità? O che l’ambasciatore non l’abbia detta a noi?

— Anche ammesso che tutti abbiano detto la verità e che non ci siano stati errori di sorta da parte di nessuno, quello che mi incuriosisce è il nome della meta di Trevize. All’ambasciatore ha riferito che andasse su Gaia. Si è anche preoccupato di scandire bene ciascuna lettera: G-A-I-A.

— Gaia? Mai sentita — disse Kodell.

— No? Non c’è da stupirsene. — La Branno indicò il punto in aria dove prima c’era la mappa. — Sulla mappa olografica posso localizzare nel giro di un minuto ogni stella intorno a cui giri un pianeta abitato, e molte stelle importanti con un seguito di sistemi non abitati. Manovrando i comandi a dovere si possono individuare più di trenta milioni di stelle, singole o binarie o riunite in ammassi che siano. Le posso individuare servendomi indifferentemente di cinque diversi colori, presi uno alla volta o tutti insieme. Però sulla mappa, Gaia non l’ho proprio trovata. Non risulta da alcuna parte: non esiste.

— Per ogni stella che la mappa mostra ce ne sono diecimila che non mostra — disse Kodell.

— D’accordo, ma le stelle che non mostra non hanno pianeti abitati, e perché mai Trevize dovrebbe voler andare su un pianeta deserto?

— Avete consultato il Computer Centrale? Ha in elenco tutti i trecento miliardi di stelle della Galassia.

— Così dicono, ma è vero? Voi e io sappiamo bene che ci sono migliaia di pianeti abitati che sono riusciti a sfuggire alla catalogazione delle nostre mappe. E non parlo solo della mappa di questa stanza, ma anche di quanto sia registrato dal Computer Centrale. A quanto pare, Gaia è uno di quelli.

Il tono di Kodell rimase calmo, quasi suadente. — Sindaco, forse siamo fuori strada, con questi ragionamenti. Trevize può benissimo non essere a caccia della Terra, ma a caccia di oche selvatiche in qualche remoto pianeta. Può averci mentito, può non esserci alcuna stella chiamata Gaia e può in genere non esserci alcuna stella che corrisponda alle coordinate da lui forniteci. Secondo me sta cercando di farci perdere le sue tracce, ora che ha incontrato Compor su Sayshell ed ha capito probabilmente che seguiamo i suoi spostamenti.

— Come potrebbe con la mossa delle coordinate false farci perdere le sue tracce?

Compor continuerà a seguirlo. No, Liono, ho in mente un’altra eventualità, che può portare a guai ben più seri.

La Branno s’interruppe un attimo, poi continuò: — La stanza è schermata, non preoccupatevi. Non ci può sentire nessuno, quindi sia voi sia io siamo liberi di dire quello che vogliamo, cosa che vi prego di fare.

«Tornando a Gaia, se ammettiamo che le informazioni siano attendibili, si troverebbe a dieci parsec da Sayshell e farebbe quindi parte dell’Unione Sayshell.

L’Unione Sayshell è una zona della Galassia che è stata esplorata capillarmente, tutti i suoi sistemi stellari, popolati o meno, sono stati registrati, e quelli popolati sono ben conosciuti. Gaia è l’unica eccezione. Abitata o no, nessuno ne ha sentito parlare e non compare in alcuna mappa. A questo si aggiunge il fatto che l’Unione si è sempre mantenuta indipendente dalla Federazione della Fondazione, anche all’epoca in cui il potere era in mano al Mulo. È indipendente fin dalla caduta dell’Impero Galattico.

— E allora? — disse Kodell, cauto.

— Indubbiamente bisogna collegare i due punti che ho messo in evidenza.

L’Unione Sayshell ha al suo intorno un sistema planetario del tutto sconosciuto, ed è intoccabile. Non può non esserci un nesso fra la prima considerazione e la seconda.

Gaia, qualunque cosa sia, si difende accanitamente dall’esterno; si preoccupa che non giunga ad alcuno notizia della propria esistenza e protegge i propri dintorni immediati. in modo che gli estranei non possano attaccarla.

— Mi state dicendo, sindaco, che Gaia sia la sede della Seconda Fondazione?

— Vi sto dicendo che Gaia meriti un’ispezione accurata.

— Posso avanzare un’obiezione a questa ipotesi?

— Certamente.

— Se Gaia fosse la sede della Seconda Fondazione, e se si fosse difesa per secoli contro gli intrusi trattando l’intera Unione Sayshell come un vasto scudo di protezione, ed evitando addirittura di far trapelare notizia della propria esistenza, perché tutto d’un tratto avrebbe troncato questa strategia difensiva? Trevize e Pelorat, benché consigliati da voi di andare su Trantor, si sono diretti subito e senza esitazione verso Sayshell ed adesso su Gaia. Per di più voi state parlando tranquillamente di questo pianeta: come mai non vi viene impedito di farlo?

Il sindaco rimase per un pezzo in silenzio. La sua testa di capelli grigi, lievemente inclinata, brillava a tratti nella luce della stanza. Alla fine la Branno disse: — Perché credo che il consigliere Trevize abbia in qualche modo messo tutto quanto sottosopra.

Ha fatto qualcosa, o sta facendo qualcosa, che minaccia di compromettere il Piano Seldon.

— Questo è assolutamente impossibile, sindaco.

— Punti deboli ci sono dappertutto ed in tutti. Certo nemmeno Hari Seldon era perfetto. Anche il Piano deve avere una sua pecca e Trevize per caso l’ha trovata, magari senza neppure rendersi conto di averla trovata. Dobbiamo scoprire che cosa stia succedendo e dare un’occhiata alla situazione.

Kodell assunse per la prima volta un’espressione grave.

— Non prendete decisioni per conto vostro, sindaco. Non è il caso che ci muoviamo senza averci prima riflettuto su adeguatamente.

— Non trattatemi da idiota, Liono: non intendo fare la guerra; non intendo far atterrare un corpo di spedizione su Gaia. Voglio solo osservare le cose stando direttamente sul luogo, o nei dintorni, se preferite. Siccome detesto avere contatti con un Ministero della Guerra che non vede più in là del suo naso, il che è logico forse, dopo centovent’anni di pace, e siccome mi pare che a voi invece non secchi averci a che fare, vi chiederei di farmi sapere quante navi da guerra si trovino nelle vicinanze di Sayshell, Liono. Bisognerebbe però che i loro spostamenti apparissero di routine, e non una mobilitazione...

— In questi tranquilli tempi di pace sono sicuro che nelle vicinanze di Sayshell non ci saranno molte navi. Ma lo scoprirò.

— Basteranno anche due o tre, specie se ce n’è una del tipo Supernova.

— Che intenzioni avete?

— Voglio che le navi si spingano il più vicino possibile a Sayshell senza creare un incidente diplomatico, e voglio che stiano abbastanza vicine l’una all’altra da prestarsi mutuo soccorso.

— Per quale scopo?

— Disporre di una certa elasticità: voglio essere in grado di attaccare, se ci sarò costretta.

— Attaccare la Seconda Fondazione? Se Gaia è stata capace di mantenere la propria indipendenza e di non farsi conquistare nemmeno dal Mulo, penso che potrà tranquillamente affrontare due o tre nostre navi.

Con gli occhi che brillavano per la voglia di combattere, Harla Branno disse: — Amico mio, vi ho detto che niente e nessuno sono perfetti, nemmeno Hari Seldon.

Quando Seldon ideò il suo Piano, poté astrarsi solo fino a un certo punto dallo spirito dei suoi tempi. Era un matematico dell’epoca della decadenza dell’Impero ed allora la tecnologia era moribonda. Logico quindi che non potesse tenere sufficientemente in conto l’ipotesi di un forte progresso tecnologico. I motori gravitazionali, ad esempio, che hanno segnato una svolta dal punto di vista tecnologico, non potevano essere nemmeno lontanamente concepiti a quell’epoca. E siamo andati molto avanti non solo con quelli.

— Anche Gaia potrebbe essere andata avanti.

— Isolata com’è? Via, non scherziamo. Nella Federazione della Fondazione ci sono dieci quadrilioni di esseri umani, e fra questi se ne possono trovare tanti capaci di contribuire al progresso tecnologico. Un singolo mondo isolato non può fare niente di buono, in confronto. Le nostre navi avanzeranno verso i confini di Sayshell ed io sarò con esse.

— Scusatemi, sindaco, ma credo di non aver capito bene.

— Andrò dove si raduneranno le navi, ai confini di Sayshell. Voglio controllare di persona la situazione.

Per un attimo Kodell rimase a bocca aperta. Deglutì a vuoto, producendo un rumore distintamente udibile, poi disse, con chiaro eufemismo: — Non è... prudente, sindaco.

— Prudente o no — disse la Branno, brusca, — lo farò. Sono stufa di Terminus e delle sue interminabili lotte politiche, sono stufa dei suoi conflitti, delle sue alleanze e contro-alleanze, dei suoi tradimenti e dei suoi rimpasti. Da diciassette anni sono in mezzo a questi intrighi e ho voglia di qualcosa di diverso. Qualsiasi cosa. — Fece un gesto vago con la mano. — Là nello spazio forse sta cambiando l’intera storia della Galassia ed io voglio prender parte ad un tale processo.

— Voi non sapete niente di queste cose, sindaco.

— E chi ne sa qualcosa, Liono? — Harla Branno si alzò in piedi, rigidamente. — Appena mi darete le informazioni che mi occorrono ed appena avrò sistemato le cose in modo che gli stupidi affari di Terminus procedano come devono procedere, partirò.

Ah, una cosa ancora, Liono: non cercate con qualche manovra di farmi recedere da questa decisione, o sarò costretta a troncare la nostra lunga amicizia e a rovinarvi la carriera. Posso ancora farlo.

Kodell annuì. — Lo so che potete, sindaco, ma prima che la vostra decisione sia definitiva, posso chiedervi di riflettere sulla forza e l’efficacia del Piano Seldon?

Quello che intendete fare potrebbe equivalere ad un suicidio.

— Di questo non ho affatto paura. Il Piano Seldon ha già sbagliato una volta, perché non previde il Mulo. E se ha mancato una previsione una volta, può mancarla anche una seconda.

Kodell sospirò. — Allora, se siete proprio decisa, vi sosterrò più che posso, con la massima lealtà.

— Bene. Ancora una volta vi avverto che è vostro interesse che questa dichiarazione sia sincera. Ed adesso, Liono, pensiamo a Gaia. Coraggio!

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